Taranto, dove gli indiani che li gestiscono hanno appena annunciato che spegneranno gli altiforni a gennaio, senza aspettare che glielo ordinino i magistrati del posto già intervenuti altre volte sugli impianti, ma solo perché non hanno più ordini di lavoro da eseguire, e Venezia, dove l’acqua stavolta è stata non alta ma altissima e ha devastato tutto, non hanno in comune solo il mare Adriatico. Esse condividono anche le leggi e il modo in cui i magistrati le applicano, senza bisogno di essere viziati dall’ideologia, dalla politica e da altri accidenti che pure spesso prendono loro la mano, non foss’altro per i criteri con i quali, vinto il concorso, essi fanno poi carriera: non sempre solo per i meriti e la professionalità appena raccomandati per l’ennesima volta al Consiglio Superiore della Magistratura dal suo presidente. Che è anche, e non a caso, presidente della Repubblica.
La vicenda del cosiddetto, incompiuto e non accentuato Mose di Venezia, senza il cui funzionamento l’acqua ha potuto fare i danni di questi giorni, non poteva essere raccontata meglio da un magistrato, ora in pensione, fra i più apprezzati e apprezzabili d’Italia: Carlo Nordio. Che avrebbe meritato una carriera ben più gratificante di quella avuta se non fosse stato fuori dal coro dei colleghi più o meno politicizzati.
Dopo avere ricordato gli interventi eseguiti da lui personalmente “per perseguire dei reati, non per un disegno ideologico sulla città”, essendo stati in gioco sulla sua scrivania giudiziaria
tangenti e simili e non l’utilità o idoneità di un’opera “unica al mondo, che quando sarà terminata diventerà uno straordinario biglietto da visita per l’imprenditoria italiana”, Nordio ha testualmente riferito: “Certo, gli arresti hanno avuto inevitabili effetti collaterali. C’è stato il commissariamento del Consorzio Venezia Nuova, alcune imprese hanno cambiato la governance, lo Stato ha rallentato i pagamenti. Non solo: alcune parti, già pronte da anni, si sono logorate e arrugginite. Conclusione: i costi, già altissimi sia per la costruzione che per la manutenzione, sono lievitati ancora”.
Un aggettivo, quanto meno, dal quale mi permetto di dissentire dallo stimatissimo e onestissimo magistrato, che peraltro a 73 anni da compiere a febbraio potrebbe ben essere utilizzato al servizio dell’opera ancora incompiuta nella sua regione, è quell’”inevitabile”, al plurale, applicato agli “effetti collaterali” dell’azione giudiziaria. Quell’aggettivo è, volente o nolente, la dimostrazione dell’inaccettabile modo in cui si gestiscono giustizia e pubblica amministrazione in Italia. E della fuga cui prima o poi, se non sono pazzi, si abbandonano gli investitori incautamente impegnatisi dalle nostre parti.
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che stima e perfino vuole bene a Conte, che ricambia giustamente con tutta la disponibilità di cui è capace trovando sempre il tempo, anche nelle condizioni temporali più disperate, di farsi intervistare: se non danneggiato dall’acqua, anche col telefonino lasciatogli in tasca da Rolli. E’ proprio sul giornale diretto da Marco Travaglio che è appena uscito, in testa alla prima pagina, un “viaggio nel caos dei 5Stelle”, pur “scampati”, chissà poi come e perché, “alla trappola Ilva” che risulta invece ancora lì, al suo posto, a minacciare decine di migliaia di posti di lavoro, diretto e indiretto, o indotto.
Già nel sommario di richiamo in prima pagina emerge tuttavia dal “viaggio” giornalistico il “capo da Statuto” del Movimento, come Luigi Di Maio viene definito all’interno da Luca De Carolis, in tutta la sua debolezza: “sempre più accerchiato tra correnti e spine”.
ai suoi informatori lo scrupoloso De Carolis, che tuttavia aggiunge con apprezzabile onestà: “Però i centri di potere sì, eccome, con squadre annesse”. Da cui il povero Di Maio deve pur difendersi, vivaddio, specie dopo la sfortuna capitatagli con Salvini di perdere a fine maggio, nelle elezioni europee, metà dell’elettorato raccolto poco più di un anno prima. Egli difende la sua posizione sino a minacciare i dissidenti con le elezioni anticipate,
che li decimerebbero, o a rimpiangere l’alleanza con i leghisti, peraltro dimostratisi così carini con lui da offrirgli nella crisi d’agosto la carica di presidente del Consiglio, al posto di un Conte già convinto di poter restare a Palazzo Chigi cambiando alleati. “Luigi, in realtà, non vuole tornare con il Carroccio -fa dire De Carolis al suo informatore- ma farlo sospettare gli serve come strategia, per tenere a a bada i gruppi. Deve tenerli sulla corda ricordando che lui può tenersi aperta ogni strada”.
