Bel modo di sostenere il governo vantandosi dei voti perduti da chi ne fa parte

Pur nella comprensione dovutagli per le condizioni di minorità in cui si trovava, con la conduttrice Lilli Gruber che spalleggiava nello studio televisivo di Otto e mezzo gli attacchi di Marco Travaglio, collegato dalla direzione del Fatto Quotidiano, il segretario del Pd Enrico Letta si è incautamente difeso facendo un grave torto al governo di Mario Draghi e alla maggioranza di emergenza raccoltasi attorno a lui. E in fondo anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che quel governo e quella maggioranza ha promosso chiudendo quattro mesi fa una crisi che in condizioni normali, senza le difficoltà e gli impedimenti derivanti dalla pandemia, avrebbe dovuto essere chiusa con lo scioglimento anticipato delle Camere e il conseguente ricorso alle urne.

            E’ accaduto, in particolare, che per smentire la rappresentazione di un governo Draghi a trazione sostanzialmente salviniana, pieno di “favori ai padroni” e di “flop” in materia di scuola, vaccini e giustizia, per ripetere parole e titoli di Travaglio, il segretario del Pd si sia vantato dei voti perduti dalla Lega nei sondaggi che hanno invece premiato il suo partito, sino a portarlo in testa alla classifica pur virtuale delle forze politiche, come rilevato di recente da Ispo per Repubblica.  

            Ebbene, a parte la smentita o novità appena arrivata da un sondaggio effettuato dalla Swg per conto proprio dell’emittente della trasmissione della Gruber, ed appena illustrati al telegiornale della 7 da Enrico Mentana, da cui il Pd risulta al terzo posto dopo Lega e Fratelli d’Italia, Enrico Letta ha finito col suo argomento per danneggiare il governo dove pure si sente orgogliosamente “di casa”.  Il rispetto degli alleati, o semplici compagni di strada in un percorso accidentato com’è quello nel quale è impegnato Draghi, e in una comprensione delle difficoltà che sembra maggiore all’estero che in Italia, è quanto meno opportuno, se non doveroso. E se Salvini ogni tanto si è lasciato prendere la mano anche lui, contrapponendosi più che affiancandosi al Pd, non è questa una buona ragione per ricambiarlo della stessa moneta, alimentando così una spirale polemica che non giova a nessuno, nuocendo invece a tutti.

Non è così, francamente, che si aiuta il presidente del Consiglio nel suo lavoro, a casa o in trasferta, dove per fortuna le abituali risse fra i partiti italiani nelle maggioranze di turno qualche volta riescono a passare inosservate, ma non sempre. E se un certo livello di guardia venisse superato, a prevenire o limitare i danni potrebbe non essere più sufficiente neppure il credito personale di cui Draghi gode con i suoi interlocutori, al di qua e al di là dell’Atlantico.

            E’ come se ai tempi della tanto e ingiustamente bistrattata prima Repubblica, quando la Dc, rimasta priva dei suoi tradizionali alleati di centro e di centrosinistra, fu costretta ad una “tregua parlamentare” col Pci di Enrico Berlinguer, raggiunta per spirito di dichiarata “solidarietà nazionale”, si fosse vantata dei voti che costava ai comunisti l’appoggio esterno ai governi monocolori di Giulio Andreotti.

            Le emergenze non si affrontano, di solito, con soccorritori così poco convinti del loro compito da guardarsi più fra di loro, con i pugnali in mano, che dagli ostacoli comuni.  Se ne rese conto nello stesso Pd -per non andare lontano con i tempi sino alla Dc di Benigno Zaccagnini e al Pci di Berlinguer- il buon Pier Luigi Bersani mancando la vittoria elettorale nel 2013 dopo avere appoggiato il governo tecnico di Mario Monti, anch’esso chiamato nel 2011 dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ad affrontare una gravissima emergenza economica, finanziaria e sociale.

            Silvio Berlusconi, partecipe di quegli accordi di maggioranza, al punto da dimettersi spontaneamente da presidente del Consiglio, senza avvertire o dolersi in quel momento del “complotto” di cui si sarebbe poi lamentato, ad un certo punto si sfilò, giusto in tempo per affrontare dall’opposizione le elezioni alla scadenza ordinaria del 2013. Ma il Pd rimase responsabilmente al suo posto. E, superato dai grillini, per quanto poi avesse scommesso improvvidamente sul loro aiuto per quel governo che Bersani chiamò “di combattimento e minoranza”, impeditogli all’ultimo momento dal Quirinale, si guardò bene dal rimproverare al capo dello Stato e allo stesso Monti i danni subiti elettoralmente. Sono regole elementari, direi, di convivenza politica che la logica della difesa adottata da  Enrico Letta nel salotto televisivo di Lilli Gruber ha in qualche modo tradito. Non puoi vantarti del danno che riesci a procurare all’alleato o, ripeto, compagno di strada lungo un percorso che hai concordato con lui, o comunque hai accettato di condividere.

