La miseria e stupidità umane contemplate e persino riflesse nello spazio

Scusate l’ingenuità, ignoranza e quant’altro vi venisse voglia di attribuirmi, ma debbo confessarvi che fra tutte le foto pubblicate con maggiore evidenza sulle prime pagine dei giornali emblematiche della guerra in corso in Ucraina, e dei conflitti che potrebbero seguire dopo che Putin ha avvertito i suoi interlocutori telefonici che “il peggio potrebbe ancora venire”, non essendo riuscito nei pochi giorni da lui programmati a “denazificare” il paese confinante per meglio annetterselo, evidentemente; fra tutte le foto, dicevo, in gran parte peraltro identiche, ritraendo le macerie di un ponte sotto le quali si sono rifugiati gli scampati alla morte, quella che mi ha colpito di più è sul Sole 24 Ore, il noto e diffuso giornale della Confindustria. 

  Da un quotidiano del genere qualcuno si aspetterebbe la foto di un’industria distrutta, o un grafico sulle borse in caduta più o meno libera, o un titolo rivelatore dei danni economici e sociali già prodotti dai dieci giorni di guerra di Putin e di quelli che potrebbero aggiungersi e riguardare tutti noi, anche vivendo lontani dall’Ucraina, o solo ospitandone tante brave donne che badano ai nostri anziani o malati, e di cui raccogliamo in questi giorni le lacrime, le apprensioni, le richieste di aiuto o di accoglienza dei loro familiari. 

Dalla prima pagina del Sole 24 Ore

      No. Il giornale della Confindustria ci ha proposto ancora più desolatamente, come vi spiegherò,  la foto di copertina, chiamiamola così,  della Stazione Spaziale Internazionale in orbita attorno alla terra, a circa 400 chilometri di distanza, da più di 20 anni in corsa a 27.600 chilometri l’ora e programmata per viaggiare sino al 2024. Ebbene, anch’essa è a rischio per effetto della guerra in Ucraina e dintorni, con i suoi oltre 100 metri di intelaiature, moduli e laboratori, e il suo equipaggio fra i due e i sette membri, alternati   a scadenze naturalmente ben studiate, perché si sono “interrotti -dice il giornale-  i rapporti con i russi”. Che sono troppo presi evidentemente dagli ultimi e prevalenti interessi di Putin e dei suoi generali per occuparsi da terra anche di questa stazione spaziale di cui peraltro possiedono i moduli condividendo il resto con le agenzie spaziali degli Stati Uniti, dell’Europa, del Giappone e del Canada, tutte interessate non solo ad esplorare lo spazio ma anche o soprattutto ad esperimenti di biologia chimica, fisiologica e fisica.

Nella mia ingenuità, ripeto, ignoranza e quant’altro sono turbato, scandalizzato, sbigottito, non solo e non tanto perché Putin e i sui uomini, e donne, non prestano la dovuta attenzione all’impresa spaziale internazionale nella quale il loro Paese è impegnato con  denari, mezzi e astronauti, ma perché e come tanti paesi messisi così lodevolmente insieme per compiere una missione del genere nello spazio non riescono su questa nostra povera e dannata terra ad andare d’accordo, o a ritrovarlo un minuto dopo -non di più- averlo perduto per qualsiasi ragione, nobile o volgare che sia. E preferiscono invece tutti insieme o solo alcuni di essi fare i conti dei danni che possono procurarsi a vicenda, o della gente da fare scappare dalle loro case, o dei morti che riescono a lasciare sul campo senza lasciarli neppure seppellire. Ma in che  razza di mondo e di cosiddetta umanità ci è capitato di vivere, e di rischiare di morire precocemente?  

In memoria dell’amico carissimo Antonio Martino

    In qualche modo figlio d’arte, essendo stato il padre, Gaetano, lo storico ministro liberale degli Esteri della Repubblica d’Italia sottoscrittore, col presidente del Consiglio democristiano Antonio Segni, dei trattati di Roma istitutivo della Comunità Europea, si può ben dire che con la morte di Antonio Martino il Paese ha perduto un pezzo d’argenteria davvero pregiato della sua politica. 

Gaetano Martino, papà di Antonio

  Ministro degli Esteri pure lui nel primo governo di Silvio Berlusconi, e poi ministro della Difesa, sempre nelle coalizioni di centrodestra nella cosiddetta seconda Repubblica, Antonio Martino giunse alla politica come il padre dalla medicina. Ed entrambi fecero in politica ancora più e ancor meglio che nei loro campi di provenienza o formazione. Furono accomunati anche da un carattere tanto affabile quanto intransigente nella difesa delle loro idee o dei loro stili, a volte anche a costo di una certa rudezza. 

