Già a statuto speciale di suo dal lontano 1948, la regione siciliana sul piano giudiziario è diventata a statuto specialissimo. Solo lì poteva francamente accadere che un galantuomo, evidentemente colpevole solo di essere stato un politico, più volte ministro, dalla Marina Mercantile all’Agricoltura, dai Trasporti al Mezzogiorno, potesse trascorrere una trentina dei suoi 81 anni compiuti il 20 agosto scorso difendendosi dall’amministrazione giudiziaria. Che alla fine lo ha assolto da tutte le accuse via via formulate contro di lui dagli uffici dell’accusa, che consentitemi di scrivere con la minuscola: dal concorso esterno in associazione mafiosa a violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato, in riferimento alle cosiddette trattative con la mafia nella stagione delle stragi. Ma lo ha assolto, senza risparmiargli il carcere “preventivo”, prendendosi quasi un terzo della sua vita. Scrivo naturalmente del democristianissimo, mai pentito, direi orgogliosamente irriducibile, Calogero Mannino.
Le ripetute assoluzioni di Mannino- l’ultima delle quali appena sfornata dalla Cassazione per la vicenda della trattativa, su cui altri imputati condannati in primo grado, tra mafiosi incalliti, generali e uomini politici, sono ancora sotto giudizio in appello, avendo scelto il rito ordinario, e non quello abbreviato saggiamente consigliato all’ex ministro dal suo primo difensore, il compianto giurista Carlo Federico Grosso- non sono francamente fiori all’occhiello della quanto meno ostinata -sarà pur consentito dirlo- Procura della Repubblica di Palermo.
Quella o quelle di Mannino sono vicende giudiziarie tutte svoltesi nella regolarità formale, che potrebbe persino essere vantata come dimostrazione di un sistema perfettamente garantista, in cui alla fine vince il famoso tempo galantuomo. Ma se questo tempo è lungo quanto quello che ha dovuto aspettare Mannino, capite bene che le cose non stanno per niente come possono apparire agli ottimisti, o ingenui. Qui c’è qualcosa -scusatemi- che grida vendetta. E sarebbe ora che qualcuno si decidesse a cambiare o far cambiare registro nella gestione della Giustizia, per farle meritare davvero la maiuscola che per abitudine siamo ancora soliti conferirle. Ma le responsabilità non sono solo dei magistrati. Sono anche nostre, dei giornalisti, che riusciamo spesso a precederli e fare anche di peggio.
Ricordo modestamente con orgoglio la mattina di quel lontano 1992 in cui da direttore del Giorno abbandonai per protesta la trasmissione in diretta di Mezzogiorno italiano, di una rete allora Fininvest, in cui il conduttore
Gianfranco Funari, vantandosi poi di solidarietà che avrebbe ricevuto personalmente dall’editore nella vicenda, aveva cercato di imbastire un processo proprio contro Mannino per concorso esterno in associazione mafiosa, facendosi forte di una cronaca pseudo-giudiziaria dell’Unità. Lo mandai furiosamente a quel posto prendendomi del “picciotto” da un altro collega ospite.
Vorrà pur dire qualcosa se, a parte le prime pagine di qualche giornale, chiamiamolo così, di nicchia garantista, oggi per trovare la notizia dell’assoluzione definitiva di Mannino bisogna spingersi a pagina 24 del Corriere, 13 del Messaggero, 9 della edizione palermitana di Repubblica, 10 del Tempo e Avvenire. Ditemi voi se questo è giornalismo.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
ripetuti segnali mai smentiti, figuriamoci se adesso il presidente del Consiglio non smentirà “il caso” attribuitogli sulla Stampa e sul Secolo XIX da Carlo Bertini. Che ha riferito di uno “sfogo” sfuggito a Conte, appunto, parlando per mezz’ora con un ministro del Pd dopo il discorso nel quale al Senato Matteo Renzi gli aveva contestato il piano attribuitogli sull’uso dei fondi europei della ripresa e prenotato il passaggio all’opposizione, e quindi la crisi, nel caso in cui non lo avesse radicalmente cambiato.