            Di questo passo, peraltro, il segretario del Pd rischia di perdere il vantaggio che presume ogni tanto di avere conquistato e di rovesciare la situazione. Infatti, non essendo lo sprovveduto evidentemente considerato al Nazareno, Salvini ha reagito al Letta della Gruber, e di Travaglio, opponendo il “senso di responsabilità” della Lega, come partecipe del governo e della maggioranza, anche a costo di perdere voti, all’”opportunismo” del Pd. E alla confusione, quanto meno, del MoVimento 5 Stelle, che non riesce ancora a decollare sotto la guida di Giuseppe Conte per contasti esplosi, a questo punto, fra l’ex presidente del Consiglio e il “garante”, “elevato”, “insostituibile” e quant’altro Beppe Grillo.

Pubblicato sul Dubbio

Il Draghi felice e invidiato d’esportazione e quello svillaneggiato in Italia

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo del Quotidiano del Sud

            Quanto è stato consolante vedere Mario Draghi in televisione ricevere gli elogi della cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo l’incontro bilaterale a Berlino, tanto è stato imbarazzante vedere e sentire Enrico Letta barcamenarsi nel salotto televisivo di Lilli Gruber a spiegare alla conduttrice, e al direttore del Fatto Quotidiano collegato dall’esterno, le ragioni della partecipazione e dell’appoggio del suo Pd ad un governo che sarebbe solo quello della “restaurazione”, o “di larghe imprese”, più che intese, contrassegnato da “favori ai padroni” e da flop “su scuola, vaccini e giustizia”. E’ proprio questo il bilancio dei quattro mesi di governo Draghi tracciato in un titolo del Fatto dal direttore Marco Travaglio fra un’interruzione e l’altra della sua polemica diretta in televisione col segretario del Pd. Il quale alla fine ha pensato di cavarsela alquanto goffamente, visto che partecipa ad una coalizione dichiaratamente di emergenza, sostenendo che il suo partito sta guadagnando voti e la Lega di Salvini ne sta perdendo, anche se sembra la forza trainante della maggioranza al presumibilmente improvvido direttore del giornale che ancora rimpiange Giuseppe Conte a Palazzo Chigi.

            Peraltro, di questo Conte impietosamente detronizzato hanno perduto le tracce anche nella redazione del Fatto Quotidiano, sulla cui prima pagina di oggi è comparsa una impietosa vignetta in bianco di Vauro Senesi che lamenta: “C’è ma non si vede”. Ancora più a sinistra, il giornale di Travaglio dà così le ultime sull’ex presidente del Consiglio che avrebbe dovuto presentare fra domani e giovedì il MoVimento 5 Stelle affidato ai suoi interventi di rifondazione o ristrutturazione: “Statuto 5S, Grillo ferma Conte e fa slittare l’evento”. In ballo sono finiti notoriamente “i poteri del garante”, cioè di Grillo in persona, che non intende rinunciare all’ultima, se non unica, parola su tutto, a cominciare dalla linea politica e dalle scelte degli alleati ormai intercambiabili sotto le cinque stelle.

Titolo di Avvenire

            Conte, per quanto Travaglio lo abbia sostanzialmente invitato alla pazienza parlandone proprio nei suoi collegamenti con lo studio televisivo di Lilli Gruber, poiché è “meglio perdere qualche giorno in più e chiarire bene le cose piuttosto che complicarsele dopo”, non deve avere preso bene l’impuntatura del pur “insostituibile” fondatore, garante, elevato e quant’altro se Avvenire, il quotidiano dei vescovi solitamente prudente, ha riferito in un titolo della tentazione dell’ex presidente del Consiglio di farla finita con i suoi restauri e di “mettersi in proprio”, con un suo movimento, quasi nuovo di zecca. Quasi, perché inevitabilmente frutto di una, anzi di un’altra scissione del movimento che lo ha portato a Palazzo Chigi, dopo quella derivata dalle espulsioni e dalle “disiscrizioni”, come ha definito la sua quel “giovanotto generoso” che sarebbe Alessandro Di Battista nelle valutazioni di Conte, fiducioso di recuperarlo al ritorno dal nuovo viaggio di distrazione intrapreso in Sud America.

            Chissà se Conte -sempre lui- avrà condiviso contro Draghi anche l’accusa rivoltagli dal giornale di Travaglio di avere contestato la finale dei campionati europei di calcio a Londra non per ragioni di prudenza antipandemica, viste le difficoltà sanitarie insorte in Gran Bretagna, ma solo per “scippare” agli odiati inglesi, magari per ripicca dopo l’uscita dall’Unione Europea, l’appuntamento che in teoria -facciamo gli scongiuri precauzionali- potrebbe riguardare anche i nostri bravi e sinora pure fortunati azzurri.

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Enrico Letta tra le reti festose dell’Italia e le sue autoreti con i grillini

Roberto Gualtieri
Il segretario del Pd alle primarie di Roma

            Le primarie del Pd per i candidati sindaci di Roma e di Bologna non hanno guastato al segretario Enrico Letta la festa da tifoso per la volata dell’Italia negli ottavi di finale dei campionati europei di calcio vincendo anche la partita col Galles, dopo quelle con la Turchia e la Svizzera. Lui stesso aveva ammesso, dopo il flop delle primarie a Torino, di rischiare “l’osso del collo” a Roma e Bologna, dove sono andati a votare nei gazebo, rispettivamente, pur tra qualche contestazione, 45 mila e 25 mila partecipanti di quello che il segretario del Pd ha definito “il popolo di centrosinistra”. Che avrebbe dimostrato di “esserci” e, in fondo, di riconoscersi nella sua leadership.

