La svolta di Zelensky in Ucraina: un pò tardi ma forse ancora in tempo

  Il botto questa volta per fortuna non lo ha fatto Putin, anche se non sono mancati neppure ieri bombardamenti e simili da lui ordinati alla carta sull’Ucraina, come spuntando il menù del ristorante di giornata, se ha ancora il tempo e i coraggio di mettervi piede a Mosca sera farlo prima svuotare. Il botto lo ha fatto l’antagonista e quasi omonimo Volodoimic, Parlo naturalmente del presidente ucraino Zelensky,  che ha smesso per un momento di recitare la parte del guerriero e, senza tornare in quella vecchia o tradizionale di comico, si è lasciata scappare una valutazione realistica, di buon senso, Ha detto che non è questo il momento, se lo è mai stato prima, di una partecipazione dell’Ucraina alla Nato. Dove di solito -nonostante il vecchio precedente della Turchia- cercano di tenere lontani paesi in grado di diventare più problemi che risorse. 

        Sin dal primo momento di questa tragedia, quando era già chiaro che Putin disponeva più di pretesti che di ragioni per mettere a ferro e a fuoco i vicini immaginandosi una mezza reincarnazione di Pietro il Grande, e per fortuna non di un Lenin, di uno Stalin o di un Breznev, ho francamente diffidato di questo Zelenski :un pò emulo -diciamo la verità- di un uomo che abbiamo ben conosciuto e provato in Italia, meno anziano o più giovane di lui, di none Beppe e di cognome Grillo. Che, con più umiltà dell’ucraino, ha assunto a suo modo un “avvocato del popolo”, senza attribuirsene direttamente il ruolo di servitore, ed ha cercato di ripetere l’operazione già tentata fra il 1992 e il 1993 dai magistrati di Milano e loro emuli un pò in tutta Italia di rivoltare il Paese come un calzino. 

        Per fortuna nostra, ma un pò anche sua perché avrebbe rischiato pure lui qualcosa che non aveva messo in conto, Grillo ha avuto come interlocutori prima Sergio Mattarella e poi Mario Draghi. L’unica cosa che è riuscito davvero a dissipare, oltre alla consistenza di un MoVimento valutato attualmente per meno della metà sei voti raccolti nel 2018, è quella manciata di banconote da un milione di euro lanciate figurativamente dall’allora capo ancora del MoVimento e vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio sulla folla raccoltasi davanti a Palazzo Chigi e finalmente liberata -secondo l’ironia del costituzionalista PaoloArmaroli in un libro appena uscito- dall’incubo della povertà. Peccato che adesso non sappiano neppure come pagare la luce o il gas di una casa neppure riscaldata. 

Titolo del Foglio
Giuliano Ferrara sul Foglio

      Generoso come sempre con gli attori, probabilmente per tradizioni familiari e culturali, il buon Giuliano Ferrara, sempre meglio rimesso dall’intervento al cuore che ha pompato per una vita una quantità impressionante di sangue, Giuliano Ferrara ha definito Zelensky “Il Churchill di Kyiv”. Del quale ha scritto sul Foglio, nell’impeto di cui solo lui è capace in certi momenti  letterari, che “parla molto, sbuca da ogni dove e incanta le tribune maggiori di tutto il mondo con i suoi collegamenti attendisti, sta nella posizione scomodissima di chi rischia personalmente e diffonde senso di colpa per la sua sorte, non condivisa da buoni cattivi  e cinici indifferenti, un tipo naturalmente superiore alle loro e mie opinioni. La sua resistenza impossibile, e imprevedibile per un comico d’avanspettacolo fattosi profeta dell’identità adamantina di una comunità di destino, che è diventata a sorpresa perfettamente europea, disposta al sacrificio e al negoziato anche il più spinto”. 

        Va bene, Giuliano. Ora lascia che riflettiamo un pò su tutto quello che hai scritto e che magari ti è rimasto ancora dentro e  farai uscire più avanti. E speriamo che, per quanto in ritardo, quel certo realismo finalmente affiorato dal tuo Zelensly serva a fermare Putin e a resitituirlo alla frequentazione e ai buoni sentimenti di certi nostri comuni amici, anch’essi in fondo uomini di spettacolo in senso vasto, rimasti in questi giorni troppo prudentemente in silenzio, non so se più col fiato  o col culo sospeso per aria. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Ecco le meraviglie dell’edilizia popolare di esportazione di Putin

Titolo del manifesto

Privo ormai di ogni remora, ammesso e non concesso che ne abbia mai avuta qualcuna, e giocando anche lui sul binomio “bombe e dialogo” da cui si è lasciato ispirare oggi anche il manifesto, Putin è arrivato ad assoldare i peggiori mercenari per sostituire le truppe russe di cui evidentemente non si fida sul terreno e cercare di spuntarla. Lo spettacolo è francamente ignobile, come quello di chi lo copre anche dalle nostre parti scrivendo, per esempio, che pure i bombardamenti eseguiti ad una ventina di chilometri di distanza dalle frontiere ucraine con la Polonia sono stati meritati perché hanno colpito in realtà camuffamenti della Nato già operanti nel paese di Zelensky. 

