Bettini fa rima con Pasolini parlando di complotto contro Conte

Ogni tanto Goffredo Bettini mostra di avere capito di averla sparata grossa gridando al complotto contro Giuseppe Conte, non caduto -ha detto- ma fatto cadere da interessi più forti di lui, e a dispetto delle sue virtù salvifiche che i complottisti, appunto, non avrebbero voluto dargli il tempo di dimostrare pienamente. Per cui, poveretto, ora da nuovo Moro capace di scomporre e ricomporre equilibri malmessi egli è stato ridimensionato a un sostanziale vice di Beppe Grillo alle prese con la rifondazione di un movimento destinata, occhio e croce, al fallimento di tutte le altre rifondazioni politiche tentate in anni più o meno recenti, a cominciare da quella -ricordate?- del partito comunista.

            Ma ogni volta che Bettini cerca di correggersi finisce per ripetere le stesse cose in modo peggiore, più pasticciato e meno credibile. Eccovene l’ultima prova, che pure sembrava promettente per il riconoscimento, finalmente, di qualche fesseria politica effettivamente commessa da Conte almeno negli ultimi mesi del suo secondo governo: “C’erano degli interessi perché la campagna è stata sproporzionata agli errori e non mi pare che questo voglia dire che c’è stato un complotto”. Ah no? “Non esiste il complotto”, ha insistito l’oracolo spiegando però: “Renzi ha fatto cadere il governo Conte 2 ma credo che, al di là di Renzi, ci sia stato qualcosa di più grande che si è mosso”. Ma allora ci risiamo…col complotto.

            Eh, sì, ci risiamo perché sentite il proseguimento del discorso, misto di riconoscimento dei propri limiti investigativi e di imitazione della buonanima di Pier Paolo Pasolini: “Non sono uno 007, non sta alla politica portare prove. Do un’opinione e una lettura politica”.

            Sentite, anzi rileggete con me ciò che il 14 novembre 1974 Pasolini scrisse sul Corriere della Sera diretto da Piero Ottone a proposito non di colpi di Stato e stragi: “Io so ma non ho le prove, non ho nemmeno indizi. Io so perché sono intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa, o si tace, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”.

            Non fece in tempo, Pasolini, se mai ne avesse avuto i titoli, a partecipare ad un concorso per magistrati. Lo avrebbe vinto di sicuro, visti anche certi pubblici ministeri e giudici in circolazione, fra i quali -grazie a Dio- ogni tanto c’è qualcuno che mostra di ravvedersi, com’è appena accaduto -per giunta sul Fatto Quotidiano- a Henry John Voodcock  in polemica con Gian Carlo Caselli. 

            Per fortuna, all’età che ha, e col solo diploma di maturità scientifica che ha avuto il tempo e la voglia di prendere, possiamo risparmiarci l’approdo di Bettini dalla politica alla magistratura.

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Quegli equilibri politici inutilmente difesi a spese di Aldo Moro

Guido Bodrato è l’unico superstite dello Stato Maggiore democristiano che partecipò alla gestione del drammatico sequestro di Aldo Moro. Le risposte che lui ha fornito a Walter Veltroni in una lunga intervista al Corriere della Sera su quel passaggio sotto molti aspetti ancora oscuro della storia repubblicana, e non solo per le reticenze degli assassini, meritano perciò grandissima attenzione.

            E’ toccante il ricordo che Bodrato ha fatto dell’ultima, onestissima lettera scritta dall’ormai ex segretario della Dc Benigno Zaccagnini alla moglie Anna nel 1989 dall’ospedale in cui si stava avvicinando alla morte: “Tra poco incontro Aldo per abbracciarlo…Mi sono chiesto tante volta se potevo fare qualcosa di più….Qualcosa di onesto….Se Aldo fosse stato con noi avremmo trovato una strada che io non ho trovato”.

            Ma Moro, pur prigioniero dei suoi carnefici, onorevole Bodrato, non vi lasciò soli. Vi scrisse lettere che, per quanto da molti liquidate come estorte dai carcerieri, riflettevano limpidamente il suo modo di pensare, e anche di fare politica. Vi aveva chiesto, fra l’altro, di convocare gli organi collegiali del partito, a partire dal Consiglio Nazionale che, certamente, lui non avrebbe potuto presiedere, ma che poteva pur discutere in sua assenza anche delle sue lettere, senza con questo diventare uno strumento delle brigate rosse.

Rapito il 16 marzo, Moro riuscì  poi a sapere della convocazione della direzione del partito solo per il 9 maggio. E le brigate rosse non le diedero neppure il tempo di discutere perché si era ormai fatto troppo tardi per le loro esigenze e i loro contrasti interni, essendo a quel punto diventato Moro anche per loro più utile da morto che da vivo, come per alcuni suoi avversari,  esterni  e forse anche interni, volenti o nolenti, alla Dc.