Berlusconi e Martino insieme

  Provvisto della tessera numero 2 di Forza Italia, essendo la numero 1 quella del fondatore Silvio Berlusconi, e stimatissimo dal Cavaliere sino alla soggezione, di cui sono stati avvertiti i  segni anche nella voce con la quale l’ex presidente del Consiglio lo ha ricordato oggi al telefono commentandone la morte ai telegiornali, Antonio Martino non gli risparmiava critiche quando le riteneva opportune. Ancora di recente in alcune interviste non nascose i suoi dubbi sull’opportunità politica della candidatura di Berlusconi al Quirinale, scherzando su tutte le residenze di lusso delle quali poteva disporre, e che avrebbe più propriamente goduto. 

      Una volta, da ex ministro ormai, e anche da parlamentare stanco di un’esperienza che trovava ogni volta più amara in considerazione del livello generale o medio dei deputati e dei senatori che si avvicendavano, grazie alla confidenza che avevamo, mi mostrò su un divano di Montecitorio un biglietto che si accingeva a mandare a Berlusconi. Scritto a mano, esso diceva pressappoco così: “Caro Silvio, vedo che da qualche tempo ti circondi di donne con molto seno e poco senno”. 

    Ne ridemmo insieme, ma gli dissi. “Professore, dopo questo biglietto, per quanto ex ministro e tutto il resto, non otterrà nemmeno una presidenza di commissione in questa legislatura”, come avvenne. E lui, senza scomporsi minimamente, mi assicurò, sempre sorridendo “Lo so benissimo”. 

Del resto, solo a lui poteva capitare da possibile candidato alla segreteria generale della Nato, com’era per l’alta considerazione che ne avevano alla Casa Bianca, di sottrarsi all’evenienza per i troppi scombussolamenti che la carica avrebbe procurato alle sue abitudini di vita, di lavoro e di pur modesto svago.

Antonio Martino in una foto recente

    Addio, professore carissimo. E grazie della stima ed amicizia accordatemi tanto a lungo, anche nel nostro caso senza sconti. Come quello negatomi quando Le dissi di avere appena votato, da ex elettore giovanissimo del partito liberale, per il Psi guidato da Bettino Craxi. Avemmo su questo anche una beve, elegantissima polemica sulle colonne del Tempo. 

    Bei tempi, bei ricordi, belle menti. Ma perché, professore, mi ha voluto precedere nella partenza pur avendo meno anni, sia pure pochi, di me?

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Enrico Letta… nomina Conte custode e garante del governo Draghi

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

  Non ha per niente torto il Corriere della Sera a lamentare, nel richiamo di un lungo articolo di Francesco Verderami finito purtroppo a pagina 25, che “a forza di chiedere il cessate il fuoco in Ucraina, i partiti hanno dimenticato di applicarlo in Italia”, mettendo persino a rischio la sopravvivenza del governo. Che si è appena salvato per un solo voto in commissione alla Camera su una revisione del catasto di là da venire, fra non meno di quattro anni, e a gettito fiscale invariato, nel suo complesso, per un impegno ripetutamente preso dal presidente del Consiglio Mario Draghi. 

  Quest’ultimo potrà certamente cambiare nel frattempo, per carità, tenendo conto che massimo fra un anno verranno rinnovate le Camere, e di parecchio, riducendosi di un terzo i seggi parlamentari e cambiando di sicuro, e di molto, i rapporti di forza tra i partiti e simili. Fra i quali il più penalizzato è destinato ad essere quello dei grillini, dopo essere stato “centrale”, come una volta la Dc, in questa legislatura ormai all’epilogo. Ma è già scritto nel disegno di legge delega fiscale che ogni eventuale variazione d’imposta sulla casa non potrà essere apportata, catasto o non catasto, senza passare prima per il Parlamento. 

    Giustamente in un’altra parte dello stesso Corriere della Sera, intervistato per telefono di ritorno da Parigi, il segretario del Pd Enrico Letta ha denunciato la campagna di disinformazione del centrodestra -sia delle componenti della maggioranza sia di quella di Giorgia Meloni all’opposizione- orchestrata per dare per scontati gli aumenti fiscali sulla casa e seminare panico elettorale e politico. 