            E’ improbabile, visto anche che tanto a Roma quanto a Bologna è mancato l’accordo su un candidato comune a sindaco, che Letta possa parlare davvero con convinzione del “popolo di centrosinistra” includendovi il MoVimento 5 Stelle. Col quale invece egli continua a perseguire un’intesa in altre parti d’Italia e soprattutto a livello nazionale. E’ un movimento sulla cui evoluzione, sotto la guida di Giuseppe Conte ma a “garanzia” invariata, che è quella di Beppe Grillo, il segretario del Pd ha scommesso moltissimo rischiando l’osso del collo ancor più che nelle primarie comunali di sostanziale ratifica delle sue scelte per Roberto Gualtieri in Campidoglio e Matteo Lepore nella città delle due torri.

Antonio Martino a Libero

            Nella convinzione che si è fatto di un movimento col quale poter condividere anche nella prossima legislatura il governo del Paese Enrico Letta avrà trovato -presumo- esagerato il pessimismo di un liberale a 24 carati come Antonio Martino. Che oggi in una intervista a Libero ha definito quella delle 5 Stelle “l’invenzione di un guitto genovese di scarso talento ma furbissimo, che ha creato questa cosa basata sul disprezzo per tutti e per tutto, priva di qualsiasi consistenza ideologica….Un fenomeno disgustoso per il nostro Paese”. Che ha peraltro mandato alla Farnesina, dove Martino fu ministro degli Esteri col centrodestra, come il padre prima di lui col Pli alleato alla Dc, “il bibitaro del San Paolo” più adatto alla “sua prima professione, nella quale parlare partenopeo era più che sufficiente per svolgere le funzioni che gli competevano”. Si tratta naturalmente di Luigi Di Maio.

Titolo del Messaggero

            Ben diversa, secondo Martino, si è rivelata la pasta della Lega, anch’essa nata tra gli sberleffi e gli insulti del fondatore Umberto Bossi, ma evoluta a tal punto, a furia di governare con Berlusconi, da essere bene adatta al partito unico del centrodestra che lo stesso Berlusconi è tornato a proporre nella prospettiva delle elezioni politiche del 2023, smentendo di essere incoraggiato dai figli a liberarsi di Forza Italia. L’idea del partito unico del centrodestra, del resto, secondo quanto ha riferito come testimone proprio Martino, venne a Berlusconi già nel 1997 parlando con l’allora premier spagnolo Josè Maria Aznar. E ora che la Lega è quella dell’ex ministro dell’Interno potrebbe ben essersi verificato quello che Il Messaggero ha annunciato in un titolo riferendo di un incontro appena avvenuto ad Arcore fra i due con queste parole attribuite al padrone di casa: “Sei tu il mio erede”.

            Certo, ci sono resistenze sulla strada così insistentemente indicata dall’ex presidente del Consiglio, convinto di poter importare in Italia il partito repubblicano degli Stati Uniti, augurabilmente non di stile trumpiano, ma è una scommessa- ad occhio e croce- meno avveniristica di quella fatta da Enrico Letta su un MoVimento 5 Stelle davvero nuovo, dimagrito elettoralmente ma più affidabile.

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L’involontario contributo delle toghe alla promozione dei referendum sulla giustizia

Titolo di Libero
Titolo del manifesto

Questa volta, a dispetto delle apparenze in cui è caduto anche il manifesto preferendo titolare, sia pure in modo non molto vistoso in prima pagina, su “Salvini contro i giudici”, l’’iniziativa dell’attacco è arrivata dai magistrati con “la ferma reazione” minacciata dal presidente della loro associazione ai sei referendum sulla giustizia promossi dai leghisti e dai radicali. La cui raccolta di firme dopo il deposito dei quesiti in Cassazione, in piena estate e  pandemia non ancora sconfitta, potrebbe risultare incoraggiata proprio da questa autorete del sindacato delle toghe. Quel “che fate, volete arrestarci?”, gridato praticamente in piazza in manifestazioni necessariamente politiche dai sostenitori dei referendum, com’è accaduto nel raduno promosso a Roma dalla Lega, ha colto il segno.

            Sarà difficile coprire il buco con la toppa del presidente del sindacato delle toghe, Giuseppe Santalucia. Che ha detto, in una intervistina al Corriere della Sera, di avere non minacciato ma semplicemente chiesto una “ferma reazione” al comitato direttivo centrale della sua associazione, chiamato all’ennesimo dibattito sui problemi della giustizia. Che sono, o dovrebbero essere peraltro ben più ampi di quelli della categoria dei magistrati, spesso colti invece in flagranza, diciamo così, a guardarsi l’ombelico, cioè a sentirsi il centro del mondo giudiziario, privilegiando le loro questioni rispetto a tutto il resto.

            Una prova ha finito involontariamente per darla lo stesso presidente dell’associazione delle toghe accusando i promotori dei sei referendum- che spaziano dalla responsabilità civile alla separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici- di volersi sostituire al Parlamento, dove si discute degli stessi temi, non per fare “da pungolo” ma per profittare della “crisi della magistratura, che non neghiamo” e “cristallizzare questa situazione” di presunto svantaggio della categoria.