So bene, onorevole Bodrato, che queste sono parole dure da leggere, oltre che da scrivere, ma Lei sa che sono anche vere. E ne trovo un riscontro anche in questo passaggio dell’intervista a Veltroni in cui si parla della “filosofia molto particolare di Andreotti”. Il quale, ritenendo che “in fondo siamo tutti peccatori, non era un personaggio votato all’intransigenza, e aveva un’idea del potere che coincideva con la sua celebre definizione: il potere logora chi non ce l’ha”. E ha ragione, onorevole Bodrato, ad aggiungere che “una delle principali ragioni che ha incrinato la credibilità della Democrazia Cristiana”, oltre all’infortunio del referendum sul divorzio nel 1974, “è stata proprio quella di affidare al potere il compito di riprodurre se stesso”. Eppure Andreotti fu in quel passaggio di una intransigenza assoluta, per quanto sicuramente dolorosa.

In parole povere, onorevole Bodrato, la vita di Moro valeva bene, secondo me, anche una crisi di governo: una crisi peraltro che si era appena composta solo formalmente, perché in realtà era rimasta irrisolta a tal punto, come Lei stesso ha giustamente ricordato, che senza il sequestro di Moro quel 16 marzo il Pci di Berlinguer sarebbe tornato a riservare al governo la vecchia astensione, e non la fiducia faticosamente concordata con lunghe trattative sul programma.

Ho ricordi diversi da quelli pur importanti, per carità, di Bodrato sulle ragioni della insoddisfazione dei comunisti. Che non mi risultava motivata dall’assenza nella lista portata alla fine da Andreotti al Quirinale, dopo un incontro alla Camilluccia con i vertici del partito, di “alcuni ministri indicati dagli indipendenti di sinistra per rendere esplicito -ha detto Bodrato- che dal governo delle astensioni si faceva un passo verso una presenza più significativa delle sinistra”: cosa sulla quale “una parte della Dc non era d’accordo”, per cui “la crisi restò aperta”.

L’ipotesi dei ministri scelti fra gli “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste del Pci era stata già rimossa dalle trattative proprio da Moro, in difformità dalla disponibilità di Zaccagnini e Andreotti a parlarne. La lista di governo sorprese, a dir poco, il Pci di Berlinguer rispingendolo verso l’astensione perché conteneva la conferma di due ministri democristiani di cui i comunisti avevano chiesto l’esclusione. Essi erano Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia, in difesa dei quali Moro alla Camilluccia disse con fermezza che la Dc non poteva fare selezionare i suoi dirigenti da un altro partito, fosse pure il Pci.

Ricordo tutto questo non per puntiglio polemico ma solo per sottolineare la profondità di quella crisi per niente risolta. E che chissà in quale direzione avrebbe portato la politica italiana, come ha riconosciuto lo stesso Bodrato, se il dissenso del Pci non fosse rientrato per l’emergenza intervenuta col sequestro di Moro. Torno a chiedermi: valeva la pena sacrificare una vita -e per giunta             quella di Moro- in difesa di un equilibrio politico già così compromesso?

D’altronde, la cosiddetta “linea della fermezza”, che funzionò almeno come pretesto perché le brigate rosse potessero completare la strage cominciata in via Fani la mattina del 16 marzo, era stata contestata prima ancora che dal Psi di Bettino Craxi, all’interno della maggioranza, dal presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il quale convocò apposta al Quirinale il segretario della Dc Zaccagnini per comunicargli personalmente il suo dissenso, come poi mi avrebbe raccontato anche nei dettagli in una intervista pubblicata sul Foglio nel ventesimo anniversario del sequestro di Moro. E pagò- poveretto- con dimissioni praticamente impostegli, dopo la conclusione della tragedia, quell’iniziativa tradottasi poi in una grazia predisposta motu proprio per  Paola Besuschio, presente nella lista dei 13 “prigionieri” con cui i terroristi volevano scambiare l’ostaggio.

Non fece in tempo, Leone, a firmare quella grazia perché preceduto la mattina del 9 maggio dai brigatisti rossi, chissà come e da chi informati con tanta tempestività di quanto stesse accadendo a rischio della loro disumana unità interna.

I soliti indignati speciali, sotto le stelle, per i vitalizi di Formigoni e Del Turco

Divisi ormai su tutto, anche sul modo di continuare a vivere da separati in casa, per cui è ripreso il conto alla rovescia verso la scissione, mentre Giuseppe Conte studia e ristudia anche da avvocato le carte della rifondazione del movimento consegnatogli personalmente da Beppe Grillo, i pentastellati ritrovano la loro unità solo contro i vitalizi degli altri.

