

A sua insaputa, diciamo così, a Matteo Renzi è accaduto di inseguire da più di una decina d’anni il fantasma di Bettino Craxi cercando sempre di esorcizzarlo col rifiuto quasi sprezzante, o magari solo scaramantico, di considerare l’ultimo leader storico del socialismo italiano come un suo punto di riferimento. Anzi, preferendogli disinvoltamente l’ultimo leader storico del comunismo italiano, e suo antagonista politico, Enrico Berlinguer. Che con Renzi non aveva proprio nulla da spartire, con quella visione pauperistica che aveva avuto del mondo, e con quell’ide fissa che all’est ci fosse il paradiso, pur con le caramelle che rimanevano appiccicate alla carta, e all’ovest l’inferno, pur con la smania di tanti che vi si volevano rifugiare.
Di educazione o abitudine cattolica come lui, tanto da essere stato tentato in età adolescenziale dal seminario, Craxi approdò al socialismo in secondo battuta come avrebbe fatto Renzi approdando al Pd dalla pratica familiare della Democrazia Cristiana. E abbracciando il socialismo con tanto slancio, a volte persino approssimativo, da sorpasssare i vari D’Alema, Bersani, Fassino e Veltroni che, temendo chissà quali reazioni e resistenze dei democristiani sopraggiunti al loro fianco, esitavano a portare il Pd nell’Internazionale Socialista. Dove pure il Pds-ex Pci, prima della contaminazione della Margherita di memoria rutelliana, era approdato nel 1992 col consenso pur così malamente ripagato proprio del Psi di Craxi. Il cui veto sarebbe bastato e avanzato per tenerne fuori gli orfani del muro di Berlino.
Piuttosto che rifarsi a Craxi e al suo tentativo di modernizzare la sinistra col riformismo di provata e consolidata democrazia, Renzi preferì, pur una volta arrivato al vertice del Pd, farsi adottare generosamente da Giuliano Ferrara come il “royal baby” di Silvio Berlusconi. Che, almeno ai tempi in cui lo frequentavo, mi risultava che votasse alla Camera il Psi per onorare la simpatia e l’amicizia con Craxi e al Senato la Dc per onorare la simpatia e l’amicizia di Arnaldo Forlani e il rispetto per Giulio Andreotti, prima che il Cavaliere si mettesse in proprio e potesse votare finalmente lo stesso partito -il suo- per entrambi i rami del Parlamento.


Il mio amico Ferrara, come tanti altri, da Carlo De Benedetti recentemente intervistato da Lilli Gruber anche su questo punto ad Eugenio Scalfari , oggi meno loquace per ragioni di età ma generosamente offertosi quando il giovanotto da Palazzo Chigi gli telefonava per gli auguri genetliaci e si faceva indicare i libri da leggere, anzi da studiare, lasciandosene poi interrogare, è di quelli che hanno dispensato consigli a iosa al Renzi rampante e promettente del 2012 e anni successivi. Ma, diversamente dagli altri, pur avendo ricevuto qualche delusione personale nei giorni in cui si parlava, a torto o a ragione, di un suo ritorno alla Rai che Renzi voleva rivoltare come un calzino, Ferrara non si è mai riceduto su di lui per non essere stato sempre ascoltato come si aspettava. Ha continuato a volergli un po’ di bene e nutrire un po’ di simpatia, schierandosi proprio in questi giorni con lui nella tempesta mediatica e giudiziaria scatenatasi sui suoi guadagni da conferenziere e sui finanziamenti procurati alla sua legittima attività politica, prima nel Pd e poi nell’Italia Viva che dannatamente l’ex presidente del Consiglio non riesce a far salire nel mercato, chiamiamolo così, dei sondaggi. Eppure gli dispone in Parlamento di qualche decina fra deputati e senatori risultati sufficienti addirittura a interrompere l’esperienza di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e a farvi mandare da Mattarella il nientepopò di meno che Mario Draghi.
Con Renzi gli avversari non badano a mezzi per contrastarlo, anche a costo di ripercorrere i sentieri, sentierini, boschi, boschetti degli anni e dei mesi della lotta a Craxi. E chissà se almeno di fronte a questo il giovanotto toscano non si deciderà a riconoscersi un po’ anche in lui, a studiarne finalmente la storia e a riconoscere i torti infertigli da una classe politica accecata dal livore.

La notizia di Pier Luigi Bersani, con altri compagni del suo attuale partito provenienti dal Pd, accorso come teste dai magistrati toscani che si stanno occupando di Renzi mi ha riportato indietro con la memoria a quando, negli anni di “Mani pulite” il mio amico ed ex segretario socialista Giacomo Mancini salì dalla sua Calabria a Milano per spiegare agli inquirenti l’amministrazione del suo Psi e metterli meglio sulla pista di Craxi, che non a caso varcò proprio allora la soglia delle indagini.

Giacomo mi spiegò di avere fatto quel passo non tanto contro Craxi, che lui d’altronde aveva contribuito nel 1976 a portare al vertice del partito al posto dell’ormai consunto e sconfitto Francesco De Martino, quanto del comune amico Vincenzo Balzamo. Che come segretario amministrativo del Psi rischiava -mi disse- di diventare il capro espiatorio di Tangentopoli e dintorni.

Il caso purtroppo volle che da lì a qualche settimana il povero Balzamo, notoriamente malato di cuore, morisse d’infarto, nonostante il sollievo procuratogli nelle sue intenzioni da Mancini. Ma, in fila ad un negozio di pane vicino al Duomo di Milano, dopo qualche giorno mi sentii avvicinare da un omone in maniche di camicia che mi disse. Anzi mi chiese, senza darmi il tempo di chiedergli chi fosse e di inseguirlo nell’uscita frettolosa dal negozio: “Siete proprio sicuri che Balzamo è morto d’infarto?”. Da allora in effetti l’interlocutore, l’indagato, l’imputato diretto della Procura milanese divenne Craxi. Il resto fu e resta storia, purtroppo rimossa anche da Renzi.
Pubblicato sul Dubbio
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