Il segretario del Pd al Corriere della Sera

      Eppure Enrico Letta, sempre lui, non un omonimo, chiamato a pronunciarsi sulla clamorosa dissociazione di alcuni senatori pentastellati dalla risoluzione della maggioranza sulla crisi, cioè sulla guerra in Ucraina, a cominciare dal presidente della Commissione Esteri Vito Rosario Petrocelli, deciso a restare lo stesso al suo posto, ha testualmente risposto: “Mi sembra che i 5 Stelle abbiano tenuta una linea chiara. Non vedo problemi. Hanno tenuto anche sul catasto. Se il governo è ancora in piedi è grazie a Conte”. Che peraltro non è neppure parlamentare, ma ciò nonostante -a sentire il segretario del Pd- riuscirebbe a controllare i gruppi sia dei senatori sia dei deputati: cosa che non risulta alla generalità dei cronisti politici. 

        A parte il fatto che, proprio mentre Enrico Letta parlava o prima ancora ma senza che nessuno fosse riuscito ad avvertirlo in tempo, arrivavano dai grillini notizie per nulla rassicuranti sui loro umori proprio in tema di catasto e dintorni, in previsione del passaggio del provvedimento in aula; a parte, dicevo, questo fatto non secondario, è quanto meno singolare che il segretario del Pd declassi praticamente a una bazzecola la dissociazione del presidente della Commissione Esteri del Senato e altri colleghi gruppo dalla linea del governo esposta personalmente dal presidente del Consiglio, e riassunta in un documento comune di maggioranza, su un problema che fa paura a tutto il mondo, e non solo all’Italia e all’Europa, minacciate ora anche dall’estensione degli obiettivi militari dei russi alle centrali nucleari. 

    Arrivano intanto proprio dall’interno della Commissione Esteri del Senato notizie di una certa apprensione politica, diciamo così, per l’imminenza di un voto predisposto dal presidente su un documento concordato -udite, udite- con  gli omologhi parlamentari russi. 

         Mi chiedo con una certa incredulità se e come possano essere pagati prezzi così alti nel Pd  all’interesse, al desiderio, al disegno e quant’altro di un rapporto sostanzialmente privilegiato con i grillini di Conte, tuttora sospeso giudiziariamente -non dimentichiamolo- dalle sue funzioni di presidente del MoVimento 5 Stelle. 

Ripreso da http://www..policymakermag.it

Il predatore Putin peggiore dei suoi predecessori regali e rivoluzionari

Titolo del Dubbio

 La pezza, si sa, è spesso peggiore del buco, specie quando la si improvvisa. Vale anche per il modo in cui ho sentito e visto giudicare quell’aggettivo “sovietico” usato su molti giornali ma anche nel dibattito parlamentare svoltosi sulla guerra in Ucraina  dopo la linea di fermezza esposta dal presiedente del Consiglio Mario Draghi. Che ha parlato della Russia e di Putin non dando del sovietico né all’una né all’altro, giustamente consapevole che l’Unione Sovietica, appunto, ha cessato per fortuna di esistere da tempo, dissoltasi spontaneamente, implosa e non esplosa per chissà quale bomba o missile lanciato da una qualsiasi delle tante postazioni della Nato create per difendersene. Invece -ripeto- del sovietico è stato dato sia alla Russia, sia a Putin, sia ai soldati inviati in Ucraina dalla terra e dal cielo, con tanto di documentazioni fotografiche o televisive. 

    Lo si è detto e lo si è scritto -si è spiegato dai pochi, in verità, che hanno mostrato di esserne rimasti sorpresi e persino dispiaciuti, rimanendosene però zitti persino nei salotti televisivi di cui erano conduttori o padroni di casa- per sottintendere politicamente la nostalgia del regime sovietico che si coltiverebbe a Mosca, E che spiegherebbe l’aggressione all’Ucraina. In Putin sarebbe di particolare evidenza per la carriera fatta nei servizi segreti dell’Unione Sovietica in qualche modo propedeutica al suo arrivo poi al Cremlino, quando la bandiera rossa con la falce e martello era stata già ammainata da tempo e sventolava al suo posto quella della Russia. 