            Ora si sono mobilitati di nuovo gridando vergogna e quant’altro contro la decisione appena presa non da qualche passante ma all’unanimità da un organismo della giustizia interna del Senato, chiamato Commissione Contenziosa, per restituire il vitalizio all’ex presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, cui era stato evidentemente sospeso in modo arbitrario.

            Ma ancor più che contro i settemila euro mensili restituiti a Formigoni con gli arretrati, i grillini di ogni tendenza, anima e quant’altro si sono levati contro i cinquemila euro che a questo punto ha riacquistato il diritto di ricevere anche Ottaviano Del Turco, pure lui ex senatore ed ex presidente di regione. Ma che, rispetto a Formigoni, ha l’aggravante politica di essersi sempre sentito e dichiarato socialista, almeno sino a quando un bel po’ di malattie, fra cui l’Althzeimer, non ne hanno compromesso l’attendibilità. E socialista, si sa, per un certo tipo di politici e di pubblico significa ladro, corrotto e simili.

            Uniti nel solito fotomontaggio di prima pagina come ricercati sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano, con didascalie laterali, diciamo così, tradotte in soldoni dal casellario giudiziario, i due pensionati praticamente più pericolosi d’Italia sono stati liquidati anche come “il lombardo” e “l’abruzzese” di origini evidentemente controllate e forse anche biasimevoli.

            L’argomento giuridico opposto alle proteste dal presidente della Commissione senatoriale, disgraziatamente forzista, meritevole quindi anche lui di biasimo pregiudiziale, è stato ignorato dai grillini per la loro ormai provata incompatibilità, ignoranza e quant’altro in materia di norme di legge, comprese quelle ch’essi stessi hanno approvato, voluto e quant’altro. E’ il caso della norma che nella legge istitutiva del cosiddetto reddito di cittadinanza -quello che doveva abolire la povertà in Italia, secondo l’annuncio di Luigi Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi affacciato su Piazza Colonna- consente di intervenire sul trattamento pensionistico solo dei condannati in via definitiva per reati di terrorismo e di mafia, di cui Formigoni e Del Turco non sono stati ancora neppure accusati. Ed anche per gli altri condannati, come appunto i due “ricercati” dal Fatto Quotidiano, non si può intervenire se non sono latitanti o evasi: condizioni in cui non si trovano né l’uno né l’altro dei mostri di giornata.

            Qui la “vergogna”, per ripetere il grido di sdegno della vice presidente grillina del Senato Paola Taverna, è solo di chi non conosce la legge o non vuole applicarla: una vergogna pari solo a quella dell’ex accusatore di Del Turco, imprenditore privato della sanità abruzzese, appena condannato in via definitiva  per truffa alla regione, e confiscato di beni per più di trenta milioni di euro.  

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Il MoVimento 5 Stelle si fa in due con Conte e Casaleggio…per piacere di più

Vedo che le vicende pentastellari, o pentastellate, stanno facendo perdere la pazienza anche a Marco Travaglio, che -senza offese- può ben considerarsi un esperto della materia. Deve avere avvertito anche lui odore, o puzza, di scissione ad opera di Davide Casaleggio ed amici, che rivendicano la purezza delle origini del movimento e la vogliono tutelare dalle trasformazioni già subite, destinate ad aumentare con la “rifondazione” e simili affidate da Beppe Grillo in persona a Giuseppe Conte.

            Inconsapevole imitatore di Pier Luigi Bersani, che usava familiarmente chiamare così il suo Pci e successive edizioni, anche Casaleggio tratta il MoVimento fondato dal padre e da Grillo come una “bottega”, gli ha rimproverato Travaglio: anzi un botteghino, o “partitucolo”, se finirà per metterne su uno tutto suo.

Non si capacita, il direttore del Fatto Quotidiano, della pretesa, in effetti curiosa, di un “fornitore” di servizi com’è Casaleggio, con la sua piattaforma digitale intestata addirittura a Rousseau, di “dettare ai suoi clienti le strategie aziendali e decidere pure come devono vestirsi e chi devono sposarsi”.

            Siamo insomma sulla buona strada per dovere seguire non uno ma due movimenti 5 Stelle, che non so ancora come si distingueranno l’uno dall’altro nel nome, nel simbolo e chissà in cos’altro, al pari delle due Germanie volute dai vincitori della seconda guerra mondiale. Alle quali la buonanima di Giulio Andreotti si era così tanto abituato che, addirittura da presidente del Consiglio ancora in carica commentò il processo di unificazione, appena avviato sul piano diplomatico dal suo pur amico Helmut Kohl, dicendo che la Gerrmania gli piaceva così tanto da preferirne due.