    Di fronte a quello che accade da quelle parti, con le immagini televisive che parlano da sole, rendendo superflui gli ospiti dei salotti televisivi, potremmo anche consolarci col “ragioniere” Claudio Cerasa, come usa sfotterlo sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio, chissà per quali torti subiti in vita sua dai ragionieri, leggendo sul Foglio una cronaca sostanzialmente rovesciata della guerra. La cronaca cioè di un Putin per niente vincente, diciamo pure finito, in attesa solo che qualcuno si decida al Cremlino e dintorni a dargli il colpo di grazia. o più semplicemente a staccargli la spina.

Claudio Cerasa sul Foglio

“C’è un’altra guerra sul medio termine che Putin -ha scritto, in particolare, Cerasa- non potrà vincere. Ed è quella che riguarda la trasformazione della sua Russia in una nazione infetta, economicamente distrutta, politicamente isolata, diplomaticamente emarginata, condannata a vivere in un lungo lokcdown per colpa di un virus di nome Putin”. Che qualcuno -ripeto- si deciderà prima o dopo a neutralizzare, si spera meglio di quanto stia avvenendo col Covid. 

      “Non  basterà questo per consolarci dagli orrori quotidiani che arrivano dall’Ucraina, ma il nuovo ordine mondiale determinato dall’aggressione della Russia è molto diverso rispetto a come Putin se lo immaginava. E almeno questa è una buona notizia”, ha concluso il direttore del Foglio apponendo le sua ciliegia come firma.

        Ah, quanto mi piacerebbe condividere l’ottimismo ragionieristico di Cerasa e del fior fiore di esperti  di cui probabilmente dispone, per carità. Per adesso avverto la sensazione opposta che Putin sia portando avanti il suo perverso disegno di annientamento di tutto ciò che a portata di casa, diciamo così, non ritiene compatibile con i suoi interessi più ò meno strategici, recentemente paragonati da lui stesso a quelli di Pietro il Grande, addirittura. Il che dovrebbe bastare e avanzare per farsi un’idea di quel che Putin è ormai diventato da modesto funzionario che era del sistema spionistico della defunta Unione Sovietica. 

Titolo della Stampa

          Non so francamente se e quali idee avesse Pietro il Grande dell’edilizia popolare. allora prematura quanto meno, preferendo gli zar occuparsi dei loro palazzi.  Ma quella che Putin sta esportando con la sua guerra, a vedere come sta riducendo le case degli ucraini, è un’edilizia popolare francamente orribile, “senza pietà”, per dirla con La Stampa. Dove vorrei che per contrappasso fossero mandati a vivere un pò quegli oligarchi russi che hanno fatto, ricambiati, la fortuna di Putin.  

Mai vista e raccontata una legislatura più sfortunata di questa…..

Titolo del Dubbio
Una famosa immagine di Giovanni Leone

 Abituato com’ero ai tempi di Giovanni Leone, ben prima in verità, che egli diventasse presidente della Repubblica, frequentandolo da presidente della Camera o da senatore a vita, a scherzare sulle sue abitudini scaramantiche, che lo portavano a premunirsi a modo suo di ogni segno che potesse sembrargli sfavorevole, mi sono più volte chiesto in questa diciottesima legislatura cominciata nel 2018 come lui l’avrebbe vissuta. E mi sono sempre detto che l’avrebbe vissuta malissimo, pur essendogliene capitate nella lunga esperienza politica di tutti i colori davvero. A cominciare dalla tragedia del suo e anche mio carissimo amico Aldo Moro. Al cui soccorso, durante i 55 giorni di prigionia nelle mani delle brigate rosse, egli non esitò un istante a prestarsi, pronto a graziare di sua esclusiva e insindacabile iniziativa, tra le resistenze del governo e della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, una terrorista compresa nell’elenco dei “prigionieri” indicati dai terroristi per scambiarli in massa col presidente della Dc.