Immagine storica di Lenin

         Magari fosse solo questione di nostalgia del sovietismo e simili, mi verrebbe da dire pur da anticomunista che sono stato come elettore e come giornalista, arruolato alla fondazione del Giornale da Indro Montanelli  e sottratto, con le scuse d’uso in quei tempi, al Giornale d’Italia di Alberto Giovannini, ma ciò nonostante amico ed estimatore di tanti elettori e giornalisti dell’altra parte, compresi quelli con i quali ho più frequentemente polemizzato: dal mitico Fortebraccio dell’Unità ad Aniello Coppola, da Emanuele Macaluso a Walter Veltroni, da Umberto Ranieri a Renato Venditti, da Claudio Petruccioli a Giorgio Frasca Polara, da Candiano Falaschi ad Antonio Caprarica, da Miriam Mafai a Piero Sansonetti. Col quale ultimo peraltro non ho neppure avuto occasione di polemizzare ma solo di collaborare, essendoci conosciuti e frequentati troppo tardi. 

L’ultimo zar

  Magari, dicevo, fosse solo questione di nostalgia del passato, perché l’Unione Sovietica fu il prodotto di una rivoluzione, tragica come riescono ad essere tutte le rivoluzioni, a cominciare da quella francese del 1789. Alla quale una volta si collegò Giancarlo Pajetta per reagire a tutto il sangue e a tutte le ingiustizie attribuite dalla rivoluzione sovietica. Erano insanguinate, mi disse una volta in privato quel polemista irriducibile, anche le “Crociate di Santa Romana Chiesa”. 

      Nulla di tutto questo, mei cari signori,  sento di riconoscere, intravvedere e contestare a uno come Putin. Che non vuole ripristinare i soviet nella sua Russia né esportarli nel mondo, a piedi o sui carri armati. No. Io sento e avverto quell’uomo solo come un predatore: di potere, di ogni tipo, e territori con tutto ciò che vi contengono. E’ qualcosa di più e di peggio del sovietismo, che aveva una sua visione della società e dell’organizzazione dello Stato. Era insomma un’ideologia, che ha mietuto milioni di vittime di certo, ma per la quale si sono volontariamente immolati in tanti, credendo alle loro bandiere e non confessandosi, una volta catturati dal nemico di turno, com’è capitato in questi giorni in Ucraina, di non sapere dove fossero stati mandati a combattere e uccidere e per che cosa. 

Pubblicato sul Dubbio

Cronache minori, ma non tanto, di politica interna nel fuoco internazionale

Titolo del manifesto
Titolo del Foglio

  Già avvertita ieri nell’aria, con la puntualità non so se più comica o più tragica rispetto agli sviluppi drammatici della situazione internazionale, la politica interna italiana ha fatto cadere la classica macchia d’inchiostro su un foglio ben steso di carta bianca, o ha procurato uno sfregio sulla tela appesa alla parete principale di un museo, o -come preferite e stando al titolo del manifesto sulla guerra in Crimea- si è calata nel “corridoio della paura” che si estende metaforicamente dalle viscere di Kiev a tutta l’Europa e anche oltre. E tutto ciò mentre Putin direttamente dal Cremlino o indirettamente, parlandone al telefono col presidente francese Macron, avverte che “il peggio deve ancora avvenire”, come ha gridato in rosso Il Foglio. Che pure ieri dava ancora lo stesso Putin “trattenuto” nella gestione del conflitto. 

Titolo del Fatto Quotidiano

    “Le destre mollano Draghi”, ha annunciato Il Fatto Quotidiano a proposito della rottura consumatasi sulla revisione del catasto nella commissione Finanze della Camera, dove il governo si è salvato per un solo voto: quello di Alessandro Colucci, del lillipuziano movimento di Maurizio Lupi. “Maggioranza dimezzata”, ha insistito il giornale di Travaglio tradendo il rammarico di non poter attribuire un simile dimezzamento ad uno strappo compiuto dai grillini, sui cui mal di pancia nella combinazione di governo egli soffia quotidianamente come sul fuoco. 

Titolo di Repubblica
Titolo del Giornale

      “Crisi sfiorata”, ha confermato la Repubblica. “Il catasto fa tremare il governo”, ha insistito Il Giornale accennando nel titolo anche ad una “mediazione” fallita di Silvio Berlusconi in persona, alla fine rimasto con la Lega e Giorgia Meloni contro l’articolo contestato della delega fiscale. Nel quale Alessandro Sallusti su Libero ha visto e indicato, nel suo editoriale, “l’apertura di corridoi fiscali al mai sazio partito dei tassatori” della casa. E ciò -ha aggiunto- “in un tempo in cui occorre seminare non incendiare il campo della politica interna”. Ancora più critico il giudizio o commento di Maurizio Belpietro sulla Verità: “Centrodestra umiliato” e “maggioranza a pezzi”.