            Qualcuno finirà per dire così anche delle 5 Stelle. I cui problemi stanno mettendo a dura prova anche un avvocato come Conte, che pure deve ai grillini l’esperienza di Palazzo Chigi, così bruscamente e misteriosamente interrotta secondo i suoi più convinti estimatori. Fra i quali il posto d’onore spetta, fuori casa,  a Goffredo Bettini, del Pd.

Pubblicato sul Dubbio

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I cedimenti di Draghi, ma solo di carta, alle date reclamate dalla piazza

            Uno legge il titolo di apertura di un giornale mica da poco, un giornalino o giornaletto di provincia, ma della Stampa, che Giuseppe Conte ha appena scoperto  come la nave ammiraglia -altro che Repubblica– della flotta di carta degli eredi di Gianni Agnelli schierata con “troppo zelo” a favore di Mario Draghi, e non crede ai propri occhi stropicciandoseli.  Vengono attribuite al presidente del Consiglio queste testuali parole, con tanto di virgolette che non dovrebbero lasciare dubbi e potrebbero suonare come la vittoria dei dimostranti tornati ieri in piazza a reclamare la riapertura un po’ di tutto’per non essere sequestrati a vita dalla pandemia: “Due settimane per riaprire”.

            Avevamo appena opposto la serietà di Draghi alle richieste affannose, compresa quella di Walter Veltroni sul Corriere della Sera, di date certe per allinearsi alle società e ai governi “anglosassoni”, immuni dalle tentazioni autoritarie proprio per questa precisione con l’orologio o il calendario al polso, e scopriamo che anche lui ha ceduto. E’ sembrato come il compianto Fernando Santi soleva dire del suo compagno di partito, e compianto pure lui, Francesco De Martino negli anni in cui trattava con la Dc la formazione di governi di centro sinistra: “Resiste fino a un momento prima di cedere”. Viene quasi la voglia, a guardare la prima foto di Draghi a portata di mano o di computer, di togliergli via e buttare il più lontano possibile quegli occhiali che contribuiscono a farlo apparire severo.

            Calma, però. Lasciategli pure gli occhiali al loro posto perché il presidente del Consiglio non ha smesso di fare e soprattutto di essere la persona seria. Gli hanno solo attribuito quello che non ha detto. Egli si è preso sì “due settimane”, o -se preferite- 14 giorni, dei quali uno diamolo pure per trascorso, ma solo per valutare i dati dei tecnici, o scienziati, nel frattempo elaborati sull’andamento dei contagi anche alla luce degli effetti della riapertura delle scuole, e decidere quindi se, come e quando riaprire anche il resto. Non siamo insomma alle date come coriandoli, sia pure anglosassoni e perciò apprezzati da Veltroni come antidoto, addirittura, alle tentazioni dittatoriali di casa altrove.

            Non rinunciamo quindi alla speranza di vedere Draghi misurarsi con la realtà della pandemia e delle emergenze collegate più seriamente del suo predecessore. Che aveva un rapporto con i fatti un po’ troppo elastico, diciamo così, come dimostrò resistendo all’apertura formale della crisi anche dopo le dimissioni di due ministre e di un sottosegretario dal suo secondo governo, e le motivazioni datene in conferenza stampa dal leader del loro partito: il non gradito -da Conte- ma pur vivo Matteo Renzi. I cui voti al Senato l’allora resistente presidente del Consiglio non riuscì a sostituire del tutto con “volenterosi”, “responsabili” e quant’altri, seppure aiutato a distanza dal sindaco di Benevento Clemente Mastella e, più da vicino, nello stesso Senato, dalla moglie Sandra Lonardo.

            Di Speranza, al maiuscolo, sembra essere a rischio politicamente in questi giorni solo l’omonimo ministro della Sanità, almeno secondo le anticipazioni del Messaggero, salvo che non si rivelino un po’ troppo azzardate come quelle della Stampa su Draghi, perché in questo caso alle varie emergenze in corso bisognerebbe aggiungere anche quella dell’informazione.

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Quel colpo di Stato più temuto che tentato nell’estate del 1964

Ogni tanto può capitare che una polemica politica e storica venga condotta civilmente, senza lasciare vittime sul campo, e non solo perché i protagonisti della contesa, cioè della crisi politica dell’estate 1964, sono tutti morti. E non vi è magistrato, per quanto disinvolto lo si possa immaginare, capace di imbastirci sopra -per il presunto colpo di Stato che sarebbe stato tentato o solo adombrato allo scopo di indirizzare quella crisi verso una certa direzione- un processo simile a quello interminabile ancora in corso sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia. Che un effetto politico assai negativo, in attesa di conoscere quello prettamente giudiziario, lo ha già raggiunto: schizzi di fango un po’ dappertutto, persino sull’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che fu sentito al Quirinale come teste ma scambiato da qualche inquirente, vero o di carta, per un possibile complice di dirottamento d’indagini e quant’altro, con tanto di intercettazioni per la cui distruzione dovette essere praticamente scomodata anche la Corte Costituzionale.