Gli assassini uccisero Moro precedendo di qualche ora l’iniziativa di Leone, pur di sottrarsi ad una discussione che li  avrebbe spaccati al vertice dell’organizzazione terroristica. E i partiti -al loro solito,, verrebbe da dire- reagirono come più vigliaccamente non avrebbero potuto. Imbastirono contro Leone un sostanziale processo di insubordinazione politica alla linea della cosiddetta fermezza, occultato da tutt’altri argomenti come la presunta necessità di dare un segnale di maggiore credibilità dopo un referendum contro il finanziamento pubblico delle forze politiche vinto per il rotto della cuffia. E Leone fu costretto a dimettersi sei mesi prima della scadenza del suo mandato lasciando il Quirinale sotto una pioggia torrenziale che sembrava apposta di disapprovazione celeste di  quell’atto di prateria politica quale fu di fatto l’estromissione del presidente della Repubblica, addirittura impedito dal governo a rilasciare una intervista a propria difesa alla maggiore agenzia di stampa nazionale. 

A Leone era già capitato da giovane, con tutta la sua competenza giuridica, maestro di generazioni di avvocati e professori di diritto, di assistere esterrefatto ad un incursione comica nella politica nazionale: quella qualunquistica di Guglielmo Giannini, rocambolescamente conclusasi proprio nella regione di Leone, la Campania, col tentativo di quel’estroso personaggio di tornare in Parlamento come indipendente, pensate un pò, nella Democrazia Cristiana.  

          Morto nel 2001, dodici anni prima dell’approdo dei grillini alle Camere e diciassette anni prima del loro ritorno ,nel 2018, come partito addirittura di maggioranza relativa, qual era stata la sua Dc ininterrottamente dal 1948 al 1992, Leone si risparmiò -beato lui- l’esperienza a dir poco rocambolesca di una simile, eccentrica svolta storica e politica. Alla quale sono sicuro che non avrebbe saputo reggere fisicamente, neppure nei giorni migliori del suo umorismo, che pur era proverbiale. Figuriamoci se avesse accettato da presidente della Camera di scambiare per uno statista in erba un giovane vice presidente abituato sino a poco prima a vendere bibite allo stadio della sua Napoli: cosa perfettamente legittima per carità, ma inusuale sino ad allora, diciamo così. 

Neppure Romano Prodi rifugge dalla scaramanzia

              Senza voler fare il menagramo, peraltro non avendo neppure la barba filosofica e fisica contestata dal solito Massimo D’Alema al povero Massimo Cacciari, di tutte le legislature che mi è capitato di vivere e di raccontare da giornalista  quella in corso è stata davvero la più sfigata, come si dice a Rona, o fra le più sfortunate. Eppure ve ve ne sono state anche drammatiche sotto tutti i punti di vita: da quelle contrassegnate dal terrorismo a quella delle riserve auree quasi sequestrate e del prelievo forzoso dai depositi bancari, o della Repubblica delle Procure sostituitasi alle   più modeste e delimitate Procure della Repubblica sancite dal nostro ordinamento costituzionale. 

            E una legislatura, quella fortunatamente all’epilogo, mancando ornai solo un anno alla sua sua scadenza, se sarà davvero ordinaria. che ha rischiato di cominciare nel 2018 addirittura con la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica davanti alla Corte Costituzionale per avere egli osato non accettare a scatola chiusa l’elenco dei ministri sottopostogli da un presidente del Consiglio che pure aveva con molta buona volontà accettato di nominare pur avendo ben poca esperienza politica e amministrativa, non a caso proposto agli elettori -nella infatuazione della campagna elettorale- al massino come un un ministro, l’ennesimo della pubblica amministrazione, o della riforma burocratica, come si diceva una volta. E a lanciare l’impeachment, trattenuto all’ultimo momento dal garante comico per fortuna non preso in quel momento da impegni di teatro, era stato proprio quello statista in erba e capo del MoVimento 5 Stelle Luigi Di Maio, nel frattempo guadagnatosi col collega leghista Matteo Salvini i galloni di vice presidente del Consiglio, con compiti per niente nascosti di diretta vigilanza sul capo del governo.

                Ci sono capitate in questa legislatura l’emergenza della pandemia e quella addirittura della guerra in Ucraina, E per un puro miracolo abbiamo a Palazzo Chigi Mario Draghi, pur dato dai soliti  per disperso o quasi, e non un terzo governo Conte con Alessandro Di Battista al Ministero degli Esteri, secondo il quale staremmo perdendo il tempo con quell’oleogramma, nulla di più, che sarebbe l’Europa.

Pubblicato sul Dubbio 

A ciascuno il suo predatore. Putin è il peggiore di tutti.

ll caso ha voluto che vivessi la vicenda predatoria di Putin  contro l’Ucraina seguendola negli ultimi sviluppi da una stanza d’ospedale, rivoverato per difendermi anche io -non so ancora con quale esito, o con quanta durata della tregua per ora strappata alla morte- da un predatore. 

Il mondo, si sa, è pieno di predatori, ancora più inesorabili di quelli, chiamiamoli così, comuni o politici, perché ti esonerano dalla scomodità di discuterli, di processarli. Sono predatori che ti assalgono senza neppure la volontà di farti del male, ma solo per ricordarti e restituirti la tua naturale mortalità, anche quando hai cercato di onorare al meglio le occasioni che ti ha dato la vita.  