Angela Inaro, passata alla Camera da 5 Stelle al Pd

      Anche sul versante di sinistra della maggioranza, diciamo così, nonostante lo schiaffo inferto al centrodestra, le cose non vanno molto bene.Il pentastellato Stefano Buffagni, per esempio, ha affrontato personalmente alla Camera l’ex capogruppo del Pd Graziano Delrio rimproverandogli di avere soffiato al MoVimento grillino la deputata Angela Ianaro sorpassando all’ultimo momento la concorrenza della Lega. Alla protesta -trattandosi del quarto passaggio parlamentare in poco tempo- si è associato il capo della delegazione delle 5 Stelle al governo Stefano Patuanelli, non molto d’accordo evidentemente col più influente collega di partito e ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che tra le varie incombenze della guerra in Ucraina ha trovato la voglia e il tempo di esprimere apprezzamento per la pur transfuga Ianaro. 

Giuseppe Conte

           Sono miserie, certamente, ma pur sempre  significative rispetto a quello che accade alle spalle e sulla testa del governo e dello stesso MoVimento 5 Stelle. Il cui presidente Giuseppe Conte, per esempio, pur non essendo riuscito a convincerlo ad accettare la risoluzione della maggioranza concordata sulla crisi ucraina, si è schierato come una guardia del corpo in difesa della permanenza del dissenziente Vito  Rosario Petrocelli alla presidenza della Commissione Esteri, non Agricoltura o Trasporti o Turismo, del Senato della Repubblica. Chissà, qualche ringraziamento gli sarà già arrivato da qualcuno dei sottoposti di Putin al Cremlino. O gli arriverà prima della scadenza del mandato, dell’uno o dell’altro.  

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Avverto politici e colleghi giornalisti che l’Unione Sovietica non c’è più

  Cerchiamo adesso, cari amici giornalisti e politici, di non esagerare pur con tutta la solidarietà che meritano gli ucraini e il loro presidente Zelensky, riuscito fra i pochi, se non l’unico, vista la situazione dell’italiano Beppe Grillo, a passare sul serio dalle dimensioni di un conico a quelle di uno statista, o di un “guerriero per caso”, se vogliano fermarci alla definizione di Bernard-Henri Levy.  Cerchiamo, dicevo, di non esagerare nel ripercorrere all’indietro “la giungla della storia” che Mario Draghi ha preso in prestito, parlando in Parlamento, dall’americano ma greco di nascita Robert Kagan.

    Nello stesso Parlamento, particolarmente alla Camera, ho sentito un esponente della maggioranza inveire contro i “soldati sovietici” nella martoriata Ucraina. Non parliamo poi dei salotti televisivi di ogni colore e proprietà, dove si  discute disinvoltamente della “Russia sovietica” di Putin senza che nessun conduttore abbia nulla da interrompere o precisare, magari solo per ricordare che l’Unione Sovietica è finita da un bel pò, anche se Putin di certo ne proviene con la non indifferente o insignificante esperienza dei servizi segreti. 

        Non ho mai votato in vita mia per il Pci e sigle successive, tentato una volta sola dal Pd di Walter Veltroni ma dissuaso rapidamente dalla scelta dello stesso Veltroni, in tempo prima del voto, di apparentarsi elettoralmente con Antonio Di Pietro piuttosto che con i radicali, ma sono convinto che la Russia sovietica anche nella sua tragicità fosse non dico migliore ma sicuramente diversa da quella di Putin. Che non vuole esportare nessuna rivoluzione, con tutte le tragiche illusioni che ogni rivoluzione porta con sé, ma solo importare territori, come gli zar ai quali non a caso Putin non disdegna di essere paragonato, facendosi aprire le porte dei saloni del Cremlino da guardie imponenti rispetto alle quali i Corazzieri del nostro Sergio Mattarella sembrano dei poveracci da Porta Portese. 