            Mario Segni, Mariotto per gli amici, intervistato per il Corriere della Sera da Aldo Cazzullo sul libro appena scritto per Rubbettino in difesa del padre, Antonio, capo dello Stato all’epoca dei fatti, ha classificato come la più falsa notizia della storia repubblicana – “la madre di tutte le fake news”- il colpo di Stato al quale pure ha dedicato il titolo del volume, tanto  quell’evento è entrato e si è consolidato nella immaginazione collettiva.

            Egli ha giustamente sottolineato l’incongruenza fra la convinzione attribuita all’allora ministro degli Esteri Giuseppe Saragat -e forse anche condivisa dal presidente del Consiglio Aldo Moro in un’animata discussione conclusasi con la trombosi del presidente della Repubblica-  che al Quirinale si fosse quanto meno pasticciato fra Segni e l’allora comandante generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo in direzione di una svolta politica a destra e la decisione presa meno di due anni dopo, e condivisa dallo stesso Saragat nel frattempo succeduto a Segni, di promuovere De Lorenzo a capo di Stato Maggiore dell’Esercito.

Quella carica, è vero, gli fu tolta dopo neppure un anno ma non certo per il presunto colpo di Stato del 1964, scoppiato nel 1967 solo sulle pagine dell’Espresso diretto da Eugenio Scalfari, ma per altre controversie risalenti agli anni in cui De Lorenzo era stato comandante del Sifar, come allora si chiamavano i servizi segreti. Controversie, peraltro, ritenute in fondo da Moro non dico così naturali ma quasi per servizi di quel tipo da offrire, peraltro inutilmente, al generale una onorevole via d’uscita come ambasciatore non ricordo più in quale paese, comunque importante, del Sud America.  De Lorenzo preferì piuttosto darsi alla politica accettando una candidatura da indipendente offertagli per la Camera dal Movimento Sociale.

Lo storico ed ex senatore del Pd Miguel Gotor in un articolo su Repubblica ha mostrato di credere a Mario Segni -di cui penso abbia condiviso le celebri battaglie referendarie contro le preferenze e il sistema elettorale proporzionale-  più come figlio del compianto presidente della Repubblica  che come ricercatore. E ha dato una lettura più interventista, diciamo così, del piano predisposto da De Lorenzo contro eventuali disordini di piazza e peggio ancora e dell’attenzione che gli riservava Antonio Segni, spintosi a riceverlo al Quirinale durante la crisi del primo governo di centro sinistra di Aldo Moro. Che comunque, sempre secondo Gotor, avrebbe subìto uno spostamento a destra nelle edizioni successive, come avrebbe voluto Segni, pur nel frattempo uscito di scena col malore che ne aveva impedito la permanenza al Quirinale. In particolare, il centro sinistra avrebbe subìto “nei mesi e anni successivi un processo di progressiva normalizzazione”, sino a diventare “un centrismo aggiornato”.

In verità, da semplice cronista di quelle vicende non troppo lontane da essere dimenticate, vorrei ricordare a Gotor che proprio le correnti democristiane considerate sensibili alle spinte conservatrici di Segni avrebbero poi prodotto, pur di scalzare Moro da Palazzo Chigi, edizioni del centro sinistra “più coraggioso e incisivo”. L’effetto fu di destabilizzare l’alleanza fra la Dc e il Psi sino all’interruzione e alla sopraggiunta “strategia della tensione” per cercare di spostare veramente a destra gli equilibri politici.

Ma la cosa che più mi rincresce dell’intervento di Gotor, forse sorpreso pure lui da tanto zelo,  è l’immagine con la quale Repubblica ha voluto, diciamo così, accompagnarlo se non addirittura documentarlo: una foto d’archivio di una parata militare nella quale Antonio Segni, ancora felicemente e signorilmente in carica, col suo stile inconfondibile, saluta con molta cordialità e simpatia il generale De Lorenzo: una foto, direi, galeotta messa a quel posto.

