L’esordio “grigioverde” di Salvini dopo la leadership conferitagli da Berlusconi

Titolo del Fatto Quotidiano

    Al netto di una ventina, fra deputati e senatori, costretti a casa dal Covid, sarebbero stati dunque 340, poco più o poco meno, i parlamentari sottrattisi  alla seduta comune improvvisata dal presidente della Camera a Montecitorio per ascoltare in video-conferenza  il presidente dell’Ucraina Volodymir Zelensky, in lotta contro l’invasore russo. Ma anche -non dimentichiamolo- il conclusivo discorso di solidarietà pronunciato a nome del governo italiano dal presidente del Consiglio Mario Draghi. Che, pur non essendone stato esplicitamente richiesto, come sottolineato, denunciato e quant’altro dal solito Fatto Quotidiano, ha offerto “aiuti anche militari” all’Ucraina auspicandone inoltre la partecipazione all’Unione Europea, già chiesta da Zelensky. Essa peraltro gli sarebbe politicamente molto più utile di un’adesione alla Nato, per timore o in previsione della quale Putin gli ha intanto messo a ferro e a fuoco il Paese.

          Più che con Zelensky in versione o edizione Churchill, direbbe il mio amico Giuliano Ferrara, che ne ha già scritto o fatto scrivere sul Foglio, riscattandolo dalle origini di attore comico un pò alla Grillo, diciamo così, ma meglio riuscito elettoralmente, gli assenti hanno voluto prendersela con Draghi. Ed hanno in qualche modo ricostituito all’interno della vasta maggioranza di unità nazionale, cui partecipa sul questo tema anche la destra di Giorgia Meloni, il nocciolo originario della legislatura ancora in corso, composto da pentastellati e leghisti: una coalizione che fu subito definita grigioverde, ma che adesso di colore militare ha ben poco perché tutto vorrebbe fuorché impegnarsi in armi per gli ucraini. 

Fra i pentastellati l’assenza di Giuseppe Conte in quanto né deputato né senatore, ma ugualmente presidente dell’omonimo MoVimento, è stata compensata non tanto dalla presenza, accanto a Draghi, del plaudente ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ormai una specie di apostata da quelle parti, quanto dal grido di protesta del presidente grillino, appunto, della Commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli. Che, anzichè dimettersi lui dal posto che occupa dopo avere votato putinianamente nelle scorse settimane contro la posizione del governo sul conflitto ucraino, ha incitato i ministri e i sottosegretari del MoVimento a uscirne. 

Dal blog di Beppe Grillo

E Grillo, l’altro “extraparlamentare”, chiamiamolo così, del MoVimento di cui pure è garante? Se ne sta tranquillamente a casa e preferisce lavorare sul suo blog personale -testuale, dal titolo di una nota appena diffusa- per “un trattato mondiale contro l’inquinamento da plastica”, compresa evidentemente quella che viene usata dagli eserciti. 

La vignetta del Corriere della Sera su Salvini
Il titolo della Verità di fiancheggiamento alla Lega

        Per quanto curiosa, stravagante o come altro si preferisca chiamare la posizione di questo partito pur di governo, anzi ancora il maggiore di essi, nonostante le tante defezioni subite dall’inizio della legislatura per fortuna all’epilogo, quella della Lega è politicamente ancora più imbarazzante, specie nella veste che Silvio Berlusconi ha appena conferito a Matteo Salvini, nella villa di Cernetto, di “vero e unico leader” dell’Italia. Egli, presente -bontà sua- alla speciale seduta comune delle Camere, ha applaudito sia Zelensky sia Draghi, ma è uscito dall’aula borbottando contro le armi ed è andato metaforicamente ad appendersi -come lo ha felicemente ritratto Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera-alle campane e quant’altro del Papa. Che “adesso fa sul serio”, ha titolato La Verità dell’amico di Salvini e credo anche elettore Maurizio Belpietro, pur non essendo riuscito neppure la buonanima di Giuseppe Stalin a valutare ai suoi tempi di quante truppe disponesse il Pontefice. Che era uno particolarmente tosto in tema di anticomunismo, o antistalinismo. 

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Grazie, presidente Zelensky, ma ancor più grazie al presidente Draghi

L’aula di Montecitorio

Non voglio neppure pensare che cosa avremmo potuto sentire da un altro presidente del Consiglio nell’aula di Montecitorio dopo il collegamento fra il Parlamento italiano e il presidente della Ucraina aggredita dalla Russia di Putin. Non voglio pensare alle trattative che egli avrebbe dovuto condurre con leader e leaderini della sua maggioranza di governo per concordare le sue dichiarazioni. Più in particolare, se consentite, non voglio neppure pensare a cosa avrebbe voluto e potuto dire, al posto di Draghi, il suo predecessore Giuseppe Conte. Che ancora qualche sera fa, in un salotto televisivo, ho sentito parlare di Putin, e di un lungo colloquio avuto con lui quand’era presidente del Consiglio italiano, come neppure Silvio Berlusconi avrebbe trovato il coraggio di fare se messo alle strette e costretto ad occuparsi degli affari di Stato, non delle sue famiglie in senso lato. 