La manifestazione leghista a Roma

            Ciò potrebbe essere vero, o credibile, se i magistrati, come ha detto Santalucia al Corriere parlando di un “riconoscimento” ottenuto dalla ministra della Giustizia, fossero “collaborativi” sul serio nel confronto in corso in Parlamento e dintorni sulle riforme della giustizia, peraltro incluse nel pacchetto delle condizioni necessarie al finanziamento europeo del piano della  ripresa anti o post-pandemica predisposto dal governo. Riconoscimenti sono partiti dalla ministra, in verità, in tutte le direzioni, persino ai grillini che l’hanno preceduta alla guida del dicastero della Giustizia, ma resta il fatto che, per esempio, la riforma del processo penale non è riuscita ad approdare nell’aula della Camera neppure in questo mese per i soliti rinvii causati da mancanza  d’intesa. Di che cosa stiamo insomma parlando se non di parole, appunto?  Che nel caso dei magistrati tuttavia sono le più temibili, cioè avvertibili come minacce, per l’uso purtroppo frequente delle funzioni che la loro minoranza più attiva ha dimostrato di voler e saper fare per sconfinare dagli argini della separazione dei poteri e tenere sotto scacco la politica.

            La situazione purtroppo è talmente incancrenita che probabilmente non basterà neppure l’arma referendaria a garantire una vera via di uscita, come dimostrò sulla soglia della primavera del 1988 la legge vanificatrice del referendum stravinto dai promotori nell’autunno del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati. Forse occorrono anche modifiche alla Costituzione, con le loro complesse procedure parlamentari ed eventuale ratifica referendaria.

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Ma come è venuta bene a Draghi la ragnatela attribuitagli dal Corriere

            Dichiaratamente “arrossito” di commozione o imbarazzo per gli elogi appena ricevuti a Barcellona dal premier spagnolo Pedro Sanchez, e dai promotori del premio conferitogli per la partecipazione al processo d’integrazione europea, Mario Draghi farebbe presto a consolarsi, appena mette piede fuori d’Italia, se venisse preso a Palazzo Chigi da momenti d sconforto o, peggio ancora, di preoccupazione per il livello spesso troppo basso, a dir poco, del dibattito politico in Italia. Che è sempre più caratterizzato dall’ansia di tutti i partiti di ritrovare o darsi un’identità, spesso a spese del governo alla cui maggioranza essi partecipano più per paura, forse, che per convinzione. E’ la paura delle elezioni anticipate avvertita, per esempio, durante l’ultima crisi, nonostante l’aria quasi di sfida con cui parlavano pubblicamente dello scioglimento delle Camere i difensori ad oltranza del secondo governo Conte, o i sostenitori di un suo terzo Gabinetto, alla faccia dell’odiato, indisciplinato, imprevedibile e quant’altro partito di Matteo Renzi.

Richiamo del Corriere della Sera in prima pagina

            Ma a leggere proprio oggi il Corriere della Sera, in particolare un articolo di Francesco Verderami, Draghi non ha neppure bisogno di affacciarsi all’estero per consolarsi con gli apprezzamenti che riceve in ogni appuntamento internazionale. O di leggere l’autorevole Financial Times –lui che non ha bisogno di una traduzione- per trarre incoraggiamento. O di soffermarsi sull’ultimo sondaggio dell’istituto americano Morning Consult, che lo ha collocato al secondo posto della graduatoria mondiale dei capi di Stato o di governo maggiormente apprezzati dai loro cittadini, come ha tenuto a ricordare lo stesso Verderami sul Corriere. Secondo il quale ormai Draghi, a dispetto di certe cronache, e dei soliti allarmi o auspici del Fatto Quotidiano, ancora in contemplazione del predecessore Conte, e desideroso di un suo ritorno a breve per un clamoroso fallimento del successore, sarebbe riuscito a imporre la sua “pace” anche nelle sedute del Consiglio dei Ministri più difficili. Tutti insomma, anche gli apparentemente più irriducibili e sospettosi, sarebbero finiti nella “ragnatela” di Draghi.

            Credo peraltro che il presidente del Consiglio non si sia reso neppure conto di questa ragnatela, tanto gli è venuta spontanea, naturale, prodotta dal suo modo abituale di lavoro. Il  presidente del Consiglio sente tutti, per carità, o mostra di sentirli, ma poi decide praticamente da solo, come ha appena fatto, per esempio, destinando alla guida di quella che sarà la nuova Alitalia Alfredo Altavilla, pescandolo tra i collaboratori del compianto Sergio Marchionne, o correggendo, se non smentendo, il ministro della Salute Roberto Speranza sull’ultimo pasticcio delle vaccinazioni. O mettendo “in mutande gli economisti dogmatici” col suo “pragmatismo”, come ha titolato in turchese in prima pagina Il Foglio. O infine avvalorando l’ironia vignettistica di Stefano Rolli, che cita a dimostrazione del funzionamento della vaccinazione eterologa alla quale Draghi si è appena offerto personalmente l’assunzione da lui già fatta di Grillo e Berlusconi nella maggioranza di governo.