Pubblicato sul Dubbio

Le fiches di Eugenio Scalfari al Casinò della democrazia italiana

            Premessa, anzi ribadita, l’ammirazione che si deve a Eugenio Scalfari -al netto di ogni possibile dissenso, e nonostante la pesante ironia riservatagli oggi da Marco Travaglio- per l’impegno col quale continua a seguire a 97 anni appena compiuti quella cosa complicatissima che è la politica italiana, mi sono interrogato sull’ottimismo espresso ieri su Repubblica, pur tra qualche preoccupazione, sulle sorti della nostra democrazia. Che Ilvo Diamanti ritiene invece “sospesa”, o “dei presidenti”. Non mi bastano, francamente, i “nomi”, pochissimi, che secondo Scalfari la “rinforzano” in questi tempi difficili. Sono quelli di Sergio Mattarella, di Mario Draghi, di Giuseppe Conte e del Pd: quasi tre fiches al banco del casinò politico d’Italia.

            Pur col rispetto che merita pure lui, per carità, e sempre al netto del dissenso  da qualche sua scelta, il buon Mattarella è all’ultimo anno del mandato quirinalizio. Del quale al massimo si può sperare che il Parlamento gli offra, e lui accetti, una sostanziale breve proroga, al pari di ciò che accadde nel 2013 con Giorgio Napolitano, come ha giustamente ricordato Scalfari, quando il Parlamento di allora si bloccò rovinosamente nella ricerca di un successore. Non è detto, in effetti, che non si ripetano inconvenienti anche in queste Camere, che rispetto alle precedenti hanno l’handicap ulteriore di una sostanziale delegittimazione derivante da una riforma costituzionale che le vedrà rinnovate dopo un anno con 345 seggi in meno: non proprio bruscolini, direi. E con quali effetti sulla reale rappresentatività parlamentare, con tutte le evoluzioni in corso sul piano politico e su quello normativo, se mai si riuscirà ad aggiornare per l’ennesima volta la legge elettorale, nessuno francamente è in grado di prevedere.

            Maro Draghi ha la forza, certo, ma anche la debolezza di essere una riserva personale della Repubblica: personale, perché dietro di lui non c’è un partito. E la maggioranza che lo sostiene in Parlamento è paradossalmente tanto larga quanto labile perché c’è sempre chi lo strattona da una parte e dall’altra, spero non sino al punto di spazientirlo, prima o poi, e di fargli mandare tutti a quel paese, a cominciare da quelli che reclamano da lui “date” come coriandoli ai quali appendere speranze e calcoli di ogni tipo.

            Si, è vero, Scalfari ha scritto che dietro Draghi si può intravvedere il Pd per “concordanza di vedute e di azioni politiche”, di cui lo stesso Scalfari sente tuttavia  di “non capire fino a che punto” si possa rendere conto il presidente del Consiglio, tanto debole evidentemente appare in fondo anche a lui questa convergenza “sostanziale”. D’altronde, del Pd Scalfari è costretto a riconoscere che “soffre di alcune divisioni interne”. Che temo non siano destinate a ridursi con la corrente in arrivo di Goffredo Bettini, messosi a disposizione del nuovo segretario Enrico Letta -ha detto al Corriere della Sera- “nei modi più opportuni”. Tali però non mi sembrano quelli suggeritigli rimpiangendo Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e dicendo che “non è caduto, ma è stato fatto cadere” per ragioni e con metodi su cui “indagare”.

            Proprio per come la mette Bettini, e per la sopravvalutazione fattane da Zingaretti prima di dimettersi, o dimettendosi di conseguenza, non mi sembra francamente che Conte sia in grado di “rafforzare la democrazia” neppure nella veste assegnatagli da Beppe Grillo di rifondatore e capo del caotico movimento delle 5 Stelle, sempre più vicino ormai al collasso da scissione, o viceversa.

Se potesse bastare davvero non chiamarli più governatori….

            Magari fosse vero quello che sostiene sul Corriere della Sera Aldo Grasso nel “padiglione” domenicale, sia pure col paradosso sottinteso nel suo modo ironico di presentare una realtà complessa come quella dei rapporti fra lo Stato e le regioni, messi così a dura prova nella gestione della pandemia. Tanto duramente che pochi giorni fa, e proprio sul Corriere, il vignettista Emilio Giannelli ha attribuito al generale degli alpini Francesco Figliuolo, ma anche al presidente del Consiglio Mario Draghi, la voglia di mettere finalmente in riga i  presidenti regionali e farli sfilare al passo dell’oca, magari davanti a Palazzo Chigi.

            Per rimettere in riga, in ordine e altro ancora i presidenti delle regioni basterebbe, o si dovrebbe almeno cominciare col chiamarli, secondo Aldo Grasso, con la loro vera e unica qualifica, che è appunto quella di presidenti, non di “governatori”. Come ci siamo abituati invece a definirli facendo loro perdere la testa e mettendoli così quasi in naturale, psicologica competizione col presidente del Consiglio di turno, il generale anche lui di turno messo magari avventatamente, secondo alcuni, alla testa di una struttura commissariale, il presidente della Repubblica e chissà chi altro.