          E’ perciò con enorme sollievo e orgoglio nazionale che riporto testualmente la conclusione dell’intervento di Draghi, rivolto direttamente al pur lontano ospite collegato grazie alla tecniche moderne della comunicazione: 

“Quando l’orrore e la violenza sembrano avere il sopravvento, proprio allora dobbiamo difendere i diritti umani e civili, i valori democratici. A chi scappa dalla guerra dobbiamo offrire accoglienza. Di fronte ai massacri dobbiamo rispondere con gli aiuti, anche militari, alla resistenza. Al crescente isolamento del Presidente Putin dobbiamo opporre l’unità della comunità internazionale, L’Ucraina ha il diritto di essere sicura, libera, democratica. L’Italia -il Governo, il Parlamento e tutti i cittadini- sono con voi, Presidente Zelensly. Grazie”. 

                Chi non si riconosce in queste parole non è  un buon italiano. Anzi, semplicemente non è un uomo. 

La sordida vendetta di Putin nascosta in dieci milioni di profughi

Titolo del Fatto Quotidiano

    Gli edifici distrutti, le case sventrate e rimaste appese con i loro mobili ai resti delle facciate, i cadaveri abbandonati per strada accanto a un bagaglio o, peggio ancora, ad una madre o un padre che non è riuscito ad abbracciare per l’ultima volta il figlio caduto accanto, le voragini grandi quanto i quartieri che vi sorgevano prima, le fosse comuni nelle quali vengono gettati in tanti come e senza sacchi, gli spiragli attraverso i quali s’intravvede o si immagina il sottosuolo affollato, cui  il manifesto ha dedicato la sua foto di copertina, “il grande cratere” che pure al Fatto Quotidiano si sono accorti essere diventata Kiev non per le armi  ricevute e usate degli ucraini per difendersi ma per le bombe russe di ogni tipo che vi stanno cadendo sopra da giorni; tutto questo, diffuso in centinaia e centinaia di foto fra cui c’è solo l’imbarazzo delle scelta per chi confeziona un giornale o le fa proiettare sulle pareti del salotto televisivo di turno , dove si parla della guerra qualche volta persino con gli occhi umidi davvero di lacrime, non mi sembra riflettere davvero o più efficacemente il dramma anche di questa carneficina in corso. Che per fortuna di alcuni di noi spettatori televisivi è la prima o qualcuna delle poche cui ci è capitato di assistere in diretta, diciamo così, essendoci state risparmiate per ragioni anagrafiche le guerre addirittura mondiali del secolo scorso. 

        Più ancora del fuoco e delle fiamme, delle ceneri e dei cadaveri, mi ha impressionato sulla prima pagina della Stampa di oggi l’immagine apparentemente salvifica o meno tragica dei profughi che lasciano le loro terre distrutte o insicure per rifugiarsi altrove. Dieci milioni di profughi, ha calcolato probabilmente per difetto il giornale di Torino. Dieci milioni e più di morti sinora mancati che Putin e i suoi cinici generali che ancora gli ubbidiscono, scattando sull’attenti al solo vederlo, senza neppure bisogno di sentirlo parlare, stanno spingendo di fatto verso altri paesi che hanno la colpa di non avere sostenuto e di non sostenere le operazioni speciali di denazificazione e simili. 

            Costoro, i profughi,  sono naturalmente tutti benvenuti fra noi che potremo e vorremo accoglierli, facilitati dal fatto di conoscere e apprezzarne i familiari ai quali siano abituati da tempo ad affidare quello che di più prezioso abbiamo: i nostri vecchi e/o malati. Ma non facciamoci molte illusioni sulla capacità che avremo, circondati o rappresentati come siamo dai partiti che abbiamo, di nuove ma anche di vecchie tradizioni, di conservare la lucidità e la commozione di questi giorni , non trasformandole via via in stanchezza, risentimento e rifiuto. Pensiamo un pò al favore col quale tanti di noi in anni e persino mesi neppure tanto lontani siamo riusciti a scaldarci il cuore non per le migliaia e migliaia, diciamo pure centinaia di migliaia in  fuga dall’Africa su imbarcazioni di fortuna solo per chi le allestiva e le faceva partire, ma per gli ordini che si davano dalle nostre coste di non lasciarli sbarcare. 

Speriamo che almeno questa guerraccia di Putin ci abbia fatto diventare più umani anche su quest’altro versante dell’umanità sofferente. Ma temo che sia una speranza destinata a scontrarsi con la prima campagna elettorale che torna sulle prime pagine dei giornali: ce n’è una lunga serie da qui all’anno prossimo, alla scadenza del mandato delle Camere attuali. 

Quella lunga e tutta personale avventura del centrodestra

   Comincio a temere di avere visto, seguito, incrociato, avvertito troppe edizioni del centrodestra e di finire per perderne il conto: un rischio dal quale vorrei cautelarmi elencando con la maggiore sintesi possibile ciò che mi è rimasto di loro nella memoria.

Titolo del Dubbio

Il primo centrodestra -o polo del buon governo, come mi risultava che preferisse chiamarlo il professore Giuliano Urbani parlandone con Gianni Agnelli, fino a quando il mitico “avvocato” non lo dirottò da Silvio Berlusconi, sapendolo preoccupatissimo delle cattive acque politiche in cui erano finiti insieme gli uomini politici dei quali maggiormente si fidava il Cavaliere, cioè Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani, in ordine rigorosamente alfabetico- fu solo uno stato d’animo, una pulsione, il desiderio di fare qualcosa di indefinito per impedire che i comunisti, o come diavolo avevano cercato di chiamarsi o travestirsi, vincessero le elezioni del 1994 rovesciando addosso agli anticomunisti le macerie del muro di Berlino crollato nel 1989. 