La vignetta del Corriere della Sera

 Tutti abbiamo potuto vedere quanto disinvolto o feroce abbia saputo essere Putin nell’ abusare della sua natura di predatore, tanto a lungo nascosta ben bene grazie alla maggiore ferocia di alcuni suoi predecessori, alla prevedibile e ingenua difficoltà di non considerarlo capace di fare peggio e alla dabbenaggine di quanti gli hanno dato un credito immeritato. Di cui adesso non si sentono neppure in obbligo di scusarsi, assolvendosi da soli con la scusa di essersi trovati in numerosa e ben assortita compagnia. Di nomi non ne faccio perché è semplicemente inutile. Non proverebbero d’altronde il minimo disagio, dall’alto della loro presunta superiorità e sicura indifferenza.

Putin ha vinto, o sta vincendo, la sua partita. Come i terroristi vinsero la loro nel 1978 contro il mio amico Aldo Moro. E non crediate che sia esagerato il paragone. Non sarà neppure l’ultimo a riuscire a spuntarla e a fregarsene dell’indignazione generale, persino applaudito da pseudo uomini di fede convinti di averlo addirittura arruolato in una causa di rigenerazione di un’umanità’ depravata. Già, è potuto accadere
 anche questo

             Preferisco il mio predatore, sino a tenermelo ben stretto e a ringraziarlo di avermi riservato una fine comunque migliore di quella che riescono a produrre i predatori in carne e ossa. A Putin insomma preferisco, ripeto, il mio tumore, al quale riesco persino a risparmiare il rancore di una fiducia tradita. Mi sta privando della vita, non della mia libertà e della capacità, per quel che mi rimane, di amare i mei cari, e di non vederli abbattere dal cecchino di turno. Credete che sia poco? 

Le troppe illusioni che ci facciamo sulla debolezza di Putin in Russia

Titolo del Dubbio

 Le illusioni -temo- che ci stiamo facendo in molti in Occidente sulla possibilità che Putin possa fermarsi con le buone o le cattive, spinto persino dall’interno della stessa Russia, sulla strada predatrice imboccata contro l’Ucraina mi sono parse allarmanti confrontando due testi o due autori, come preferite, di una certa competenza ma di convinzioni opposte. 

Giulio Tremonti sul Corriere della Sera

            Uno è l’ex ministro Giulio Tremonti, che ha scritto sul Corriere della Sera: “Ciò che Putin teme non è tanto o solo il modello democratico europeo, quanto piuttosto il nostro modello civile, lo stile di vita europeo, teme il rischio della graduale contaminazione di tutto questo con il suo mondo, Putin non teme l’atomica della Nato, teme la “rete”, teme la diffusione in Russia delle libertà postmoderne, teme costumi e cose che vanno dall’happy hour al metaverso”.

L’uscita del patriarca di Mosca contro l’occidentalizzazione peccaminosa della Russia,, al netto delle divisioni emerse anche all’interno di quel clero, è sembrata confermare l’analisi di Tremonti. E con essa la speranza che quella di Putin possa essere una battaglia perduta prima o poi per l’inevitabilità di un’evoluzione dei costumi, quando davvero essa si è avviata e radicata nella società.

Immagini dall’Ucraina
Il nipote omonimo di Antonio Gramsci al Corriere

            Eppure sullo stesso Corriere della Sera un russo ormai più che d’’adozione come può considerarsi il nipote e omonimo di Antonio Gramsci, insegnante di musica e per niente nostalgico del sovietismo, ha detto a Marco Imarisio, che ha avuto la curiosità di intervistarlo, che “il mondo”, addirittura, sbaglia a “guardare alla Russia attraverso la lente delle sue due grandi città”, presumo Mosca e San Pietroburgo. “E allora -ha detto- si fanno grandi teorie sulla nostra occidentalizzazione. Ma esiste una grande differenza fra il livello di vita delle metropoli russe e le loro periferie”. Che temo Gramsci conosca un pò meglio di Tremonti e di tutti quelli ai quali è capitato generalmente di andare in Russia anche dopo la caduta del comunismo per turismo o affari.

              “Chi vive altrove -ha raccontato Gramsci- considera i cittadini come piccoli borghesi che non producono nulla. E in parte ha ragione. Mosca può sembrare una capitale abitata da persone che si divertono e fanno affari, dedite alla finanza e al terziario, come a Londra o a Milano. Basta spostarsi di cento chilometri appena ed è tutta un’altra storia. La Russia profonda è tutt’altro che omologata all’Occidente. E quindi non ne ha tutto questo desiderio. L’isolamento fa più paura agli “occidentali”, o giovani russi abituati a viaggiare. Gli altri, quelli come me che son cresciuti in epoca sovietica, sono già immunizzati”. 

