A meno che non vogliano consolarsi, appropriandosene, col forte assenteismo registrato nel referendum digitale, cui hanno partecipato solo 27 mila dei 125 mila iscritti alla cosiddetta piattaforma Rousseau, amici e familiari di Luigi Di Maio non possono contestare gli
schiaffi che il capo ancòra del Movimento delle 5 Stelle ha rimediato sulle prime pagine di tutti i giornali per la bocciatura della “pausa elettorale” da lui proposta o sostenuta per dare un aiutino, diciamo così, al pur scomodo alleato piddino nelle elezioni regionali del 26 gennaio in Emilia Romagna e in Calabria. Dove pertanto
la sola partecipazione del Movimento pentastellato con proprie liste, scartata la strada
dell’accordo percorsa in modo fallimentare in Umbria, costituisce per il Pd di Nicola Zingaretti un pericolo serissimo di sconfitta. E ciò a vantaggio naturalmente del centrodestra a trazione leghista, per quanto possano riempirsi le piazze di “sardine” anti-Salvini durante la campagna elettorale, peraltro già avviata, specie in Emilia.
Lo stesso Di Maio ha ammesso a suo modo la bocciatura della propria linea, pur parlando non di sé ma del Movimento in “difficoltà”, cioè in crisi. Che potrebbe riflettersi sul governo giallorosso, trascinandoselo appresso, come molti degli stessi ministri temono e si sono detti fra di loro nella cena al ristorante romano “Arancio d’oro”, offerta con infelice tempistica, a dir poco, dal sempre fiducioso Giuseppe Conte. I timori dei ministri sono quasi certezza a Palazzo Chigi e nella sede ancora nazarena del Pd, secondo la cronaca della cena e dintorni fatta sul Corriere della Sera da Monica Guerzoni. In effetti, è ben difficile credere che la segreteria Zingaretti e annessi e connessi, compreso il governo, potrebbero sopravvivere ad una perdita della storica regione rossa Emilia Romagna.
Va detto con onestà che fra tutti i giornali, compreso l’impietoso manifesto col suo titolo “Curre curre guagliò” dedicato al giovane ministro
campano degli Esteri, e la non meno impietosa “Polvere di 5Stelle” di Repubblica, il più obiettivo e severo è stato Il Fatto Quotidiano. Che senza risparmiare nessuno, neppure Beppe Grillo, il quale ogni tanto gli affida le sue
riflessioni direttamente o indirettamente, ha
tradotto il 70 e rotti per cento del no alla “tregua” contro il 29 e rotti del sì, in un gigantesco e rosso “Vaffa della base ai capi”, anche quelli quindi che non si sono esposti come Di Maio e, peraltro, dietro le quinte non gli hanno mai dato un grande aiuto.
Da ciò Marco Travaglio ha ricavato l’impressione, espressa anche nel titolo del suo editoriale, di avere a che fare con un “suicidio assistito” dell’intero e pur caro Movimento 5 Stelle. Ma “assistito” poi da chi, più di preciso? Da Di Maio è difficile crederlo; da Grillo pure, per quanto col mestiere di comico che pratica da sempre si potrebbe pure sospettarlo, e immaginarne anche una smorfia di compiacimento; da Davide Casaleggio sembra impossibile per i danni economici che subirebbe la “piattaforma” da lui gestita. Non è che, sotto sotto, senza rendersene neppure conto per la non molta pratica che ha della politica, essendovi approdato solo l’anno scorso, l’assistenza possa o debba essere attribuita al presidente del Consiglio? Egli rimarrebbe davvero e finalmente senza un partito di riferimento, come con scrupolo tiene sempre a presentarsi e descriversi, sentendosi soltanto “umanista”, neppure più “l’avvocato del popolo” d’inizio della sua avventura a Palazzo Chigi.
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