           Da stato d’animo, pulsione e simili, in cui Fedele Confalonieri e Marcello Dell’Ultri mi coinvolsero chiedendomi di insegnare al personale di Pubblitalia, la lettura -pensate un po’- dei giornali, tanto malfatti i due consideravano evidentemente i quotidiani, o sprovveduti i dipendenti che andavano ad acquistarli nelle edicole, allora ancora fiorenti per tutti quegli arresti più o meno eccellenti che attiravano folle di lettori davanti alle locandine, il centrodestra divenne un piano politico organico del Cavaliere in funzione di una sua ascesa alla guida del governo, e non più di una coalizione da affidare alla leadership di qualche  volenteroso di esporsi.

Mario Segni

           Me ne accorsi quando, cortesemente interpellato su chi avrebbe dovuto allearsi nel caso in cui egli avesse deciso di impegnarsi in politica, proposi a Berlusconi di mettersi con la Dc ancora di Mino Martinazzoli, che nel frattempo aveva candidato il nostro comune amico Mario Segni a Palazzo Chigi. “Ma la Lega preferisce me”, mi sentii rispondere. E infatti Segni, precedentemente accordatosi con i leghisti in una trattativa condotta per il Carroccio da Roberto Maroni, era stato appena scaricato e svillaneggiato da Umberto Bossi in persona.

                Il centrodestra, diventato così il convoglio destinato a portare Berlusconi a Palazzo Chigi con le carrozze della Lega agganciate nei viaggi elettorali al Nord e quelle della destra ancora missina di Gianfranco Fini al Centro-Sud, vinse alla grande le elezioni svoltesi col nuovo sistema per un quarto proporzionale e tre quarti maggioritario, battezzato Mattarellum dal nome del relatore della legge alla Camera: l’attuale presidente della Repubblica. 

     Affondato in meno di sei mesi da un Bossi padano-scissionista fra le solenni promesse a caldo di Berlusconi e di Fini di non prendere più neppure un caffè col leader leghista, il centrodestra risorse come se nulla fosse accaduto nel 2001 in chiave dichiaratamente federalista: ma di un federalismo perfidamente introdotto in Costituzione come una supposta tossica prima delle elezioni dal centrosinistra. Che riuscì così a bucare  le  gomme al nuovo governo Berlusconi, ereditandole a sua volta senza riuscire a mettervi una pezza. Pertanto il Belpaese bipolare di cui tutti scrivevamo come di una conquista dopo le nequizie della Prima Repubblica bloccata e un po’ anche ladrona,  finì per diventare un pasticcio ingovernabile  anche con le migliori intenzioni

Poiché i guai non vengono mai da soli, Berlusconi aggiunse a quelli politici i suoi personalissimi e personali: i primi scambiati dai magistrati addirittura per induzione alla prostituzione minorile, sfociata in un’assoluzione definitiva ma ciò nonostante tradotta da più Procure in una serie di processi ancora aperti, nella follia che solo un sistema giudiziario come quello italiano può produrre, e per frode fiscale con tanto di decadenza dal Parlamento. I problemi personali sono quelli intervenuti quasi sistematicamente con i suoi alleati e gli stessi amici di partito per la quasi incapacità fisica che egli ha, spesso senza neppure rendersene conto, di prendere la politica per quello che è: una missione, certo, anche una missione, ma pur sempre un mestiere, una professione, un’arte -direbbe il suo amico Vittorio Sgarbi- dove non puoi fare sempre e solo quello che vuoi, neppure della roba che ti appartiene. 

Matteo Salvini a Vila Cernetto
Titolo di Libero di ieri

Ed ecco l’ultima edizione del centrodestra cui mi capita di assistere, dopo  quella non so se più disordinata o fantasiosa del centrodestra di Villa Grande, a Roma, che avrebbe dovuto portarlo al Quirinale ma alla fine si è tradotta nella conversione, all’ultimo momento, alla prevedibile conferma di Sergio Mattarella. Parlo ora della versione del centrodestra di Villa Cernetto, selezionato personalmente da Berlusconi per la sua festa di simil-matrimonio con l’onorevole Marta Fascina. Alla quale, senza parlare -per carità- dei suoi familiarissimi e personalissimi problemi di primo e secondo letto -ha ritenuto di dover o poter evitare solo un alleato: Matteo Salvini. Che ha incoronato davanti alla torta nuziale ed altro come l’”unico vero, grande leaeder” del Paese, se giornali e agenzie hanno riferito bene. 

Mario Draghi
Vladimiro Plutin

Tutti hanno pensato e fantasticato sulla sorpresa e sui pensierini di Giorgia Meloni. Io invece, che sono il solito ingenuo e forse l’unico amico di cui Berlusconi dispone, pur se ormai più di là che di qua, ho pensato alla leadership in assoluto negata così incautamente e ingiustamente a Mario Draghi. E in un momento come questo, in cui Berlusconi deve pregare Iddio che al carissimo Putin non spunti mai la tentazione di affacciarsi in qualche modo alle sue feste. 