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Il Quirinale in edizione femminile che inquieta la consorteria giustizialista

Davide Varì, il direttore del Dubbio, si chiedeva giustamente qualche giorno fa se e cosa stesse sotto o dietro l’offensiva scatenata dal Fatto Quotidiano contro la ministra della Giustizia Marta Cartabia per una misteriosa lettera speditole dall’ergastolano e stragista di mafia Giuseppe Graviano. Come se, quasi attraverso la breccia aperta dalla stessa Cartabia alla Corte Costituzionale con una sentenza di allentamento, diciamo così, del cosiddetto ergastolo ostativo, ci fosse aria, puzza e non so cos’altro di una nuova trattativa fra lo Stato e la mafia, dopo quella su cui si sta svolgendo il processo d’appello a Palermo. Dal quale peraltro la pubblica accusa teme tanto di uscire male che ha preso l’assai singolare iniziativa di contestare la sentenza definitiva di assoluzione emessa dalla Corte di Cassazione, a proposito di quella stessa trattativa, nei riguardi dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Dalle cui preoccupazioni o sollecitazioni, essendo stato minacciato di morte dalla mafia, sarebbe partito il negoziato del biennio 1992-93, finalizzato a scongiurare o contenere la stagione delle stragi mafiose.

            Una risposta alla curiosità, chiamiamola così, del direttore del Dubbio l’ho intravista in un passaggio dell’ennesimo editoriale dedicato ad un’altra donna delle istituzioni e della politica presa di mira dal Fatto Quotidiano. Che è la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, seconda carica dello Stato essendo costituzionalmente titolare della supplenza in caso di impedimento del presidente della Repubblica.

            Già non gradita di suo per la provenienza o appartenenza politica al mondo berlusconiano di Forza Italia e, più in generale, del centrodestra di qualsiasi trazione possibile o immaginabile, per non parlare della passata esperienza di consigliere superiore della magistratura, per la quale nelle cronache giudiziarie del Fatto Quotidiano si è più volte cercato di coinvolgerla nel cosiddetto e pur successivo affare Palamara; già sgradita di suo, dicevo, la presidente del Senato è ora diventata agli occhi di Travaglio le peggiore candidata al Quirinale. L’”ideale” – ha egli scritto sarcasticamente-  per “la metamorfosi” imposta al Festival dei due Mondi di Spoleto in “festival dei due Casellati grazie alla contemporanea presenza dei due rampolli”, maschio e femmina, Alvise e Ludovica, l’uno alle prese con la musica e l’altra con le attività promozionali.

            “Chi può meglio simboleggiare la festosa Restaurazione italiana?”, ha chiesto Travaglio dicendo che “non manca nulla” alla presidente Casellati: “il vitalizio extralarge che ingloba anche il periodo in cui fece danni al Consiglio Superiore della Magistratura, seguito per par condicio dalla restituzione degli assegni ai senatori pregiudicati, i voli di Stato per qualunque spostamento anche minimo (un giorno il suo parrucchiere se la vedrà atterrare sul tetto)  e la prestigiosa ascesa sociale dei due figli, di pari passo alla sua”. E così via recriminando.

            Con la Cartabia la polemica nei giorni scorsi è stata meno personale e tranchant ma ugualmente riconducibile, secondo me, alla paura di certi ambienti politici affini alla linea del Fatto di una candidatura della prestigiosa guardasigilli al Quirinale per una successione di genere, diciamo così, al presidente in scadenza della Repubblica. Di genere, perché comporterebbe l’arrivo della prima donna al vertice dello Stato. E, in quanto tale,  potrebbe essere facilitata paradossalmente dalle enormi difficoltà di trovare una soluzione tutta politica sia per la frantumazione dei partiti, e dei rapporti fra di loro, al di là e contro i confini pur larghi della maggioranza di emergenza formatasi attorno al governo Draghi, sia per le circostanze istituzionalmente eccezionali in cui sta maturando la corsa al Quirinale. Che si concluderà come sempre in una volata parlamentare, ma stavolta in un Parlamento sostanzialmente delegittimato dalla riforma tanto voluta dai grillini, e concessa loro prima dai leghisti e poi anche dal Pd.

La riduzione di più di un terzo dei seggi parlamentari sconvolgerà le nuove Camere, da rinnovare massimo l’anno dopo le elezioni presidenziali.  E ciò in un equilibrio, o squilibrio, di forze scontatamente diverso da quello già molto anomalo uscito dalle urne nel 2018. Risulterà per forza di cose offuscata o quanto meno ridotta, sotto la crosta di una Costituzione indifferente a questo problema, la rappresentatività politica del capo dello Stato destinato a succedere a Mattarella. A meno che quest’ultimo non ci sorprenda con una scelta generosa, che sarebbe quella di accettare una rielezione sostanzialmente a termine per lasciare in pratica la scelta del successore alle nuove Camere.

Se una soluzione di genere, ripeto, dovesse invece far superare l’incrocio garantendo stabilmente al Quirinale, per sette anni, una donna fra le due oggi meglio piazzate nella corsa, ci sarebbe da immaginare la preoccupazione o lo sconcerto di un certo giustizialismo penale e persino culturale.  Che avrebbe motivo di temere, per esempio, una resistenza sia della Casellati sia della Cartabia alla promulgazione di leggi o norne anomale, e a rischio serio di incostituzionalità, come quella imposta dai grillini all’epoca della loro alleanza con i leghisti sulla cosiddetta prescrizione breve. Con le due donne suonerebbe davvero al Quirinale tutt’altra musica.