peraltro consapevole, come spiega il vecchio Sergio Staino in una vignetta sul Riformista, che “ci deve essere qualcuno che suggerisce a Renzi cosa pensa la base del Pd”. Di cui del resto il senatore toscano, ora socio della maggioranza come leader di Italia Viva, è stato segretario anche durante l’esperienza di presidente del Consiglio.
di una tensione accumulata. Uno sfogo, appunto. Perché Conte, per pudore verso il ruolo del presidente della Repubblica e, per rispetto istituzionale, non lo chiederebbe mai e mai lo ripeterebbe in pubblico”.
sottrarsi al dovere di tentare una soluzione diversa prima di ricorrervi. Glielo ha già chiesto senza mezzi termini proprio Renzi. Che in una intervista al Messaggero ha appena ripetuto come più chiaramente non poteva: “Se scoppia la crisi, si cerchi una maggioranza” diversa dal’attuale, non per andare alle elezioni subito ma per evitarle.
presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, a Sergio Mattarella non potrebbe bastare l’opinione appena affidata al Corriere della Sera dall’ormai intervistatissimo, influentissimo, misteriosissimo e quant’altro Goffredo Bettini. Secondo il quale “si va alle elezioni se il governo implode”.
momento, fra le ceneri o le rovine dei grillini, un partito personale. Non gli andrebbe meglio che nelle elezioni del 2013 a Mario Monti, sopravvissuto politicamente come senatore non per i voti raccolti ma per il laticlavio concessogli precedentemente e generosamente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
anche oggi privilegiando ancora una volta Emilio Giannelli. Che sul Corriere della Sera ha preso alla lettera la cronaca di Fabrizio Roncone dal Senato su quel Matteo Renzi che “si prende tutta la scena” prenotando, o quasi, la prossima crisi, dopo che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è riuscito bene o male, col solito aiuto di Sergio Mattarella dietro le quinte, ad evitare quella che i dissidenti grillini avevano minacciato di fargli esplodere tra i piedi sul sempre controverso tema del Mes. Su cui è inutile che stia a dirvi di più per non confondervi le idee, bastando e avanzando la confusione di chi se ne occupa nel governo.
d’umore ripreso al suo posto nell’aula di Palazzo Madama e molto piaciuta al polemicissimo Domani di Carlo De Benedetti, che ne ha fatto una mezza copertina, ha
scritto che “il duello” in corso è “dall’esito imprevedibile” perché “Renzi può iniziare una campagna tattica senza essere certo dello sbocco strategico” e “ la furbizia di Conte non va sottovalutata”. Ciò anche se Bettino Craxi era convinto che tutte le volpi fossero destinate a finire, prima o poi, in pellicceria.
da un’altra vignetta che vi propongo, anch’essa non certo per la prima volta. E’ quella di Sefano Rolli sul Secolo XIX, in cui il presidente del Consiglio ha una stampella che non lo sostiene ma lo scuote a voltaggio imprevedibile. E’ la stampella naturalmente di Renzi, sotto il cui balcone tuttavia Giannelli sul Corriere ha ottimisticamente immaginato solo un povero cane
l’accusa avesse trovato una traccia concreta e incontrovertibile di utilità ricavata indebitamente nell’esercizio delle sue funzioni di presidente della giunta regionale d’Abruzzo, sono valsi la perdita del cosiddetto vitalizio parlamentare a Ottaviano Del Turco. Che a 76 anni di età compiuti il 7 novembre scorso è chiuso in casa a consumare quel che della vita gli hanno lasciato un tumore, un Parkinson e l’Alzehimer.
poteva anche essere fanfaniano, ma il cervello no. Il cervello somigliava a quello dell’altro “cavallo di razza” della Dc, secondo una celebre definizione di Carlo Donat-Cattin. Mi riferisco naturalmente ad Aldo Moro.