Pubblicato sul Dubbio

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Prove di ammutinamento contro Putin almeno dallo spazio

Titolo del Giornale

Nell’attesa necessariamente incerta di certe cose come la “congiura contro Putin” annunciata dal Giornale con notizie provenienti dai servizi segreti ucraini, secondo i quali “oligarchi e militari guidai dal direttore degli ex Kgb hanno un piano per eliminare” il capo del Cremlino indisposto a rinunciare alla guerra contro i vicini di casa, accontentiamoci di quel poco di certo che è arrivato, sempre tramite Il Giornale, dalle cronache spaziali. Che sempre hanno qualcosa di più affine con le cronache militari, nono foss’altro per le persone e per i servizi più o meno di di sicurezza che vi sono interessati o coinvolti. 

Gia felicemente controtendenza di sé rispetto alla scelte di Putin in terra, con quella guerra all’Ucraina che grida vendetta ogni giorno di più e non a caso procede con crescenti difficoltà per chi l’ha ordinata scambiandola per un’operazione tanto speciale quanto rapida, la notizia della prosecuzione della missione spaziale internazionale nella quale la Russia è impegnata da più di vent’anni con americani, canadesi, europei e giapponesi si è rivelata ancora più clamorosamente scomoda per il capo del Cremlino. Il quale ha dovuto subire un sostanziale ammutinamento dei suoi astronauti, sbarcati dalla capsula Soyuz nella stazione spaziale con tute di colore diverso rispetto alla partenza: in particolare giallo, il colore nel quale oggi tutto il mondo identifica la vasta ma povera Ucraina invasa e bombardata dai mezzi, delle truppe e dai mercenari di Putin. 

La partenza dell’equipaggio russo spedito sulla stazione spaziale internazionale

Le immagini con consentono dubbi sull’operazione stavolta non speciale ma specialissima subita dal sempre meno solido capo del Cremlino. Bianche risultavano in tutta evidenza le tute indossate alla partenza dalla base di lancio della Soyuz dei tre astronauti russi selezionati ad avvicendare l’equipaggio della stazione spaziale sostituendo, in particolare, un’americana e due loro connazionali. Era la prima volta peraltro che i russi partivano in tre, totalizzando il nuovo equipaggio, tutti provenienti da una sola università, la Cauman, che ha il giallo nel suo logo, hanno cercato di minimizzare o spiegare i burocorati dell’agenzia spaziale con un “una giustificazione scricchiolante”, come l’ha definita a dir poco Roberto Benizzi, appunto sul Giornale.

Il primo astronauto immersnella babina d’arrivoosi

          Dall’immagine del primo dei nuovi astronauti russi immersosi nella cabina della stazione spaziale internazionale risultava in tutta la festosa evidenza il giallo della sua tuta, evidentemente cambiata durante il viaggio di circa tre.

La nuova squadra russa al completo col resto dell’equipaggio

        Quando è infine arrivata l’immagine del trasbordo completato, con i tre nuovi ospiti mescolati agli altri otto, il giallo delle loro tute era quasi accecante, a tutti gli effetti, ed esibito. Mancava soltanto un cartello inneggiante all’Ucraina e alla sua eroica resistenza a quattrocento chilometri e più di distanza sulla lontanissima terra. Dove purtroppo, con un’assurdità pari alla demenza di un genere che chissà perché chiamiamo ancora umano, salvo il buon Luigi D Maio che ha cominciato di suo a dare a Putin dell’animale , ci si continua a fare del male, a ucciderci deliberatamente, mentre allestiamo e lavoriamo nello spazio laboratori sofisticati per cercare di renderci invece la vita più facile e più lunga. 

Santa, ripeto, e costosissima demenza, con tutto gli apparati militari che confezioniamo in alta uniforme, decoriamo e applaudiamo nelle rassegne, e con tutte le armi che costruiamo e ci vendiamo più o meno a vicenda per ammazzarci più rapidamente possibile. E per questa diabolica e cosiddetta umanità c’è ancora gente -pensate- capace di sognare, di studiare, di pregare e scrivere poesie.  

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La tragicommedia di Putin alla prese con la politica italiana

Pur con tutti gli esperti -militari, civili, filosofi, politici, giornalisti, persino artisti- che affollano i nostri studi televisivi, e che tragicamente non riescono quasi a mai a tenermi sveglio sino alla fine delle loro trasmissioni di giro- non sono mai riuscito a farmi un’idea esatta -sino a ieri- del punto in cui fosse arrivato Putin nella sua cosiddetta “operazione speciale” in Ucraina. Se si fosse spinto troppo avanti con le sue truppe, di leva e no, o fosse rimasto troppo indietro. Se si fosse troppo avvicinato o no, più o meno metaforicamente, a quella tragedia afghana dell’Unione Sovietica di Leonid Breznev. Che devenne poi anche la tragedia occidentale, ahimè.