Titolo in rosso del Foglio
Titolo in nero, sempre del Foglio

      Cerchiamo di non esagerare neppure nella tragicomica caccia al russo apertasi anche in Italia, fra teatri, biblioteche e simili perché c’è un limite a tutto, anche al ridicolo. In cui, peraltro, mi spiace davvero, sia caduto anche un giornale raffinato come Il Foglio, in più col ritorno ormai consolidato di Giuliano Ferrara al lavoro dopo avere rimesso a posto il cuore, titolando in rosso direi d’ufficio “l’Inferno attorno a Putin”, che però subito sotto, in nero, viene segnalato come uno che “si trattiene”, perché “i russi bombardano le città ucraine ma non vanno fino in fondo”. Il che significa che “si negozia sottobanco”, ancora più o ancor più continuativamente che sopra il banco ufficiale. Sotto terra intanto finiscono le vittime prevalentemente civili della guerra o corrono a nascondersi i vivi, tra cunicoli, cantine, gallerie, stazioni metropolitane ed altro, per salvarsi dalle bombe, o portarvi i malati in fuga dagli ospedali. Che orrore, che tristezza, che vergogna. Questo Putin -ripeto- addirittura “si trattiene”. Pensate un pò quando deciderà di non trattenersi più, se chi gli sta “attorno” nell’Inferno del Cremlino gliene darà il tempo. 

Titolo del Riformista

    Andrei piano con le esagerazioni anche nel trattare o riferire sugli sviluppi della politica interna italiana. A proposito della quale posso capire la soddisfazione con la quale, alternando nero e rosso, Marco Travaglio riferisce sul suo Fatto Quotidiano che “dopo la finta unità nazionale sulle armi all’Ucraina, M5S e Lega sfidano di  nuovo Draghi” e “la maggioranza torna a scontrarsi sulle cose che contano”, come “il catasto”. Comprendo un pò meno come Draghi, con tutto quello che sta accadendo in Europa e nel mondo, si lasci rappresentare così anche da un giornale a lui certamente non ostile come Il Riformista  di Piero Sansonetti: “Draghi avverte: riforma del catasto o è crisi”. Boom. 

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Il felice ossimoro di un governo Draghi vecchio e nuovo

Paracadutisti russi lanciati in Ucraina

    Il governo di Mario Draghi, specie per chi ha potuto vederlo da casa in televisione alle prese col dibattito parlamentare sulla crisi ucraina, non è cambiato. E’ sempre lo stesso, col medesimo presidente del Consiglio, con gli stessi ministri e gli stessi sottosegretari. Si è solo allargata ulteriormente, sulla gravissima situazione internazionale creatasi con l’invasione russa dell’Ucraina, la sua base parlamentare estendendosi sino alla destra di Giorgia Meloni. 

    Eppure non è  del tutto lo stesso governo di prima. Nè quello formatosi poco più di un anno fa all’insegna della straordinarietà o emergenza certificata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nella impossibilità pandemica di mandare gli italiani alle elezioni anticipate. Nè quello che sembrava un pò ammaccato alla fine della recente corsa al Quirinale, conclusasi con la conferma di Mattarella ma che aveva purtroppo convolto anche Draghi come candidato alla successione. Ma ciò per i troppo insistiti -possiamo ben dirlo- rifiuti del presidente uscente di considerarsi disponibile ad una rielezione. 

Sergio Mattarella

    Per quanto fosse stato proprio Draghi a muoversi più decisamente e concretamente per la conferma di Mattarella, sul presidente del Consiglio era un pò rimasta l’ombra di un sostanziale o mezzo sconfitto, cui poter imporre persino un rimpasto o rimpastino, liquidato dal presidente appena confermato con la decisione di respingere le tradizionali dimissioni di cortesia del governo in carica. Ma erano rimasti fuochi o fuocherelli, o braci, tra le pieghe di una maggioranza troppo larga per essere davvero o sempre omogenea, e col maggiore partito della combinazione -il MoVimento 5 Stelle- persino a guida appesa ad un tribunale, a dimostrazione ulteriore di quanto squilibrato sia il sistema politico e persino istituzionale del Paese a 30 anni di distanza dallo straripamento del potere giudiziario. 

Il presidente ucraino Zelensky collegato col Parlamento europeo

    Ogni velo di incertezza, di nebbia, di torbide manovre è stato spazzato via da quello che Draghi con dotta citazione ha definito in Parlamento “il ritorno alla giungla della storia”, di cui si è assunta la responsabilità a Mosca Putin aggredendo l’Ucraina. E cadendo, nella migliore delle ipotesi per lui, nelle provocazioni di un comico rivelatosi tuttavia più astuto del presunto nuovo zar, anche se con le idee ancora un pò confuse perché si è appena e giustamente appellato all’Europa, ottenendone una difesa immediata e concreta, e al tempo stesso ha invocato la mediazione della Cina. Che -francamente- non mi sembra una cosa molto coerente: più da comico, appunto, alla Beppe Grillo che della Cina è infatuato, che da statista, o da “guerriero per caso”, come Zelensky è stato  felicemente incoronato da Bernard-Henri Levy. Il quale ha avuto modo di conoscerlo e  frequentarlo.