con Moro. E infatti quasi tre anni dopo, nel 1973, sempre da presidente del Senato, Fanfani convocò alla vigilia di un congresso nazionale del partito una riunione fra i capicorrente della Dc per decidere la rimozione di Forlani dalla segreteria del partito e di Giulio Andreotti da Palazzo Chigi. Così Forlani pagò anche il buon senso dimostrato nelle elezioni presidenziali della fine del 1971, quando dopo una lunga serie infruttuosa di votazioni su Fanfani candidato della Dc al Quirinale egli aveva contestato il veto che lo stesso Fanfani aveva praticamente posto contro una candidatura di Moro, già segretario del partito, più volte presidente del Consiglio e ministro degli Esteri allora in carica. Ma al Quirinale finì ugualmente un altro democristiano:
Giovanni Leone. Cui peraltro non sarebbe stato concesso di portare a termine regolarmente il mandato presidenziale per avere osato di cercare di salvare Moro nel 1978 dalle mani dei brigatisti rossi, che l’avevano rapito fra il sangue della scorta decimata reclamando lo scambio con 13 detenuti.
accordandosi col Pci, incapace però di reggere alla prova per più di un anno e mezzo, ritirandosene e tornando a sfidare la Dc dall’opposizione. Solo Forlani, tra le sofferenze di Ciriaco De Mita, seppe rispondere con la dovuta fermezza collaborando a Palazzo Chigi col socialista più temuto dal Pci: Bettino Craxi. Quelli, sì, erano uomini.
contraddicendosi clamorosamente nell’analisi della situazione e delle responsabilità. Su cui è più preciso, o meno trattenuto stavolta dalla faziosità, il direttore Marco Travaglio paragonando le disavventure di Conte, pur da lui sempre considerato, assieme a Vauro, come il migliore attore politico del mercato, che “fibrilla ma non si spezza”, a quelle passate di Romano Prodi, scalzato a suo tempo dagli errori e dalle smanie estremistiche di Fausto Bertinotti, delle sue 35 ore e simili.
“da giovedì se ne sbatteranno tutti allegramente” della riforma e dell’uso del cosiddetto fondo europeo salva-Stati. “Così come -ha aggiunto il direttore del Fatto Quotidiano, tornando alla storia di Prodi- delle 35 ore non è mai fregato nulla a nessuno. Ciò che resterà saranno i risultati nefasti della generale Operazione Morra, Lezzi & C, talmente puri e intransigenti da non vedere al di là del proprio naso”. Sono i grillini, insomma, con la loro famosa crisi d’identità tradottasi in un intreccio di rivalità politiche e personali, a insidiare Conte. Di cui molti anche sotto le 5 stelle si sono forse stufati, anche a livelli inimmaginabili, e non vedono l’ora di liberarsi, tutto sommato condividendo anche le insofferenze dell’”irresponsabile” ex presidente del Consiglio, ex segretario del Pd, ex sindaco di Firenze e ora “una slavina pericolosa per il governo”, secondo il Gualtieri di Giannini.
sfuggita, diciamo così, a Travaglio in un momento non so se più di sconforto o d’ira, sembra stagliarsi un’intervista del presidente grillino della Camera Roberto Fico al Corriere della Sera a sostegno di Conte. Ma, a parte il peso ormai imponderabile di Fico e degli altri esponenti più in vista o noti del movimento grillino, da qualche tempo si parla sempre più frequentemente di lui come stanco ormai di Montecitorio e dintorni, e tentato dall’avventura della candidatura a sindaco della sua Napoli nella primavera prossima.