           Ora che l’ho visto preso, dalle unanimi cronache provenienti da Mosca, più con i problemi della politica interna italiana  che con quelli della guerra in Ucraina, o dei suoi rapporti con i cinesi o con gl americani, o con i turchi, ho capito che l’uomo, il predatore, il cacciatore, chiamatelo come volete, è messo davvero male. Se ha individuato in Italia -ma in sostanza anche più in generale in Europa almeno- nel ministro della Difesa Lorenzo Guerini il falco dei falchi, l’uomo più pericoloso per i suoi sogni di gloria da Pietro il Grande piuttosto che da Lenin o da Stalin, troppo rossi per i suoi gusti, vuol dire che il povero Putin -consentitemi questo aggettivo un pò minimalista- è ridotto a pezzi. E un pò un giocattolo senza più le pile incorporate. 

            Capisco i danni che possono essergli derivati dall’interruzione per forza maggiore, e non necessariamente politica, dei suoi contatti con Silvio Berlusconi, di cui si stenta francamente a capire se soffrono più i rapporti familiari che quelli politici di centrodestra, come forse ci ostiniamo un pò in tanti a definire ancora ciò che non è più e non si capisce se e cosa potrò mai diventare da qui alle elezioni ordinarie. Ma scommettere sul mio peraltro molto amico e ammirato Lorenzo Guerini come l’uomo chiave del Pd, e di riflesso del governo di larga solidarietà nazionale affidato addirittura a Mario Draghi, ormai chiave del sistema europeo, colpendo o indebolendo il quale si può far cadere tutto, anche l’Ucraina dell’imprevisto Zelensky mi sembra francamente un’enormità. 

          Lorenzo Guerini è un’amabilissima persona vissuta e cresciuta nella Dc ai bei tempi della prima Repubblica, scambiato da quel disordinato di Mateo Renzi negli anni del loro forte rapporto simbiotico per un seguace del mio amico Forlani, tanto da chiamarlo Arnaldo, ma in realtà’ di stretta e convinta formazione andreottiana. E’ stato ed è, come preferite, la perla che Renzi, volente o nolente, ha lasciato nel Pd andandosene: altro che il toscanissimo Andrea Marcucci, che Enrico Letta si affrettò a rimuovere da capogruppo al Senato quando tornò l’anno scorso da Parigi per riprendersi il Pd da cui Renzi lo aveva fatto scappare con l’incubo dei campanelli di Palazzo Chigi da consegnare ogni giorno, anzi ogni ora, al suo spregiudicato  successore. 

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano dell’8 marzo
Titolo del Fatto Quotidiano di oggi

          Non vorrei che, ridotto male com’è, agli stracci, anche nei rapporti con l’Italia dopo la crisi dei suoi rapporti con Berlusconi e con Beppe Grillo, su cui vi segnalo  l’imperdibile articolo di oggi di Aldo Grasso sulla prima pagina del Corriere della Sera, gli informatori romani di Putin fossero rimasti fermi, prendendolo per buono, al fotomontaggio dell’8 marzo del Fatto Quotidiano  che proponeva la coppia bene armata di Guerini e di un Draghi vagamente napoleonico. E oggi proprio il giornale di Marco Travaglio, nella sua ossessione di vedere la mafia dappertutto, in Italia e all’estero, dove abbiano saputo forse esportare la peggiore, definisce “pizzino russo” quello appena mandato come un missile da Putin a Rona, fra il Quirinale e Palazzo Chigi. 

Vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

                Travaglio troppo ottimisticamente- credo- si chiede “con chi ce l’ha Putin”, sorprendendo i vecchi amici italiani del capo del Cremlino accomunati in una gustosa vignetta da Stefano Rolli sul Secolo XIX. Forse Putin avrebbe ragione d avercela semplicemente e meno pericolosamente solo con se stesso per essersi fidato tanto a lungo di quelli che in Italia ne tessevano le lodi, lo celebravano come una Santità  e forse andavano persino a farsi foraggiare. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it e http://www.startmag.it

Finalmente una giornata felice per i russi, nonostante Putin

Titolo del Foglio
Titolo del manifesto

        Decisamente in controtendenza rispetto agli umori della generalità dei giornali, i russi oggi non mi hanno rovinato la giornata. Neppure quelli, pensate un pò, che sono corsi non ricordo neppure più bene in quanti e in quale stadio appositamente allestito da Putin per farsi applaudire nella festa della vecchia acquisizione delle Crimea e nel proposito di completare quella sua “operazione speciale” per denazificare e non so co cos’altro l’Ucraina sottoposta intanto a bombardamenti quotidiani,  nelle pause e nelle tante trattative di cui si si scrive per concordare una tregua o addirittura chiudere la guerra cominciata il 24 febbraio. 

Titolo di Repubblica

          Non cado questa volta, chiedendo in anticipo le scuse ai lettori che si sentiranno probabilmente spiazzati, nella tentazione di condividere il “Putin all’ultimo stadio” stampato in rosso dal Foglio e in bianco del manifesto, commentandone appunto l’esibizione oratoria e folcloristica, o “l’adunata di guerra” contestatagli da Repubblica.

I tre astronati russi partiti per la Stazione Spaziale Univesale.
L’arrivo nella capsula spaziale

I russi che mi sono oggi piaciuti, poco importa se a questo punto in esecuzione o in dissidenza dall’immancabile ordine del loro capo supremo, sono quei  tre astronauti debitamente attrezzati recatisi a piedi nella stazione di lancio, da dove un razzo, partito di notte una vota tanto non per sventrare qualche palazzo o teatro ucraino a qualche centinaia di metri o di chilometri di distanza, ma per portarli in orbita attorno alla terra e raggiungere la stazione spaziale universale che gira attorno al globo da più di vent’anni, diventata ormai un grandissimo laboratorio scientifico, più ancora che militare, al servizio dell’uomo. 