            Noi giornalisti dovremmo naturalmente assumerci, nel ragionamento da padiglione del severo collega del Corriere, le nostre responsabilità per l’uso ormai corrente che facciamo di quella qualifica impropria, anzi arbitraria, senza neppure avere il pretesto delle “battute” per giustificare quel “governatore” preferito al “presidente” persino o soprattutto nei titoli. Quanto a battute, infatti, che più sono e più complicano la confezione di un titolo, il governatore è persino più lungo del presidente, sia pure di uno spazio soltanto, tecnicamente parlando.

            In verità, non per sembrarvi lombrosiano, più guardo le foto del presidente della Lombardia, Attilio Fontana, cui si fa un processo più o meno mediatico e politico ogni giorno,  per quanto la sua regione sia la più ricca di tutte e disponga quindi di più mezzi, più il personaggio mi sembra un sequestrato dall’emergenza, piuttosto che un esaltato e un potenziale prevaricatore nel rapporto con lo Stato. Non parliamo poi di quando guardo le immagini fotografiche e televisive del presidente di regione, diciamo così, più imprevedibile ed energico come si sforza di apparire nella sua Campania e altrove Vincenzo De Luca, però facendo spesso più ridere che paura, in concorrenza con le imitazioni praticate dal comico Maurizio Crozza.

            Il problema purtroppo è un po’ più serio, maledettamente serio, di quanto il buon Grasso per consolarsi, e consolarci, mostri di credere. Il problema è nella confusione creata in materia di competenze regionali dalle modifiche apportate nel 2001 alla Costituzione. Alla quale un esperto, uno studioso, un giurista come Sabino Cassese ha appena applicato questi aggettivi: “promessa…e poi dimenticata, elusa, a volte tradita”  nella presunzione di migliorarla, e purtroppo senza neppure “rafforzare lo Stato”, come ha invece scritto Cassese, e tanto meno “la società”, come questa volta egli ha giustamente osservato da giudice emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Funzione Pubblica, con tutte le maiuscole che le spettano ma non sempre essa merita, né a livello locale né purtroppo a livello centrale.

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Il passo dietro anche ai 100 anni riservato agli ammiratori da Filippo d’Edimburgo

Credo proprio che la più bella foto in morte di Filippo d’Edimburgo sia quella comparsa su Repubblica, anche a costo di farla scambiare, per la collocazione assegnatale infelicemente in fondo, a destra, della prima pagina, per una pubblicità del cappello levato dal consorte della regina d’Inghilterra come saluto da tutti e da tutto. Se n’è andato un principe che ciascuno si è divertito a chiamare a suo modo: l’ultimo principe, il principe pirandelliano, il principe delle gaffe, il principe del passo dietro…la regale consorte. Con la cui “profonda tristezza” annunciata  alla scomparsa del consorte dopo 73 anni di matrimonio qualche giornale ha voluto scherzare senza far ridere -mi auguro- nessuno. Penso alla “cattiveria” di giornata del Fatto Quotidiano, che le ha augurato di “rifarsi una vita”, o al Tempo, che le ha fatto chiedere in romanesco ai nipoti più celebri del momento se le possono ora “presentare un amico single”. Lo spirito è una cosa che uno o ce l’ha davvero o è una disgrazia, quando lo si spreca nel momento e con la persona sbagliata.

            Quel “passo dietro” tradotto felicemente da Natalia Aspesi, su Repubblica, nell’elogio della sua “secondarietà insuperabile”, Filippo d’Edimburgo l’ha saputo tenere davvero sino all’ultimo, morendo -per esempio- sulla soglia dei cent’anni, che avrebbe compiuto fra due mesi. Egli ha voluto risparmiarsi e risparmiare una festa che pure meritava, essendo il traguardo del secolo un’occasione appunto di festa e di celebrazione da vivo.

E’ stato discreto sino in fondo quest’uomo davvero eccezionale. “Averne con quello stile”, hanno giustamente scritto sul Fatto prima di scivolare, in fondo alla prima pagina, sulla consorte regale. Il cui passo adesso sarà solitario e più lento.

Quella data magica che Mario Draghi onestamente non ha…

Capisco che le guerre di carta, come tutte le guerre commerciali, debbano contemplare posizionamenti e riposizionamenti, secondo le circostanze, fortunate o sfortunate che siano. Ma proprio perché sono di carta, e la carta resta, con le cose ben scritte -si spera- e stampate, occorrerebbe stare attenti a non contraddirsi troppo fra le varie posizioni che si assumono, e all’interno persino di ciascuna di esse.