abituato i vecchi partiti spazzati via dalla Befana giudiziaria, a non dare a ragione a Carlo Verdone? Che in una intervista ha confessato tutta la fatica che fa a ridere “in questa Italia da piangere”, dove persino al
una volta nell’aula del Senato e raccogliere l’eredità di Di Maio al vertice del movimento dopo il dimezzamento elettorale subito nel
rinnovo del Parlamento europeo del 2019, di fare il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e il vice ministro dell’Interno. Il suo massimo contributo al tentativo di modernizzare il Paese e di liberarlo dalle pratiche dei regimi corrotti lo individuò e lo diede, come sottosegretario di Conte, ingaggiando una lotta senza quartiere a Radio Radicale. Della cui pericolosità non c’eravamo accorti nessuno di noi abituato ad ascoltarne le cronache, interviste, convegni, congressi e quant’altro, evidentemente tutti storditi, prima ancora che corrotti, da quel demonio ch’era Marco Pannella.
come negli anni precedenti da Fortebraccio sull’Unità, si tolse il gusto di liquidare Crimi come “gerarca minore”. Ma non ebbe il tempo di godersi del tutto, stroncato da un male sottovalutato, la sua vittoria politica, essendo Radio Radicale sopravvissuta ai tentativi di sopprimerla.
di una telefonata indifferibile da Berlino, o dintorni, è riuscita a diradare le ombre della crisi. Che minacciano il governo in vista della votazione al Senato sulla riforma del meccanismo di stabilità economica europea, più noto al pubblico come Mes, quasi come una sigaretta ormai fuori produzione, nei cui pacchetti tuttavia ci sono i crediti agevolatissimi per il servizio sanitario italiano alle prove con la pandemia.
costretto a confermare, come va scrivendo già da qualche settimana, che il Pd di Nicola Zingaretti è “diviso sui 5Stelle”, non quindi su Conte, per quanto i quotidiani siano pieni di lamentele e proteste di piddini di ogni grado e colore contro i suoi metodi e ritardi, ma anche a precisare che a mettere il presidente del Consiglio “in pericolo sul Mes”, nella votazione in programma fra qualche giorno al Senato, sono “i ribelli 5S”, che “non mollano”. E ai quali probabilmente, in un sussulto di sovranità o sovranismo che li ricongiunge ai leghisti della prima maggioranza di questa legislatura, proprio quel rapporto quasi privilegiato con la Merkel ostentato da Conte ha fatto girare ulteriormente le scatole.
nuova Commissione Europea Ursula von der Leyen. Ma molta acqua è passata da quei giorni sotto i ponti. Il gruppo grillino ha perso per strada, come quelli di Roma, alcuni esponenti. E quel diavolo imprevedibile di Berlusconi, in una improvvisa convergenza col difficile alleato Salvini nel centrodestra italiano, ha scoperto gli svantaggi per l’Italia della riforma del Mes ormai concordata a Bruxelles. Tanto è bastato e avanzato ai grillini “dissidenti” a rialzare le paratie contro l’uso dei crediti europei per il potenziamento del servizio sanitario nazionale, per quanto il Cavaliere disinvoltamente continui a raccomandarlo lo stesso.
nessuno, lo sventurato Conte è costretto tra le righe e le ombre dei suoi messaggi criptici a scommettere sugli Scilipoti di turno, come accadde a Berlusconi nel 2010 a Palazzo Chigi per sopravvivere qualche mese in più. Ma stavolta abbiamo anche la pandemia con cui fare i conti.
italiano il rappresentante temporaneo, ancora presidente della Conferenza Stato-Regioni, che non è un leghista ma un il presidente piddino dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, ha così commentato col Corriere della Sera lo stato di rapporti proprio con Conte nella gestione non dell’emergenza ma della tragedia pandemica: “Non abbiamo potuto né discutere né condividere misure che avranno un impatto rilevante sui cittadini”. Avrà avuto migliore fortuna con Conte la cancelliera Merkel.
fra la seconda
e la terza ondata di Covid. “La linea del Colle: se non passa il Mes si torna a votare”, ha quasi ripetuto La Stampa.
“I venti di crisi sul Mes irritano il Quirinale”, ha annunciato il manifesto. “L’invito alla prudenza del Colle e i rischi di voto”, ha ammonito il giornale ancora della Confindusria Il Sole-24 Ore.