che reclama la maggioranza assoluta, di cui nessuno dispone proprio per le tensioni esistenti e coinvolgenti lo stesso Di Maio. Pertanto risulta particolarmente evidente “la chiara fame di caos in un gruppo sfaldato in frange”. E’ un caos che si trascina da oltre due mesi e che ne provoca altro: per esempio, nel Pd che -racconta De Carolis- “guarda da fuori, preoccupatissimo” ciò che accade sotto le 5 stelle, le cui “croci pesano anche sui dem sempre di più”. E ciò ben al di là dei sorrisi che il segretario del Pd Nicola Zingaretti è andato a spargere ai suoi interlocutori americani in un viaggio che comunque lo farà tornare in Italia ancora più in ansia della partenza.
in Parlamento dalla maggioranza giallorossa, essendo in realtà preoccupati di più dalla crisi del mercato siderurgico sopraggiunta al loro contratto di affitto degli impianti, ma da buon avvocato egli sa che la questione potrebbe giocare contro il governo nella vertenza giudiziaria avviatasi presso il tribunale di Milano. Dove i gestori e forse già ex potenziali acquirenti dello stabilimento, che è da bonificare profondamente per non continuare a compromettere la salute di chi lavora e, più in generale, della popolazione, hanno denunciato proprio l’intervenuta soppressione delle tutele legali e favore di chi deve sopperire ai guasti precedenti. In assenza delle quali, a dire il vero, dovrebbe supplire una norna più generale del codice penale che però ha avuto in passato e potrebbe riavere in futuro l’inconveniente di un’applicazione non uniforme e costante da parte della magistratura, per cui ne occorre una formulazione più stringente.
almeno dalla batosta subita nelle elezioni europee di fine maggio, per quanto puntellato dalla solita consultazione digitale improvvisata dal gestore dell’altrettanto solita piattaforma Rousseau, che la presa reale di Di Maio sul movimento è in discesa. E l’uomo che ha davvero l’unica e ultima parola a disposizione nella posizione “elevata” assegnatasi di persona,
cioè Beppe Grillo, fa a suo modo anche lui l’indiano senza esserlo. Egli parla ogni tanto come una sibilla cumana, sale e scende dal dibattito politico come dal palco dei suoi spettacoli comici, convoca in qualcuna delle sue ville capi e capetti lasciandoli all’oscuro delle sue reali intenzioni, usa il blog personale per confrontarsi direttamente con Dio e lascia che le maggioranze di turno -ieri quella gialloverde e oggi quella giallorossa- soffrano della crisi del loro principale partito, o quasi partito. Che, evitato lo scioglimento anticipato nella crisi d’agosto, continua ad avere il suo ruolo “centrale” nelle Camere elette il 4 marzo dell’anno scorso, per quanto la geografia politica del Paese stia cambiando con le elezioni regionali.
internazionali, nelle beghe della politica italiana. Ma non posso neppure ignorare che proprio la disoccupazione, chiamiamola così, dell’ex presidente della Banca Centrale Europea costituisce dal 28 ottobre scorso, cioè dalla sua partenza da Francoforte, la nuova risorsa del suo e nostro Paese.
legislatura, una maggioranza più larga di quella giallorossa, supportata o completata con chi sta adesso all’opposizione: magari, pure “a gratis”, come dicono a Roma, per Conte e i partiti della maggioranza -Pd e Italia dei Valori di Renzi- affrettatisi a manifestare interesse o disponibilità. Sarebbe, come ha chiosato il Corriere della Sera in una breve notizia curiosamente relegata a pagina 10, “la legittimazione indiretta del governo Conte e la convinzione che esso durerà”. Da qui nascerebbe anche “il gelo” di Salvini. Che ha reagito alla sortita del suo vice dichiarandosi alle prese, in questo momento, con altri problemi, a cominciare dalle elezioni regionali del 26 gennaio in Emilia Romagna, e disposto ad occuparsene “più avanti”.
frettoloso? Che dice: “Giorgetti fa la prima mossa”. Cui altre quindi potrebbero seguire, o essere imposte dalle crescenti difficoltà di questo governo che per il momento, e almeno sino all’eventuale approvazione del bilancio, su cui gravano già più di mille emendamenti, non sembra in grado, secondo le parole dello stesso presidente del Consiglio, di fare riunire attorno ad uno stesso tavolo i segretari dei partiti della maggioranza per chiarirsi le idee.