  A conferma di quest’analisi o esperienza di vita si è appreso proprio in questi giorni che solo il 17 per cento della popolazione russa dispone di un passaporto per andare all’estero. Questa temo, e ripeto, sia la forza terribile dell’ostinazione di Putin, pur alle prese con tanta solidarietà internazionale per il “topo” Zelensky in trappola nella sua Ucraina. O con una compagna -parlo sempre di Putin- che secondo il gossip internazionale se ne sta comodamente con i quattro figli nella Svizzera ad attendere l’esito della partita.

Pubblicato sul Dubbio

La maglietta fatale di Salvini e il contrappasso subìto in Polonia

 Peggiore, o quanto meno più imbarazzante, del lungo e assordante silenzio di Silvio Berlusconi sull’amico Putin impegnato nella sciagurata invasione dell’Ucraina, e in tutto ciò che ne è già derivato e potrebbe ancora derivarne, è la baldanza con la quale un altro estimatore, se non proprio amico come Berlusconi, del capo del Cremlino si è avventurato in un viaggio da campagna elettorale in trasferta nella lontana Polonia, deciso a spingersi verso il paese messo a ferro e fuoco dall’”animale”, come il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha definito il presidente russo. 

    Salvini è incorso subito nell’infortunio, che pure avrebbe potuto, anzi dovuto prevedere, della memoria del sindaco che lo ha ricevuto davanti alla stazione rinfacciandogli con tanto di ostentazione la maglietta bianca inneggiante a Putin indossata dal capo della Lega in Italia, reduce peraltro da una visita a Mosca dove aveva detto di trovarsi meglio che a Roma. Un altro , finto pure leui nel centrodestra, si era avventurato addirittura nella Corea del Nord per preferirla a tutto il resto del mondo.

Dalla Gazzetta del Mezzogiorno

    Uno scrittore restituito alla sua vocazione o arte prima dalla magistratura e poi dalla politica, Gianfranco Carofiglio, ha mandato a Salvini un telegramma dei suoi, con tanto di rubrica, dalla prima pagina della rinata Gazzetta del Mezzogiorno. Esso dice come meglio non si potrebbe: “Contrappasso: corrispondenza della pena alla colpa: il rapporto per cui la pena alla quale sono sottoposti i peccatori nell’oltretomba riproduce i caratteri essenziali della colpa. Per ulteriori dettagli chiedere al senatore Salvini dopo il viaggio in Polonia”, e gli insulti che si è giustamente meritati  

Dietro il lungo e assordante silenzio di Berlusconi sull’amico Putin

Berlusconi con Gheddafi

Più che da un’amara rassegnazione alla locuzione latina del “sic transit gloria mundi” usata nel 2011 per commentare la tragica e ingloriosa fine dell’amico Mu’ammar Cheddafi in Libia – anche da lui, come da altri predecessori a Palazzo Chigi considerato un dittatore sì ma sostanzialmente utile, anzi necessario al suo difficilissimo paese, non a caso ancora ingovernato dopo la morte, con tutti gli inconvenienti derivati anche all’Italia- mi pare vagamente ispirato a qualche speranza l’ormai lungo e un pò assordante silenzio di Silvio Berlusconi sulla situazione, sorte e quant’altro di un amico ancor più ostentato pubblicamente: Vladimir Putin. Col quale se non siamo ancora direttamente in guerra, come finimmo contro Gheddafi, poco ci manca, essendo già entrati nella lista dei paesi ostili stesa personalmente dal capo del Cremlino per le sanzioni alle quali partecipiamo contro la Russia e per gli aiuti che forniamo agli ucraini sotto invasione e assedio, secondo le varie parti del loro territorio. 

Berlusconi e Putin

D’altronde, anche se l’avesse voluto in cuor suo per simpatia verso l’ex presidente del Consiglio, peraltro partecipe dell’ampia maggioranza di governo in corso, allargatasi anche alla destra di Gorgia Meloni sul fronte internazionale per la crisi ucraina, Putin non poteva fare diversamente -bisogna ammetterlo- dopo essersi sentito definire e liquidare come “un animale” dal ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio.  Che- detto tra parentesi, inutili per il Cremlino, dove non mancano di certo le informazioni sulla politica interna italiana- è fra tutti i grillini, o pentastellati, non dico più fra i meno disprezzati ma ormai fra i più appezzati da Berlusconi. Il quale gli ha recentemente regalato per le feste di fine anno anche un bel quadro apprezzato e gradito dal destinatario, prudentemente affrettatosi tuttavia -hanno riferito le cronache- a depositarlo alla Farnesina, senza trattenerlo per sé. Le cose in Italia cambiano rapidamente, e la prudenza non è mai eccessiva, anche se da quelle parti, sotto le cinque stelle, non è proprio la prudenza la virtù più diffusa, con quel garante “elevato”, supremo e quant’altro che si tengono stretto come un’icona: l’orgogliosamente “vaffanculista” Beppe Grillo, ancora fermo con Berlusconi all’immagine dello “psiconano” improvvisata in una delle piazze d’esordio del movimento ora sotto la presidenza giudiziariamente sospesa di Giuseppe Conte. 