Vignetta del Corriere della Sera

      Ora che è tornata -ripeto- la giungla della storia, e Putin attraversa la piazza rossa sul tappeto di teschi che impietosamente gli ha steso sotto gli stivali Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera, il governo Draghi può ben considerarsi in Italia in una botte di ferro, con la linea che ha saputo adottare e nelle debolezze accresciute dei suoi disturbatori. E’ l’ossimoro di un governo uguale e nuovo allo stesso tempo. Di fronte al quale fanno semplicemente ridere sia il presidente pentastellato della commissione Esteri del Senato, che ha dissentito dalla linea della maggioranza, sia quegli otto forzisti -addirittura- assentatisi  perché fermi forse alle immagini vacanziere di Berlusconi con Putin. 

Titolo del Foglio
Ancora dal Foglio

    “Draghi più che politico”, ha titolato in prima pagina Il Foglio replicando in qualche modo all’interno: “Draghi non è più un tecnico”. Bei titoli, entrambi, per sua e nostra fortuna, per quanto indigesta al pentastellato incollato alla sedia di quella commissione al Senato.  

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Incredibile ma formidabile la roulette russa cui si è ridotto Putin

La testimonianza di Bernard-Henri Levy a favore di Zelensky su Repubblica

A leggere e rileggere su Repubblica di ieri quel mostro di bravura, di imprevedibilità, di anticonformismo nella testimonianza sul “guerriero per caso”, come ha chiamato l’amico e presidente ucraino Volodymir Zelensky, ho un pò vacillato. E mi sono chiesto se non avessi esagerato a pensare e a scrivere di lui come di un più giovane o meno anziano Beppe Grillo ucraino messosi a giocare con la politica sino a portare inconsapevolmente il suo paese alla guerra, e la carne della sua gente ai denti di un Dracula travestito da zar, come è già finito nelle caricature di piazza.

BHL su Zelensky e Grillo

Levy, che d’ora in poi per comodità chiamerò anch’io, come i suoi ammiratori, con l’acronimo BHL, pregandovi caldamente di non scambiarlo per la marca di un’auto, o di un fuoristrada, ha raccontato, fra l’altro, della forte protesta ricevuta dall’amico quella volta in cui egli osò paragonarlo, alla vigilia della sua elezione a presidente dell’Ucraina, a “quell’altro cabarettista fondatore del Movimento 5 Stelle in Italia”, cioè Beppe Grillo. Che l’anno prima aveva  mandato il suo movimento alle Camere facendogli rasentare la vittoria, conquistata invece cinque anni dopo, nel 2018, e producendo per giudizio quasi unanime degli esperti la legislatura più pazza del mondo. Che è stata raddrizzata in extremis, l’anno scorso, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella prima mandando a Palazzo Chigi uno come Mario Draghi e poi lasciandosi confermare al Quirinale per altri sette anni, non per l’uno o i due anni del predecessore Giorgio Napolitano, anche lui rieletto alla scadenza del primo mandato. 

      Ad un altro attore il buon Zelensky aveva invece accettato volentieri di essere paragonato, sapendo tutto di lui, non considerandolo affatto “quel commediante di film western di serie B” ritenuto invece dall’amico e avendolo persino imitato in teatro: l’americano Ronald Reagan, salito sino alla Casa Bianca.

BHL di Zelensky e Putin

      E Di Putin, “l’altro Vladimir” evocato con lui da BHL? Anche di quello Zelensky disse lì per lì di essere “sicuro che sarebbe riuscito a farlo ridere come tutti in Russia il giorno in cui si sarebbero trovati faccia a faccia”. Eppure dopo tanta spavalda sicurezza di attore, comico e ormai anche politico Zelensky “piegandosi sopra il tavolo e abbassando la voce” nel ristorante dove qualcuno avrebbe potuto sentirlo minacciandone già allora la vita, aggiunse: “C’è una cosa però: quell’uomo non ha sguardo. Ha degli occhi, ma non ha sguardo. O se ha uno sguardo è di ghiaccio, privo di qualsiasi espressione”.  

  Non se n’era accorto, e tanto meno se n’era chiesto il motivo o aveva tentato di darsene una spiegazione, neppure quell’intuitivo eccezionale, affascinatore senza rivali com’è stato a lungo ritenuto in Italia Silvio Berlusconi. Al quale, ritenendo di fargli un torto, all’inizio della carriera politica l’esigentissimo e diffidentissimo Eugenio Scalfari, avendolo provato già come concorrente editoriale, gli aveva dato dell’impresario”. Che quando è davvero tale non deve mai sbagliare -o sbagliare assai di rado- nel giudicare chi gli sta davanti. E con Putin penso che anche lui si sia convinto di avere sbagliato in regali, complimenti e altro. 