            Nei primi giorni della guerra in Ucraina, quando a Mosca diedero a torto o a ragione l’impressione di non essere più interessati  alla prosecuzione di questa costosissima e benemerita operazione scientifica condivisa fra americani, canadesi, europei e giapponesi, salvo emissioni di cui mi scuso in anticipo, l’unico giornale che lanciò l’allarme fu quello della Confindustria italiana, con un titolo e una foto di copertina a colori che mi colpì moltissimo, E mi indusse a tristi considerazioni sulla piega che aveva già preso quell’insensata guerra aperta da Putin in una delle notti da lui stesso ammesse di trasfigurazione in Pietro il Grande. 

La stazione spaziale universale

Ora che la partenza della navicella russa per il rimcabio di equipaggio e mezzi è avvenuta e gli obiettivi sono stati pienamente realizzati, nonostante l’aumento dei costi intervenuto, e una bella immagina venuta dallo spazio ha documentato l’abbraccio fra il primo astronauta russo calatosi nell’abitacolo e l’astronauta americana da rimpiazzare, il giornale della Confindustria italiana chissà perché ha mancato o bucato la notizia, almeno in prima pagina. Ancora peggio sarebbe averla destinata solo a una pagina interna. Sono i misteri del giornalismo, come quelli delle fede declamati dal sacerdote dopo l’eucarestia.

Il lancio del razzo

Datemi o tornatemi pure a dare dell’ingenuo, dello scemunito, dell’immeritevole dell’assistenza del servizio sanitario nazionale per allontanare ancora un pò il momento della mia motivatissima morte, ma quella notizia del ricambio appena compiuto nella stazione  spaziale universale e della confermata collaborazione fra gli Stati o le agenzie che se ne occupano io la trova non una ma cento volte più consolante e significativa di tutte quelle che ci vengono propinate ogni giorno sugli sviluppi della guerra in Ucraina, sulle trattative sopra e sotto la terra che si stanno sviluppando non ricordo più in quante parti del mondo, alle quali altre si offrono quotidianamente, e sugli spettacoli programmati con sapienza teatrale -sia detto senza offesa per l’interessato, non trattandosi del nostro Beppe Grillo- dal presidente dell’Ucraina Zelensky in collegamento con i vari Parlamenti del mondo, compreso quello italiano. Che gli riserverà martedì -assicurano gli addetti ai lavori- un’accoglienza coi fiocchi. E’ già importante d’altronde che il collegamento non sia stato predisposto di lunedì, quando le presenze nelle aule parlamentari sono generalmente da sedute spiritiche, qualsiasi argomento il presidente di turno dell’assemblea abbia deciso di mettere all’ordine del giorno. 

      Scherzi a parte, un’umanità disposta  a collaborare in pace nello spazio e incapace di chiudere un conflitto su un qualsiasi pezzo della terra in cui le tocca vivere sarebbe solo un’umanità scellerata, a questo punto non importa neppure sapere per colpa o colpa maggiore di chi. Tutti stupidamente scellerati. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Draghi separa le emergenze e alleggerisce almeno quella pandemica

Titolo di Repubblica
Titolo del manifesto

Ma chi l’ha poi detto che dobbiamo tutti e sempre farci guastare la notte andando a letto con le inmagini televisive provenienti dall’Ucraina, e la mattina preferendo i giornali con i titoli spesso “a ferro e a fuoco”, come quello ripropostoci oggi dal manifesto, dopo il binomio meno truce di “bombe e dialogo” dei giorni precedenti. Un’alternativa a questo tipo di informazione c’è e l’ha appena offerta, nei panni ancora e fortunatamente responsabili di Mario Draghi. Il presidente del Consiglio ci ha comunicato in tutta tranquillità, senza strappi o bruciature sui vestiti, con mascherine nitide ancora in mano, mica incenerite, che in Italia le cose vanno meglio. Tanto meglio che stiamo ormai uscendo dall’emergenza virale, potremo riaprire -ha detto o spalleggiato il ministro della Salute garantito dal cognome Speranza, anche quello che in verità non abbiamo mai neppure del tutto chiuso, e affrontare fiduciosi l’arrivo della primavera. E pazienza se quegli incontentabili rompiballe della Verità hanno avvertito ritardi anche in questo perché le ferie pasquali, per chi se le potrà permettere o le vorrà fare, non saranno ancora fuori da tutti i vecchi recinti di divieti e simili. 

Titolo della Verità

        Sovrapporre due emergenze ha sfiancato anche uno come Draghi, e temo anche il presidente della Repubblica fattosi confermare, dopo tanti tira e molla, quando lo stesso Draghi con garbo ma realismo gli ha fatto capire che continuando magari a opporsi ad una rielezione egli avrebbe portato solo alla caduta del governo e ad una crisi gestita da una presidente supplente della Repubblica -Maria Elisabetta Casellati eccetera eccetera- di cui ancora si riferiva che andasse in giro per il Senato a parlare da sola della propria fallita candidatura al Quirinale. 