Barbara Spinelli sul Fatto Quotidiano di ieri

Da ostinato ottimista come ho imparato a conoscerlo a suo tempo, pur tra insofferenze e sfoghi cui si abbandonava quando si sentiva deluso o, peggio, tradito da qualcuno sulla strada dei suoi progetti sempre ambiziosi, spesso vissuti col cardiopalma anche dai più stretti collaboratori e familiari, temo che Berlusconi ancora condivida paradossalmente di Putin, insieme con l’insospettabile Barbara Spinelli che ne ha appena scritto sul Fatto Quotidiano, la frase che ne fece a suo tempo un mezzo campione di affidabilità, a metà strada fra il romanticismo e il realismo: “Chiunque non senta la mancanza dell’Unione Sovietica è senza cuore, ma chiunque voglia il suo ritorno è senza cervello”. Che è esattamente quello che l’amico di Berlusconi sta rischiando di perdere, se non l’ha già perso, gestendo come ha fatto sinora il problema dei rapporti con l’Ucraina e, di riflesso, col resto del mondo, compresa la confinante e diffidentissima Cina: un enigma forse ancora maggiore di quello che l’Urss era apparsa a Winston Churchill, per avendovi appena collaborato nella guerra contro Hitler, cominciata peraltro -e non a caso- con un patto fra lo stesso Hitler e Stalin per spartirsi la Polonia. 

La guerra non fa uscire di stagione il Carnevale della politica interna

Putin continua a dare la caccia agli ucraini, sino a spingerli verso i cosiddetti corridoi umanitari per colpire più facilmente i poveracci che li imboccano per fuggire. Egli aggiorna inoltre la lista dei nemici o degli ex amici, ma tuttora suoi clienti nelle forniture di gas. Fra questi naturalmente è stata compreso l’Italia per le sanzioni contro la Russia e gli aiuti, anche in armi, che insieme agli alleati europei e d’oltre Atlantico essa ha deciso di fornire agli ucraini che sempre di più ne chiedono per resistere agli invasori. 

Chissà se in privato il capo del Cremlino ha ricevuto qualche telefonata di pur amichevole protesta da Silvio Berlusconi. O, magari, lo ha prevenuto con una telefonata di rammarico personale

Titolo di Domani

   Noi tutti penso che ci chiediamo con una certa apprensione come e quando finirà questa storia drammatica, e con quanti danni anche per il nostro Paese, se i cosiddetti sovranisti, almeno loro, continuano ad occuparsene. Qualcuno come il politologo Piero Ignazi, su Domani, si è giustamente chiesto, pensando al “ruolo dell’Italia nella crisi”, che “cosa può fare Draghi per curare le ferite con Mosca”. 

  Draghi, dal canto suo, dopo avere dovuto rinunciare ad una visita a Putin cercata quando sembrava ancora possibile fermarlo sulla strada della guerra ai vicini, ha aperto trattative con altri fornitori di gas per ridurre la forte dipendenza dalla Russia che egli ha ereditato dagli illuminati precedecessori, essendo arrivato al governo solo un anno fa. E tiene tutti i contatti necessari per portare avanti la linea di contrasto e insieme di contenimento di Putin. Ne ha parlato e trattato ancora ieri con la presidente della Commissione Europea, Ursula von del Leyen. Ma per un giornale come Il Fatto Quotidiano, che sta con una gamba o mezza al governo, insieme ai grillini che ne fanno parte, e con l’altra o l’altra e mezza con l’opposizione, dividendosi fra i dissidenti e i fuorusciti dal MoVimento 5 Stelle, Draghi non esiste. O esiste al contrario, per farsi escludere dagli incontri che contano, o conterebbero, o arruolandosi fra quanti giocano in fondo per aggravare, non per ridurre le tensioni. 

Totomontaggio recente del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto

  Qualche giorno fa in un fotomontaggio di prima pagina il presidente del Consiglio era in tenuta un pò francescana e un pò napoleonica, spalleggiato dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, entrambi contenti di avere appena aumentato le spese militari per “buttare 10 miliardi di euro in più all’anno”, sottraendoli in parte naturalmente al cosiddetto reddito di cittadinanza e simili. L’importante è dire “signorsì alla Nato” , per fortuna di Travaglio contrastati in piazza dai pacifisti, pur impegnati tuttavia a sfottere di più il segretario del Pd gridandogli “Letta mitraglietta”.  