pugliese e dintorni, sta cercando di convincere con santa pazienza anche i grillini più contrari -quelli che vengono definiti “d’acciaio”, e con i quali neppure Luigi Di Maio riesce più a parlare, o quasi- che il ripristino del cosiddetto scudo penale per i gestori degli impianti siderurgici di Taranto da risanare può avere un peso decisivo nella vertenza giudiziaria, che gli stessi gestori hanno aperto dopo l’improvviso voltafaccia della maggioranza parlamentare. La protesta degli indiani, chiamiamoli così, potrebbe essere “un alibi”, essendo ben altre le ragioni del loro tentativo di sganciarsi nella mutata congiuntura internazionale del mercato siderurgico, ma cercare di smontarla e neutralizzarla sarebbe ugualmente ragionevole, anzi necessario.
i grillini sunnominati, sull’intenzione attribuitagli di
ripristinare lo scudo penale, e anche di concedere uno sconto sull’affitto degli impianti, che Travaglio definisce “prezzo d’acquisto”, nonché il ricorso alla cassa integrazione per migliaia di esuberi, Conte ha risposto: “Niente affatto”. Egli ha poi parlato della ricerca di “eventuali soggetti alternativi” agli indiani ed espresso fiducia, da avvocato e non solo da presidente del Consiglio, di mettere i Mittal e soci con le spalle al muro nel tribunale di Milano.
raccontato: “Per stanare il signor Mittal sule sue reali intenzioni gliel’ho offerto subito” il ripristino dello scudo penale, ma “mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque perché il problema è industriale e non giudiziario”. Pertanto “solo continuare a parlarne ci indebolisce nella battaglia legale, alimenta inutili polemiche e ributta la palla” -dai con la palla- “dal campo di Mittal a quella del governo”.
di riunire attorno ad uno stesso tavolo i quattro segretari dei partiti della coalizione “perché si dicano tutto in faccia” e “perfezionino il programma finora troppo vago”. E lui, Conte, quasi ringraziando del consiglio, ha detto: “Sì, è il caso. Dopo il varo della manovra”, presumo l’approvazione parlamentare del bilancio, “ho già programmato di invitarli a un week-end di lavoro: tutti parleranno fuori dai denti, poi raccoglieremo i rispettivi obiettivi, metteremo giù un cronoprogramma dettagliato perché tutti si impegnino sul che fare e su quando farlo nei prossimi tre anni e mezzo”.
Marco Bentivogli, uno che peraltro non viaggia in auto blu o grigia ma sugli autobus, dove l’ho scorto qualche giorno fa: “Politica antindustriale, magistratura interventista, ambientalismo cieco”. E ancora: “L’Ilva di Taranto è lo specchio di un paese in guerra contro se stesso”. Non male neppure il titolo “Contro i cialtroni dell’acciaio”.
partita con gli indiani gestori degli impianti siderurgici, offrendo loro non solo il ripristino del cosiddetto scudo penale, abolito inopinatamente dalla sua maggioranza giallorossa nelle scorse settimane, ma anche un intervento dello Stato per aiutarli a
fronteggiare la difficile congiuntura del mercato internazionale del settore, subentrata agli accordi dell’anno scorso. Il Fatto Quotidiano ha invece messo addosso a Conte una corazza d’acciaio inossidabile per portarlo “al contrattacco”, codice e pandette fra le mani, facendo vedere agli indiani i sorci verdi al tribunale di Milano con l’accelerazione della vertenza da loro stessi aperta. Sono i misteri dell’informazione e della politica, in una miscela dove l’una e l’altra diventano tossiche.
dell’Interno
Matteo Salvini, è “ostaggio delle diatribe a 5Stelle”, come ha titolato il Quotidiano del Sud diretto da Roberto Napoletano. E “diatribe” è dir poco, se persino Travaglio in un pezzo sul governo a poco più di due mesi dalla sua formazione, pur cercando di rappresentarlo nel migliore dei modi grazie alle doti attribuite al presidente del Consiglio, ha definito “marasma” la situazione in cui versano i grillini. Le cui tensioni interne -altro che la obiettiva confusione in cui si muove Matteo Renzi e quella che procura o aggrava nel Pd di Nicola Zingaretti, abbandonato apposta per farlo esplodere il prima possibile nelle sue contraddizioni- si scaricano tutte sulla compagine ministeriale e sul presidente del Consiglio.
questa diciottesima legislatura nata il 4 marzo dell’anno scorso dalla conquista della maggioranza relativa ad opera dei pentastellati, non col muro ma con i cancelli delle ville dove Beppe Grillo prende o non prende le sue decisioni, tra Marina di Bibbona e il quartiere genovese di Sant’Ilario.