Titolo del Messaggero

                Per adesso l’epidemia virale va quindi  meglio, o così sembra agli scienziati cui tutti garantiscono l’ultima parola, e tanto dovrebbe bastarci a consolarci. In Ucraina certamente le cose vanno invece male, e non si capisce bene se peggio per l’aggressore Putin o per gli aggrediti e suoi sfortunati vicini di casa, ma il presidente Zelensky in mezza tuta militare parla ogni giorno dai suoi rifugi segreti ai Parlamenti di tutto il mondo accreditando anche lui trattative alle quali da qualche tempo contribuisce con apertura ad una neutralità che sembrava preclusa. E chissà se nel collegamento preannunciato per martedì col Parlamento italiano, di cui si sta occupando personalmente, fra le sue melodie napoletane, il presidente della Camera Roberto Figo, casualmente collega di partito del ministro degli Esteri Luigi Di Maio guadagnatosi l’oscar del ferocia o severità per avere definito “animale” Putin, non porti davvero anche la notizia, sognata oggi dal Messaggero, che possano svolgersi a Roma le trattative per la soluzione del conflitto, tregua o ancor meno. E ciò alla faccia del presidente francese Emmanuel Macron, che a furia di parlare più di tutti gli altri col capo del Cremlino, ci esorta ogni giorno a prepararci ad “una guerra ad altissima intensità in Europa”, come se la Francia peraltro potesse rimanerne immune e scommettere sulla capacità del presidente americano Biden di vincerla da lontano senza neppure sporcarsi gli stivali, limitandosi a mandare agli ucraini più soldi e armi anche dei vicini di casa europei. 

          Non tutto insomma sembra davvero perduto, fuorché forse l’’onore di chi lo rivendica con maggiore forza. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

In attesa che qualcuno riesca a fermare Putin a Mosca. Ma chi ?

Dal Corriere della Sera
Dal Corriere della Sera

      Come mi piacerebbe condividere l’ottimismo, sia pure per il tempo di un  caffè leggendo l’omonima rubrica  di Massimo Granellini sulla  prima pagina del Corriere della Sera. Che oggi che attribuisce solo alle “nostre paure” l’immagine della forza che continua a trasmettere Putin nella sua guerra all’Ucraina, dispiegata fra trattative e carneficine, fra bombe e dialogo, con giornali di una certa autorevolezza internazionale che addirittura anticipano, descrivono, spiegano un  negoziato in quindici punti. Peccato che nel frattempo continuino a rotolare palazzi, ponti, ospedali e teste.

        Putin secondo Gramellini “ha cominciato a perdere colpi fin dall’inizio della guerra. Pensava di essere accolto come un liberatore e così non è stato. Era convinto che i  militari ucraini gli  avrebbero offerto la testa di Zelensky e invece Zelensky è ancora li che arringa gli europei con le parole d Shakespeare e gli americani con quelle di Martin Luther King. Aveva scommesso sulla spaccatura dell’Occidente e la compattezza del fronte interno, ma l’Occidente è unito come non accadeva da tempo e il fronte interno è pieno di buchi,  come rivelano le proteste di piazza , i mugugni dei gerarchi e la facilità con cui una contestatrice è riuscita a infilarsi nel telegiornale russo di massimo ascolto”, rimediando solo una quindicina d’ore di fastidioso interrogatorio. 

              A questo punto, seconde secondo Gramellini, fortunatamente non distratto dai Travagli di turno per niente convinti dei torti di Putin e delle ragioni dei solisti occidentali mercanti d’armi ad ogni occasione utile, “la logica suggerisce che si possa fermarlo o almeno contenerlo. Possiede l’atomica e infatti l’angoscia più grande e che il timore di perdere la faccia gli faccia perdere la testa”, come se non avesse abbondantemente perso sia l’una che altra. Ma anche a questo il rimedio ci sarebbe.

  La consolazione di Granellini -e di altri, come Marcello Pera e i dissidenti russi che sperano in qualche congiura di palazzo ben riuscita- è che per aprire le valigette e usare i “codici” delle armi  nucleari ci vogliano al Cremlino le mani, gli occhi e la testa anche “del generale Valerij Gerasimov, che tutto sembra, tranne che un pazzo suicida”.

Temo, per dirla tutta con sincerità e orrore, che in Russia non ci siano più quei mostri infagottati che l’amico Enzo Bettiza riusciva a descrivermi come se li avesse frequentati per una una vita,  o i loro pronipoti. Temo che si sia un solo, gigantesco mostro -Putin, appunto-  che riesce a guadarsi nello specchio senza mai farsi tentare dall’idea di sputarsi in faccia. Qualcuno di quegli altri invece -mi diceva Bettiza- ogni tanto lo faceva. 

Ol generale Gerasimov in bassa unifomre
Il generale Gerasimov in alta uniforme

  Beh, sono andato a cercarmi qualche foto di questo generale tanto stimato da Gramellini e vi confesso che sono rimasto alquanto deluso.  Non mi è sembrato un personaggio affidabile né in bassa né in alta uniforme. Avrei preferito che assomigliasse a qualcuno dei tanti esponenti enigmatici della nomenclatura sovietica che ai tempi dell’Urss le telecamere russe ci offrivano nei giorni delle parate, e che immaginavano imbottiti di pugnali. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Tutti i Presidenti della Repubblica nella Galleria di Paolo Armaroli

  Quel diavolaccio di Paolo Armaroli, l’unico costituzionalista e poi anche politico della destra al quale Indro Montanelli, quando lo assoldò nella sua ciurma al Giornale, non riusciva a correggere un aggettivo o a spostare un virgola, pur abituato com’era a farlo con tutti, tanto lo considerava un giornalista ben riuscito, mi ha fatto uno scherzo da preti, se non si offendono i preti. 