            Al netto della soddisfazione che avrà procurato a Giuseppe Conte  -insofferente del “troppo zelo” col quale i giornali del gruppo guidato dal giovane erede e nipote dell’avvocato Gianni Agnelli seguirebbero benevolmente l’azione, la linea e quant’altro del suo successore a Palazzo Chigi- la prima pagina del concorrente Corriere della Sera di ieri lascia un po’ la bocca amara, fra una vignetta simil-militare di Emilio Giannelli e un editoriale di Walter Veltroni sulla “via d’uscita” ancora mancante alla pandemia e alle sue implicazioni, o complicazioni.

            Cominciamo dalla vignetta, nella quale ho avvertito -magari a torto, per carità- una certa eco della bizzarra convinzione recentemente espressa dalla scrittrice Michela Murgia che un generale debba evitare di andare in giro in divisa, fuori dalla caserma, da una nave e quant’altro, per evitare di sembrare e persino diventare un aspirante dittatore, o qualcosa del genere.

In particolare, accanto ad un compiacente presidente del Consiglio in abito rigorosamente civile perché non ha divise in armadio da potere indossare, sfilano nell’immaginazione del vignettista  davanti al generale e commissario straordinario della lotta alla pandemia Francesco Figliuolo, con tanto di passo dell’oca, i presidenti delle regioni che ci siamo ormai abituati a chiamare impropriamente governatori. Ma si sono in realtà rivelati un po’ indisciplinati e pasticcioni nell’esercizio delle competenze sanitarie improvvidamente affidate loro dalla Costituzione. E ciò soprattutto nell’unica parte di essa -il famoso titolo quinto- che si sia riusciti a riformare negli ultimi vent’anni, evidentemente peggiorandola.

            Passiamo ora all’articolo, sempre di piacevole lettura, per carità, del mio amico Walter Veltroni. Che, pur con tutte le cautele alle quali è abituato, con quella specie  di “manchismo” ironicamente attribuitogli quando da segretario del Pd apriva sempre a qualcosa “ma anche” a qualche altra, ha praticamente consigliato a Draghi di decidersi a fare come di solito si farebbe nelle società anglosassoni anche per questo immunizzatesi da rischi, tentazioni e quant’altro di dittature. E come, modestamente, fece anche lui, Veltroni,  ricorrendo a date certe sia come ministro dei Beni Culturali per riaprire  la Galleria Borghese e sia come sindaco di Roma per completare l’Autiditorium e la Galleria Giovanni XXIII, che collega il Foro Italico alla via Trionfale e alla Pineta Sacchetti, coprendo l’area dell’affollatissimo Policlinico Gemelli.  

            Ci vogliono insomma anche per i danneggiati dalla pandemia, che ormai invadono le piazze e possono perdere la testa, e magari farla perdere  pure alle forze dell’ordine che cercano di trattenerli, delle scadenze precise per l’uscita dai blocchi: scadenze certe che possano creare intanto fiducia, speranza. Il gioco al lotto, o simili, si sa, è sempre una tentazione fortissima, specie per chi se la passa male.

            Una data certa che Vetroni ha apprezzato e indicato come esempio è quella vicinissima del 12 aprile scelta o assegnatasi dal premier inglese Boris Johnson per riaprire bar e ristoranti oltre Manica. Un’altra data certa è quella del 4 luglio indicata o scelta dal presidente americano Joe Biden, con spirito anche patriottico coincidendo con la giornata dell’Indipendenza, per restituire gli Stati Uniti alla normalità, o a qualcosa che almeno le assomigli.

            Ad un certo punto, per salvare capra e cavoli, in una variante del “manchismo”, Veltroni ha riconosciuto a Draghi di avere assunto nella conferenza stampa appena conclusa “un impegno responsabile”, ma dopo avergliene contestata la indeterminatezza rivendicando il diritto di noi tutti, sofferenti e impazienti, di “sapere la verità, quale che che sia; una data quale che sia, in cui la vita ricomincerà; un giorno, quale che sia, al quale guardare e per il quale finalizzare sforzi e sacrifici”. E ancora, insistendo sul doppio binario del fatto e non fatto, o del detto e non detto, sempre a proposito di Draghi, “programmare -ha scritto Veltroni- è necessario in una famiglia, in un’impresa, in un Paese. Se accade in Usa o nel Regno Unito perché noi non potremmo farlo?”, in divisa o senza divisa, a passo normale o dell’oca, in piedi o seduti,  si e ci ha risparmiato Walter  di aggiungere nel suo editoriale, scritto in questa nuova vita che si è data  dopo quella “precedente” di politico, come lui stesso ha scritto dopo averne ricordato i passaggi felici -ripeto- della Galleria Borghese, dell’Auditorium e della Galleria Giovanni XXIII, tutti rigorosamente a Roma.

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