Pubblicato sul Dubbio

La smania anche di Conte di togliersi la mascherina per parlare più liberamente

Non solo Matteo Salvini, che ne ha appena parlato direttamente al presidente del Consiglio dichiarandosi ottimista alla fine dell’incontro, ma anche Giuseppe Conte non vede l’ora di togliersi la mascherina pure all’aperto, ma il secondo pensando più a se stesso che agli altri. La smania che gli è stata attribuita, a torto a ragione, su Repubblica da Francesco Bei, riferendo della sua recente visita a Napoli per sostenere il candidato a sindaco ed ex ministro Gaetano Manfredi tra pizze, incontri, passeggiate e conferenze stampa, è quella di parlare finalmente “il linguaggio della verità fra qualche giorno”. Cioè quando sarà reso pubblico il voluminoso statuto del MoVimento 5 Stelle e si potrà procedere agli  ultimissimi passaggi del suo insediamento come capo. 6Evidentemente l’ex presidente del Consiglio, pur avendo detto cose abbastanza clamorose o significative, come le critiche formulate a buona parte delle iniziative del governo di Mario Draghi, troppo condizionate dalla parte del centrodestra che lo compone, dev’essersi molto trattenuto. E non vede l’ora quindi di dirci tutta la verità, appunto, sui suoi propositi, deciso a impensierire non solo il presidente del Consiglio ma anche altri.

            Al segretario del Pd Enrico Letta, per esempio, Conte ha già comunicato l’ambizione di rimontare tutte le perdite subite dai grillini per tornare a sorpassare il suo partito e diventare la forza di “assoluta maggioranza”. Ma evidentemente vuole dirgli anche dell’altro, forse a proposito del governo in carica e della svolta che gli andrebbe imposta a breve.

            Del carattere “competitivo” dell’alleanza col Pd impostosi da Conte, inseguendo Letta anche o soprattutto al centro, ha appena parlato in una intervista al Corriere della Sera l’instancabile Goffredo Bettini senza avvertire rischi o difficoltà, sicuro evidentemente che la competizione farà bene a entrambi i partiti. L’uomo è notoriamente ottimista, pur avendo preso una brutta botta nell’ultima crisi di governo, vedendo sfumare il progetto di una terza edizione di Conte, addirittura impedita da un “complotto” forse anche internazionale, o qualcosa del genere.

Titolo del Fatto

            Meno sereno, diciamo così, davanti alla smania di Conte di muoversi e parlare più liberamente sembra essere sotto le cinque stelle Beppe Grillo. La cui funzione di “garante”, pur con l’aggiunta dell’aggettivo “insostituibile” pronunciato di recente dall’ex presidente del Consiglio, non sembra a sua volta garantita dal nuovo statuto. Per capirne di più, dopo avere fatto esaminare il testo da un parente avvocato, il comico ha deciso, secondo indiscrezioni o anticipazioni condivise anche dall’insospettabile e informatissimo Fatto Quotidiano, di venire a Roma, nel solito albergo, per parlarne con Conte davanti ai suggestivi resti dei Fori Imperiali, come quando  gli affidò il compito di rifondare la sua creatura e di guidarla.

            Una cosa mi sembra ragionevolmente certa, dato il carattere dell’uomo, e a dispetto di quanto forse pensano altri per i problemi familiari e giudiziari sin troppo noti per essere qui rievocati: Grillo non ha alcuna intenzione di confermare un sottotitolo di oggi del Sole 24 Ore, il giornale della Confindustria, che riassume e traduce “le ultime limature” al testo dello statuto annunciando che “il Garante non potrà più incidere sulla linea politica”. Se Conte si è fatta qualche illusione in questa direzione, temo che dovrà rinunciarvi.

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Il curioso assalto a due donne quirinabili: la Casellati e la Cartabia

C’è chi si appassiona in questi giorni alle analisi sul G7 svoltosi in Cornovaglia, o sul vertice della Nato, o sull’incontro tra il presidente americano Joe Biden e i massimi rappresentanti dell’Unione Europea, o sulle tre ore di colloquio fra Biden e Putin a Gineva, o sulle quattro di Beppe Grillo con l’ambasciatore cinese a Roma, o sulla campagna vaccinaria di casa nostra tra polemiche e i soliti conflitti tra e con le regioni, o sulla proroga dello stato di emergenza in cantiere tra le resistenze del solito Matteo Salvini, spalleggiato all’opposizione da Giorgia Meloni, o viceversa, o sulle difficoltà del Pd nel tessere la tela con le 5 Stelle,o sul partito unico del centrodestra proposto da Silvio Berlusconi agli europarlamentari della sua Forza Italia. E chi invece, come il solito Fatto Quotidiano, è impegnato in una offensiva contro due donne molto diverse, per cariche che ricoprono, stile e quant’altro, ma accomunate da una circostanza: quella di essere, dietro le quinte dalle quali i loro avversari vogliono tirarle fuori, candidabili per un finale di genere, diciamo così, della corsa al Quirinale, stando per scadere il mandato di Sergio Mattarella.