Titolo del Dubbio

    Mi ha tirato in un’imboscata con un libro -pubblicato al solito da La Vela- che mi aveva fatto leccare i baffi per quei “ritratti a matita dei 12 Presidenti della Repubblica” promessi in copertina. Chi meglio di lui -mi sono chiesto- mi potrà far divertire raccontandomeli quasi tutti più o meno dal vivo, con più notizie di me, pur cronista di vecchio mestiere, per le maggiori frequentazioni politiche avute e la maggiore conoscenza degli aspetti tecnici, chiamiamoli così, di una funzione così importante come quella del capo dello Stato?

Il libro appena pubblica da Armaroli con La Vela

      Invece che cosa mi combina l’autore con la complicità naturalmente dell’editore provvisto -per carità- delle sue buone ragioni in un momento peraltro difficile per i libri? Delle 213 pagine del libro, ben 72, se non le ho contate male, sono state dedicate al presidente della Repubblica ancora fresco di conferma, senza neppure il sottinteso di un mandato incompleto come nel 2013 con la rielezione di Napolitano. Il resto, pari a 141 pagine, sempre che abbia saputo fare di conto, è stato destinato ai predecessori, alla media di poco più di dieci pagine l’uno. E così la mia curiosità è andata a farsi fottere, con i baffi che del resto non ho.

        Nella sua estrema sintesi, per carità, Armaroli è stato bravissimo a fotografare i predecessori di Mattarella: dal “presidente per grazia ricevuta” De Nicola, il provvisorio, alla “viva voce della Costituzione” come l’autore ha definito quella del presidente Luigi Einaudi, il migliore di tutti secondo lui; dall’”interventista” Giovanni Gronchi salito dalla presidenza della Camera al Quirinale nel 1955 col dichiarato proposito di spingere l’evoluzione degli equilibri politici dal centrismo al centrosisnistra, al “frenatore a mano” e collega democristiano di partito Antonio Segni, eletto nel 1963 e colto da un ictus l’anno dopo; dal “santo patrono del centrosinistra” che tornò ad essere sul Colle il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat al “giurista immolato sull’altare della ragion politica” quale fu Giovanni Leone, costretto a lasciare il Quirinale sei mesi prima della scadenza del mandato, come vedremo, per una sostanziale congiura dei partiti contro di lui, a  cominciare dal suo”, a quel formidabile “Castigamatti” di Sandro Pertini che lo sostituì guadagnandosi una popolarità forse mai uguagliata da altri; dal “presidente per disgrazia ricevuta” che fu Oscar Luigi Scalfaro, eletto nel 1992 sotto l’emozione traumatica della strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, alla moglie e  a quasi tutta la scorta, al “cantore della Patria” che si rivelò Carlo Azeglio Ciampi rianimando bandiere e sfilate, e al “presidente del doppio mandato” Giorgio Napolitano, peraltro l’unico comunista o post-comunista salito così in alto. Che, diversamente dal successore Mattarella, misurato nei toni anche quando perde la pazienza, accettò la rielezione scudisciando il Parlamento che non aveva saputo trovargli un successore e, soprattutto, non aveva saputo realizzare uno straccio di riforma. 

          Armaroli conosce la mia franchezza e non si stupirà se amichevolmente gli contesto quel rimprovero a Leone di avere in qualche modo disatteso il suo “cognome”, non essendo “mai stato” un uomo di coraggio. Beh, un presidente della Repubblica che di fronte al sequestro di Aldo Moro e al declamatorio annuncio di una linea della fermezza che tutti sapevano di difficile tenuta e utilità, convoca il segretario del suo partito al Quirinale, Benigno Zazzagnini, per manfestargli  il proprio dissenso e si dà da fare davvero -unico fra tutti- per aprire la prospettiva di un epilogo meno tragico del sequestro predisponendo la grazia di uno solo dei 13 “prigionieri” con i quali i terroristi avevano reclamato lo scambio con l’ostaggio, e ci rimette per questo il posto su imposizione dei partiti, a cominciate dal suo, finendo in un processo sommario per tutt’altri motivi, ebbe un coraggio veramente da leone, raggiunto dalle scuse con i soliti ritardi dei vigliacchi, 

      Su Mattarella, sulla esplorazione persino psicologica che ne fa l’autore, sulle ragioni della improvvisa conversione dal no al sì alla conferma, tanto di cappello ad Armaroli, Che senza tanti fronzoli, in una ricostruzione minuziosa dei fatti, è andato al sodo del problema indicando nella conferma del presidente della Repubblica la coerenza con la difesa del quadro politico da lui stesso voluto con inusitata  fermezza mandando Draghi a Palazzo Chigi. Dove francamente non vedo chi altri potrebbe oggi stare, tra emergenze di ogni tipo, con la stessa serietà. 

Pubblicato sul Dubbio

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