con Giacomo Leopardi, come ha fatto in questa domenica su Repubblica, i versi sull’immensità tra cui “s’annega il pensier mio” ed è “dolce naufragare” nel mare, anche quello a vista dalle ville del comico genovese prestatosi alla politica.
pochette messegli invece addosso da qualche vignettista- nell’”affonderia” inventata con la solita efficacia ironica dal manifesto, Giuseppe Conte si è lasciata scappare forse una frase di troppo col pubblico che ha affrontato fuori e dentro lo stabilimento siderurgico. “Non ho soluzioni in tasca”, ha detto il presidente del Consiglio, oltre all’intenzione di fronteggiare con fermezza la vertenza apertasi con i gestori indiani: una vertenza che segnerà un’epoca, ha pressappoco aggiunto Conte con la competenza non tanto della politica, alla quale è arrivato solo l’anno scorso, quanto di una consolidata professione forense e cattedratica.
impianti di Taranto, è il ripristino di quello che viene definito “scudo penale”. Grazie al quale i gestori attuali, come i commissari italiani
che li hanno preceduti nelle operazioni di bonifica necessari sul posto, dovrebbero essere perseguiti solo per gli errori e le colpe loro, non dei predecessori. Dai quali essi hanno ereditato gli immani guasti ambientali e d’altro tipo che gravano sull’area. E’ uno scudo di elementare garanzia, senza il quale chiunque operi lì è alla mercè di una qualsiasi iniziativa giudiziaria, con danni economici e fisici, essendo in gioco anche la libertà degli interessati, oltre al denaro degli investitori.
della compianta e leggendaria Dolores Ibarruri dell’antifranchismo spagnolo. Ebbene, nel programma della visita o missione di Conte a Taranto c’era anche un incontro in Prefettura con i parlamentari del territorio, compresa dunque la Lezzi. Ma nelle cronache dei fatti non se n’è poi trovata traccia alcuna. Sarebbe bello sapere se l’incontro c’è stato, se vi ha partecipato anche la “pasionaria” e che cosa si sono detti l’una e l’altro, cioè la Barbara, di none, e il suo ex presidente del Consiglio, e ora presidente di un Consiglio dei Ministri da cui la signora è rimasta fuori, non facendosene forse ancora una ragione.
Marzio Breda sul
Corriere della Sera- della crisi dell’ex Ilva, ai cui gestori franco-indiani è stato prima dato e poi tolto il cosiddetto scudo penale per la bonifica dell’imponente impianto siderurgico di Taranto, Giuseppe Conte ha cercato di riprendersi con dichiarazioni e interviste che dessero di lui l’immagine di un uomo un po’ meno indeciso o più determinato delle apparenze.
dello Stato per garantire produzione siderurgica e posti di lavoro. Ma, messo alle strette nel salotto televisivo di Bruno Vespa, a Porta a Porta, sull’aiuto che certamente non gli danno nel governo e nella maggioranza i grillini, dove i duri hanno preso il sopravvento e hanno determinato la cancellazione dello scudo penale usata dagli indiani per aprire la vertenza, Conte ha cercato di giustificarne contraddizioni ed errore parlando della “transizione” con la quale è alle prese il Movimento delle 5 Stelle.
Sui cui umori e obiettivi potrebbero bastare e avanzare le parole appena dette da Matteo Renzi in persona a proposito di Conte in una intervista a Repubblica, ispirandosi al “suo” Lorenzo de’ Medici, detto Il Magnifico, nel Carnevale del 1490: “Del doman non c’è certezza”.
persona, e si può scherzare sul suo aggettivo scrivendo di “maggioranza giallorotta”, come ha fatto Libero in un titolo, il capo dello Stato non intende giustamente far logorare dalla crisi politica anche il suo ruolo istituzionale. E, come ha appena ribadito allo stesso Conte
secondo la già ricordata corrispondenza di Marzio Breda dopo l’incontro sull’affare indiano e dintorni, “il Colle non tenterà di costruire alternative né tecniche né istituzionali”, perché in caso di crisi “si andrà dritti al voto”. E vi si andrà probabilmente con un governo di garanzia, non con quello eventualmente dimissionario di Conte.
di ghiaccio” immaginata da Marco Travaglio sulla prima pagina del Fatto Quotidiano. In particolare, il mio amico Giulianone ha scritto sin dal titolo del suo pezzo che “il governo senza spirito”, o senza anima, come altri hanno definito quello
del Bisconte, “è molto meglio” delle elezioni anticipate. E ha incitato con eccitazione degna di miglior causa: “Insieme per trasformismo e necessità. E’ un bene se governicchiano”. D’altronde, potrebbe difendersi Ferrara, già la buonanima di Giulio Andreotti sosteneva al governo che “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia”.