            Un finale di genere significa l’elezione per la prima volta di una donna al vertice dello Stato. Che potrebbe essere un modo meno indolore possibile di uscirne in una edizione molto speciale, diciamo pure anomala, della successione presidenziale affidata alle votazioni di un Parlamento sostanzialmente delegittimato da una riforma che ne determinerà l’anno dopo l’insediamento del nuovo Presidente, salvo anticipi, un rinnovo specialissimo. La Camera sarà ridotta da 630 seggi a 400 e il Senato da 315 a 200. Ma la consistenza dei gruppi sarà anche politicamente diversa perché i grillini, per esempio, sono i primi ad essere convinti di non poter tornare come i più numerosi.

            Le due donne quirinabili contro le quali è concentrata l’attenzione o l’offensiva personale e politica del Fatto Quotidiano sono la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati e la ministra della Giustizia Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale.

Titolo del Fatto del 17 giugno

            Contro la Casellati il giornale di Marco Travaglio ha aperto il fuoco, diciamo così, prima contestandone i troppi voli di Stato, che non sarebbero giustificati dalla pandemia, poi cercando di coinvolgerla nell’affare Palamara per le conoscenze o gli incontri quando l’esponente forzista era consigliere superiore della magistratura, infine attribuendole una specie di confisca del Festival dei due mondi a Spoleto per farne in qualche modo protagonisti i figli Alvise e Ludovica. Tra titoli, fotomontaggi e articoli del Fatto c’è da ricavarne un album.

Titolo del Fatto Quotidiano del 14 giugno

            Alla guardasigilli Cartabia il giornale di Travaglio ha rimproverato di avere allentato le maglie del cosiddetto ergastolo ostativo quand’era alla Corte Costituzione e di essersi in qualche modo guadagnata l’attenzione, con tanto di lettera sulla quale sono state reclamate le solite indagini, di Giuseppe Graviano, stragista ed ergastolano di mafia. Ma Cartabia non piace, diciamo così, sotto le 5 stelle neppure per la riforma del processo penale in cantiere, dove dovrà essere quanto meno modificata la prescrizione voluta dal precedente ministro grillino della Giustizia, con cui potrebbe capitare a chiunque di diventare un imputato a vita, persino dopo un’assoluzione in primo grado impugnata dall’accusa. 

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Lo spirito testamentario del partito unico proposto da Berlusconi al centrodestra

Più che di una lettura politica temo che abbia bisogno di una lettura psicologica la proposta del partito unico del centrodestra formulata da Silvio Berlusconi partecipando, nelle modalità ormai imposte direttamente o indirettamente dalla pandemia, alla riunione degli europarlamentari, e quindi colleghi, della sua Forza Italia.  Con i quali quindi è andato ben oltre il progetto federativo prospettato dal leader leghista Matteo Salvini. Che è stato il primo a mostrarsi stupito, se non addirittura contrariato dall’uscita dell’alleato, avendo toccato con mano nei giorni e nelle settimane scorse le resistenze createsi, e persino esplose, tra i forzisti e gli stessi leghisti contro il suo progetto pur più modesto, e circoscritto ai due partiti del centrodestra impegnati nel governo e nella maggioranza di emergenza nazionale di Mario Draghi.

            Un partito unico del centrodestra comporta per forza di cose anche il coinvolgimento dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che se ne sta comodamente all’opposizione, persino incoraggiata da un Draghi che, diversamente da quanto faceva il predecessore Giuseppe Conte col centrodestra interamente contrario al suo governo, la riceve e, più in generale, la tratta con tutti i riguardi e l’attenzione possibili.

Foto d’archivio dei tre leader del centrodestra insieme in piazza

            Non si capisce perché mai la giovane e rampante “Giorgia”, come ormai tutti la chiamano anche nei titoli dei giornali risparmiandole il cognome, debba prestarsi -e infatti non ha alcuna intenzione di farlo- ad un’operazione che in qualche modo potrebbe ridurre la sua carica oppositiva e così anche fermare o persino invertire il processo di crescita elettorale emerso con nettezza dai sondaggi. Esso già le ha consentito, peraltro, di sorpassare nel centrodestra, sia pure di poco, la Lega intestandole  la nuova trazione dello schieramento nella prospettiva delle prossime elezioni politiche. Dopo le quali, secondo un accordo che ha già funzionato con Salvini e che di certo non avrebbe più senso in un partito unico, anziché in una coalizione o federazione, la guida del governo, o dell’opposizione, spetta a chi ha preso più voti.

            C’è chi ha attribuito a Berlusconi, fra le righe e le parole, ciò che egli non merita, avendo dimostrato un rapido apprendimento della professione politica, riconosciutogli dal compianto presidente della Repubblica Francesco Cossiga mentre molti ancora lo liquidavano come un imprenditore fortunato, e magari anche bravissimo, ma un politico dilettante, improvvisato e quant’altro. In particolare, ho visto attribuire a Berlusconi, per la sua proposta del partito unico del centrodestra, l’interesse a compattare lo schieramento di centrodestra nella scalata al Quirinale, in vista della scadenza del mandato di Sergio Mattarella.