Edtoriale del Corriere della Sera

A questi pacifisti Paolo Mieli oggi sul Corriere della Sera ha fatto il pelo e il contropelo contestandone la perversa filosofia di lasciare fare il lavoro sporco agli invasori il più rapidamente possibile per contenere, alla fine, le perdite degli invasi. E un modo, certo, di vedere le cose ma alquanto “cinico”, come ha ricordato l’editorialista elencando da storico un pò di precedenti per niente edificanti. 

  Ognuno insomma partecipa a questa guerra a modo suo, anche fingendo di volersene astenere. o addirittura di ostacolarla. E qualcuno augurandosi che l’occasione possa servire anche a liberarsi di Draghi a Palazzo Chigi, dopo avergli impedito di andare al Quirinale, Eppure il Carnevale ormai è finito. Evidentemente in politica non esce mai di stagione.  

Il paragone che Putin non riesce a meritarsi neppure con Breznev

  Che diavolo di capricci riesce a fare, ma soprattutto a farci la storia in passaggi drammatici come quello che stiamo vivendo con la guerra in Ucraina. Della quale per fortuna possiamo scrivere e parlare, almeno in Occidente, senza finire in galera, come avviene invece nella Russia che pensavamo finalmente uscita dalle nefandezze della nomenklatura sovietica. Con la quale pure si poteva finire in galera, e anche peggio, ma forse ancor meno facilmente di adesso. 

I funerali di Breznev a Mosca

  Ma il capriccio di cui vorrei farvi partecipi non è questo. E’ ancora più grande e feroce: quello di augurarsi, come ho visto e letto da qualche parte, anche bene informata di storia, politica e dintorni, che quel testone, capoccione o come altro volete chiamare Putin finisca o sia già finito, alle prese con l’Ucraina, nello stesso “pantano” in cui s’infilò ai tempi dell’Urss il vecchio e decadente Breznev invadendo e mettendo a ferro e fuoco l’Afghanistan. Dove, pur invecchiato e a stento capace di reggersi in piedi da solo per la durata intera di una cerimonia, o di una parata, il gerarca sovietico aveva saputo valutare in tempo la pericolosità che andava assumendo il fenomeno dell’estremismo islamico, o islamista, come preferite: valutazione che gli fu facilitata dalla circostanza di avere l’islam in casa, nella vastità e complessità delle Repubbliche confluite con le buone o con le cattive nell’Unione rossa della falce e martello. 

  Noi occidentali non volemmo o non sapemmo comprendere la situazione. In funzione dell’anticomunismo, o antisovietismo, preferimmo dare una mano non a Mosca ma agli estremisti islamici o, ripeto, islamisti. Li armammo e finanziammo come più non si poteva, non riuscendo neppure a immaginare -o ritenendo, da furbi  come ci sentivamo, di sapercene difendere- che quegli estremisti, una volta liberatisi dei sovietici, e accartocciati i loro carri armati sui bordi delle strade, si sarebbero rivoltati anche contro di noi. Il che avvenne sino a spedire una squadra di sabotatori direttamente negli Stati Unti per abbattere, fra l’altro, le torri gemelle di New York. Ricordate, gente? Io li ricordo bene quei due grattacieli che fumavano la mattina dell’11 settembre 2001, pomeriggio in Italia, come i due fiammiferi descritti con la sua solita bravura da quella testimone e cronista d’eccezione che era Oriana Fallaci. 

Immagini dall’Ucraina
Immagini dall’Afghanistan

    Accadde così che noi occidentali -si sempre noi- dovemmo sostituirci in qualche modo ai sovietici che avevamo voluto far cacciare dall’Afghanistan e ritentare la loro operazione d’ordine, chiamiamola così. E che potevamo per fortuna chiamare  quella ch era davvero, cioè una guerra, oltre a praticarla, senza finire in galera per l’editto di qualche leader della coalizione dei volenterosi, coraggiosi e simili allestita dagli Stati Uniti. Fu un conflitto durato praticamente una ventina d’anni e di recente concluso -ahimè- con la nostra fuga un pò disordinata e la consegna, o restituzione, di quel Paese ai talebani, che lo stanno così ferocemente governando nella nostra ormai completa distrazione, favorita anche dalla tragedia sopraggiunta in Ucraina.