      Ma cerchiamo di non uscire di tema. E permettetemi di concludere che, pur con tutto il rispetto e l’ammirazione che merita BHL, resto convinto che Zelensky proprio per avere capito così bene quell’uomo senza sguardo, o con lo sguardo di ghiaccio, avrebbe dovuto muoversi con più cautela e non dargli pretesti. Per il resto naturalmente auguro la vittoria non a Putin, che ormai gioca al Cremlino la roulette russa, ma al “guerriero per caso”, come l’amico filosofo.ha felicemente definito il presidente ucraino. Non vorrei però che Grillo si montasse la testa.

I conti che non tornano fra le sponde dell’Atlantico sulla crisi ucraina

Paolo Mieli ieri sul Corriere della Sera

 Sia pure col pessimismo della ragione, avrebbe detto Antonio Gramsci, o dello storico di professione come riesce a rimanere anche quando scrive da giornalista, temo che Paolo Mieli sia stato facile profeta nel prevedere ieri sul Corriere della Sera che “verrà il momento in cui molti torneranno a domandarsi pubblicamente se vale la pena fare dei sacrifici per gli ucraini. I quali, a ben guardare, se la sono cercata. Si dirà che Zelensky e i suoi -ha scritto l’editorialista- sono responsabili dei torti subiti a causa della protervia con la quale, “sotto insegne naziste” (Putin), intendevano puntare dei missili contro Mosca e San Pietroburgo. Torneranno a sottolineare, quei molti, che l’impatto delle sanzioni è asimmetrico, nel senso che danneggia l’Italia più di quanto nuoccia agli Stat Unti. E concluderanno che è giunta l’ora di prestar ascolto alle “ragioni dei  russi”. Cose già viste e sentite in passato, con altri dittatori, altre asimmetrie e altre “ragioni” dei prepotenti”. 

           Il guaio è che proprio il mio carissimo amico Paolo, nell’onestà del racconto a cui da storico non ha potuto sottrarsi, ha indicato un momento di questa lunga crisi ucraina in cui i conti non sono più tornati al giornalista. O all’osservatore, come preferite. Fu quando, nel 2009, appena eletto presidente degli Stati Uniti, il buon Obama si mise a studiare “la pratica” della possibile adesione della Georgia e dell’Ucraina alla Nato, di cui ora fanno parte ben 15 delle ex Repubbliche sovietiche, e ne andò poi a parlare con Putin direttamente senza litigare, anzi fra fiori e sorrisi, nella reciproca consapevolezza che le cose potessero andare avanti senza scambiarsi addosso missili e persino bombe atomiche, a sentire gli ultimi segnali giunti da Mosca. 

La rivoluzione arancione a Kiev

  Purtroppo dopo quel 2009 di fiori e sorrisi esplose a Kiev nel 2014 la rivoluzione arancione, come l’anno prima era scoppiata in Italia la mezza rivoluzione gialla dei grillini, con il loro sbarco in Parlamento, il tentativo di dettare la formazione del governo, anche se non avevano conquistato ancora la maggioranza relativa, e la pretesa di eleggere in piazza, davanti alla Camera, la buonanima di Stefano Rodotà a presidente della Repubblica, succedendo allo scaduto Giorgio Napolitano. 

    Qualcuno a Kiev, collega professionale di Beppe Grillo, il signor Volododymir Zelensky, apprezzato sullo schermo nei panni di un presidente onesto come un cristallo, lo seguì superandolo, cioè facendosi eleggere nel 2019 presidente dell’Ucraina. E maneggiò con l’imprudenza, la fantasia, la dabbenaggine e chissà cos’altro di un comico quella specie di bomba atomica che, nella realtà geopolitica del suo Paese, era diventata nel frattempo l’adesione alla Nato. E trasformò Putin, già strano e pericoloso di suo, in un Dracula insaziabile. 

      Ci sarà magari qualche esagerazione in questa rappresentazione dei fatti, ma di certo i comici in politica sembrano lì per lì baciati dalla fortuna, ma poi deludono: come Guglielmo Giannini proprio in Italia ai suoi tempi. 

Pubblicato sul Dubbio

       

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