            Anche se questo è diventato l’incubo di giornali come Il Fatto Quotidiano e Domani, che si rincorrono nella paura e nella demonizzazione dell’ex presidente del Consiglio, mi rifiuto di credere ch’egli davvero pensi alla possibilità di essere eletto al vertice dello Stato da questo Parlamento, per quanti consensi lui possa ottenere fra i delegati delle regioni a prevalente maggioranza di centrodestra, e quanti deputati e senatori abbia perso per strada, dall’inizio di questa legislatura, l’ostilissimo MoVimento 5 Stelle. Ma poi che bisogno avrebbe un pur ingenuo e ottimista Berlusconi di garantirsi l’appoggio della destra post-finiana, chiamiamola così, se la Meloni in persona ha appena assicurato o fatto capire in una delle sue frequenti prestazioni televisive di non avere alcuna preclusione, anzi di essere disposta ben volentieri a votarlo come candidato al Quirinale? Via, cerchiamo di essere seri.

La senatrice Gabriella Giammanco

            E’ ben altra, come dicevo, la lettura che forse merita il progetto berlusconiano di un partito unico del centrodestra, ben più ambizioso peraltro di quello lanciato nell’autunno del 2007 a Milano dal predellino della sua auto, in Piazza San Babila. Si trattò allora di fare confluire nel Partito della Libertà la sua Forza Italia, cespugli, schegge e quant’altro del centrismo democristiano e laico della cosiddetta prima Repubblica e l’Alleanza Nazionale-post Movimento Sociale di Gianfranco Fini, con l’esclusione quindi della Lega ancora guidata da Umberto Bossi. E’ una lettura più psicologica che politica, come dicevo, quella che merita il nuovo progetto berlusconiano se persino una senatrice forzista come Gabriella Giammanco lo ha definito “visionario”.

            Senza voler essere sbrigativo e rude come il vignettista Stefano Rolli, che sul Secolo XIX ha immaginato Berlusconi sul predellino di una carrozzella anziché di un’auto, e avendo più rispetto di un uomo che ho conosciuto e frequentato, e col quale ho anche lavorato, penso che le dimensioni nelle quali egli è portato a pensare alla sua età, e con tutti i mali e malori che ha fronteggiato, siano ben maggiori di quelle che gli vengono attribuite.

Più che un obiettivo a portata di mano, da cui ricavare chissà quale vantaggio immediato, ho avvertito nella sortita con gli europarlamentari la generosa indicazione di un lascito testamentario, quasi la protezione di un patrimonio da lui pazientemente costruito. Berlusconi non ha saputo o voluto, magari prima non ha voluto e poi non ha saputo indicare e coltivare davvero un delfino, ma non per questo è indifferente allo sviluppo e al destino di un centrodestra che è giustamente convinto di avere avuto lui il coraggio di costruire in Italia, mentre la politica veniva decapitata nelle Procure della Repubblica paradossalmente tra gli applausi anche di una parte di quello stesso centrodestra.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 19 gennaio

Berlusconi lancia il cuore, ma forse anche qualcosa d’altro, oltre l’ostacolo

            A ulteriore dimostrazione di come una vignetta possa essere più efficace di ogni pur brillante, sapiente e informato articolo o commento a rappresentare un problema o una situazione non si può non segnalare quella di Stefano Rolli oggi sul Secolo XIX. Che propone impietosamente ai lettori Silvio Berlusconi proteso sul predellino non di un’auto, come nel 2007 per lanciare l’unificazione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, ma di una sedia a rotelle, o carrozzella, per proporre questa volta l’unificazione di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. E’ una proposta, da lui formulata parlando in collegamento con i parlamentari europei del suo partito, ancora più spinta di quella formalmente avanzata di recente da Matteo Salvini, e da lui accolta con interesse tra le proteste e i dubbi di molti forzisti, a cominciare dalla ministra Mara Carfagna, timorosi di un’annessione da parte della Lega, elettoralmente troppo più solida di Forza Italia.

            Anche l’idea di un partito unico del centrodestra, per quanto lanciata personalmente da Berlusconi, e in una prospettiva presumibilmente non immediata, ha sorpreso, spiazzato e quant’altro molti in Forza Italia, ma anche fuori. Salvini ha reagito riproponendo come più realistica la federazione. Decisamente contraria si è mostrata Giorgia Meloni, che navigando col vento in poppa grazie ai sondaggi che le hanno fatto sorpassare la Lega, accreditando un centrodestra a trazione sua personale, non ha obiettivamente interesse a contenere in un altro partito la sua formazione.

La Meloni non è decisamente nelle condizioni del 2007 di Gianfranco Fini. Che a botta calda liquidò come una “comica” la prospettiva di un partito che unificasse Forza Italia e la sua Alleanza Nazionale. Ma poi vi si convertì perché, in calo progressivo di voti da solo, avvertì l’opportunità, o il vantaggio, di non contarsi, riservandosi di condurre nel nuovo partito -il Pdl- un’azione di contenimento e poi di contrasto nei riguardi di un Berlusconi nel frattempo tornato a Palazzo Chigi. E Fini fu lì lì per rovesciarlo con una mozione di sfiducia preparata nel proprio ufficio, allora, di presidente della Camera. Era il 2010.

            Berlusconi, certo, non manca mai di sorprendere. Ma questa volta forse ha davvero lanciato troppo il cuore, o qualcosa di sottinteso nella vignetta di Stefano Rolli, cioè una stampella, oltre l’ostacolo.

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