  A quest’ultima, ai suoi problemi, al suo presidente Zelensky ridotto dal gatto del Cremlino al topo dipinto da Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, ignorando tutti gli altri  topi che gli stanno dietro, non intendo paragonare minimamente l’Afghanistan dell’altro ieri, di ieri e di oggi. Ma mi dà -vi confesso -un ceto fastidio culturale, psicologico, persino fisico scommettere  sul “pantano” in cui si ficca, o riusciamo a ficcare l’avversario di turno. Il pantano è sempre un’arma a doppio taglio, e dagli esiti imprevedibili. Preferisco le soluzioni chiare ai problemi: la vittoria e, al limite, la sconfitta. 

Titolo del Dubbio

    Nè mi piace -vi confesso anche questo- sentire il pur bravo, bravissimo Sergio Mattarella, reduce dal sacrificio di una rielezione non desiderata al Quirinale pur di non aggravare le emergenze italiane irrisolte, anzi aumentate anche a causa della guerra nel frattempo scoppiata, dire agli ucraini con i quali ha assistito alla messa in una chiesa di Roma che l’Italia “farà quello che può” a favore loro e dei cari che muoiono o cercano di scappare dalla propria terra come topi inseguiti dai gatti putiniani, non meno feroci di quelli una volta sovietici, o forse anche di più, nelle nuove condizioni date dell’umanità e della scienza, diciamo così. Che tragedia sentirsi impotenti. E doverlo anche confessare. 

Pubblicato sul Dubbio

La disperazione dell’impotenza di fronte alla guerra di Putin all’Ucraina

La vignetta del Corriere della Sera

Penso che, se solo avesse potuto sospettare, pur disponendo forse già di buone informazioni diplomatiche e militari da Mosca e da Kiev, la partecipazione che lo aspettava al doloroso, umiliante spettacolo dell’impotenza  di fronte alla guerra in Ucraina, Sergio Mattarella avrebbe continuato ad opporre a gennaio la sua indisponibilità alla conferma al Quirinale. E ciò anche a costo di vedere travolgere dalla dissennatezza dei partiti anche il governo di Mario Draghi, peraltro ancora più partecipe del presidente della Repubblica -per le competenze operative che ha- allo spettacolo umiliante, ripeto,  di un Occidente ostaggio del draculismo, a dir poco, di Putin: ostaggio, per dimensione e forza, ancor più di quel povero Zelensky, presidente dell’Ucraina, rappresentato da Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera come il topo col quale sta tragicamente giocando il gatto del Cremlino. 

Mattarella alla messa con gli ucraini a Roma
Titolo del Fatto Quotidiano

    “Faremo tutto ciò che si può”, ha detto il capo dello Stato agli ucraini ai quali si è aggiunto ieri nella basilica romana di Santa Sofia per assistere alla messa. Già, ma cosa si può fare, ancor più di quanto non si si sia già fatto o si stia facendo, senza sconfinare nella terza guerra mondiale per fermare un Putin del quale un giornale come Il Fatto Quotidiano, notoriamente vicino e comunque nostalgico dell’ex presidente grillino del Consiglio Giuseppe Conte, appena riconosciuto dal segretario del Pd  Enrico Letta come benemerito della sopravvivenza del governo in carica, ha il coraggio di scrivere in un titolo giustificativo che a Mosca, con chi va a trovarlo o lo chiama al telefono per chiedergli di fermarsi nell’assalto sanguinoso e sanguinario all’Ucraina, “alza il tiro per trattare”. Ma trattare cosa di fronte alle immagini provenienti dalle città e dalle strade ucraine disseminate di morti e rovine che bastano e avanzano a dare l’idea di ciò di cui è capace un uomo così a lungo scambiato da un bel pò di presunti marpioni della politica e della finanza, compreso o a cominciare da Silvio Berlusconi, per uno statista genuinamente democratico, pur nelle condizioni date di un Paese reduce dalla lunga esperienza del comunismo. O “socialismo reale”, come lo chiamavano in tanti nella sinistra italiana senza neppure arrossire di vergogna, tanta era la distanza dal socialismo di quel comunismo governato ed esportato da Mosca. 

Titolo del Secolo XIX
Immagini dall’Ucraina

“Lo zar nel pantano, incubo Kabul per il Cremlino”, ha titolato -sia pure in piccolo, per fortuna- un giornale come Il Secolo XIX, dell’ormai maggiore gruppo editoriale italiano, sia pure in una crisi che lo sta obbligando a privarsi di un settimanale della tradizione dell’Espresso, fra le proteste e le dimissioni del direttore Marco Damilano, il più assiduo frequentatore dei salotti televisivi. E che ce ne facciamo, di grazia, del pantano in cui si è ficcato Putin se non riusciamo  a impedirgli di trascinarvi anche l’Occidente? Ciò è accaduto proprio a Kabul, dove i talebani sono tornati a governare con la stessa disinvoltura, in fondo, con la quale governa Putin in Russia e dintorni, persino infilando in carcere chiunque chiami “guerra” quella che lui sta conducendo contro l’Ucraina.    

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