Gara di nefandezze attorno a quelle del “radicale” arrestato per mafia

              Ci sono voluti 68 anni per potere ripetere finalmente a proposito parole pronunciate invece a sproposito dall’allora segretario del Pci Palmiro Togliatti contro due dissidenti – Valdo Magnani, peraltro cugino della sua compagna Nilde Jotti, e Aldo Cucchi- espulsi dal partito per averne denunciato la sudditanza a Stalin. Essi furono liquidati come “due pidocchi” finiti “nella criniera di un nobile cavallo da corsa”. Poi i fatti, già con Togliatti ancora in vita ma sempre convinto delle sue idee, addirittura bevendoci sopra qualche bicchiere di vino, come fece nel 1956 per l’invasione sovietica dell’Ungheria, si incaricarono di ristabilire la verità. E almeno uno dei due “pidocchi”, morto Togliatti, fu riammesso nel partito, preferendo l’altro rimanerne lontano.

            Ebbene, quel “pidocchio” così velenosamente usato dall’allora segretario comunista calza a pennello al “radicale” -con le virgolette, come manifesto.jpgsoltanto il manifesto ha avuto il coraggio, la prudenza, il pudore di usare nel titoletto di Corriere.jpgrichiamo della notizia in prima pagina- Antonello Nicosia. Che ha ignobilmente abusato dei Radicali, con la maiuscola e senza virgolette, per fare il mafioso fuori e dentro le carceri in cui ha vissuto come detenuto per traffico di droga e poi visitato per qualche tempo come assistente della parlamentare di sinistra Giusy Occhionero, eletta nel Pd, rieletta col partitino di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Pietro Grasso e approdata qualche giorno fa nell’Italia Viva di Matteo Renzi.

             Per una volta faccio il giustizialista anch’io e non aspetto il processo e la condanna definitiva per condividere l’accusa in forza della quale “il pidocchio” è stato arrestato. Mi bastano e avanzano le intercettazioni diffuse a suo carico, nelle quali lo sfrontato è caduto fra un’edizione e l’altra addirittura di una trasmissione televisiva di emittenza privata sulle carceri dal titolo -l’unico- in qualche modo appropriato alla sua attività: “Mezz’ora d’Aria”, con la maiuscola. Durante la quale si guardava bene naturalmente dal ripetere le cose infami che diceva in privato, per esempio, nelle sue conversazioni telefoniche o in auto contro vittime della mafia come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, o a favore del suo “premier” Messina Denaro, il più alto in grado dei mafiosi latitanti.

            L’indignazione che ho provato nel leggere di quelle intercettazioni e -aggiungo- la pena procuratami anche dalle dichiarazioni dell’ex segretario del Partito Radicale Rita Bernardini, che ha messo anche questo nella dolorosa diaspora radicale facendo osservare che “il comitato nazionale” di cui Nicosia risulta esponente è quello dei “radicali italiani” di Emma Bonino e non del suo, non mi impediscono tuttavia di mettere sullo stesso piano le nefandezze Il Fatto.jpgdel “pidocchio” e l’uso strumentale che si è subito cominciato a fare di questa faccenda. Che, per esempio, data la recentissima confluenza fra i renziani della La Verità.jpgparlamentare abusata politicamente e mediaticamente dal suo ex assistente, prima di essere allontanato, è stata iscritta a bilancio, diciamo così, di Italia Viva e del suo fondatore. E ciò con una sintonia di titoli fra due giornali così lontani come Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio e la Verità di Maurizio Belpietro che induce a riflettere sulla tossicità ormai dell’informazione, e non solo della politica.

           Oltre a mettere questa vicenda a carico di Matteo Renzi, contro cui pure non mancherebbero e non mancano ragioni più che sensate di polemiche, per esempio sul modo in cui ha Travaglio su Radio Radicale.jpgvoluto far nascere la maggioranza giallorossa e ora vi partecipa più per scuoterla che per sorreggerla, il direttore del Fatto Quotidiano l’ha messa  anche al servizio della campagna dei grillini, appena rilanciata nel nuovo governo da Luigi Di Maio, contro quella vergogna, quella porcheria, quello sperpero di risorse pubbliche che sarebbe il finanziamento di Radio Radicale per le trasmissioni in convenzione dei lavori parlamentari. Che almeno i radicali -ha scritto Travaglio- si paghino di tasca loro le nefandezze che secondo lui sono abituati a commettere appoggiando il peggio del peggio sul mercato politico e mediatico, “anziché con i nostri soldi succhiati da Radio Radicale” in nome della “libertà di stampa”.

Ci voleva Violante per smascherare il peccato originale del Pd di Zingaretti

Luciano Violante è uno dei politici, non molti purtroppo, sui quali il tempo non scorre inutilmente, risparmiando loro la sorte infelice di essere dei paracarri, fermi al loro posto a fare da guardia non si sa più a chi e a che cosa, peraltro in una società e in un mondo che cambia a velocità parossistica. E che i partiti pensano di inseguire moltiplicandosi e improvvisandosi per conquistare magari il 32 per cento in un anno, come hanno fatto i grillini, e dimezzarsi l’anno dopo, sorretti solo da una forza residua di quelle istituzioni che vorrebbero invece travolgere.

A salvare i pentastellati, per esempio, dallo scioglimento anticipato delle Camere, che li avrebbe fatti scendere ancora sotto il 17 per cento cui li aveva ridotti  nelle elezioni europee del 24 maggio scorso l’alleanza di governo con i leghisti, è stata la solidità, sia pure relativa, di un sistema parlamentare, e relative garanzie di durata e di funzionamento, che proprio loro vorrebbero segare sostituendo la democrazia rappresentativa con quella digitale, le urne vere con le cosiddette piattaforme, o trasformando l’istituto referendario in un sisma permanente. Sono tutti temi, questi, di fronte ai quali immagino le apprensioni proprio di Violante, che da presidente della Camera si è fatta una certa esperienza. Eppure non è di questo e per questo che scrivo di lui a proposito del tempo, come dicevo, che non è passato inutilmente e ne ha fatto invece un politico a tutto tondo. Ne scrivo per il completamento della sua evoluzione avvertita nella bella intervista a Carlo Fusi pubblicata sabato scorso sul Dubbio.

Già sottrattosi negli anni passati, criticando con vigore certe pratiche giudiziarie, al rischio del giustizialismo corso col contributo dato per un certo tempo, volente o nolente, e forte della sua provenienza dalla magistratura, ad una concezione dei rapporti fra giustizia e politica secondo me non proprio paritaria, Violante ha avuto il coraggio adesso di toccare un nervo scoperto del suo partito, il Pd. Lo ha fatto peraltro nel momento in cui il segretario Nicola Zingaretti si è proposto l’obiettivo di una sua “rifondazione”. Che è un progetto alquanto generico e fuorviante, com’è accaduto ad altre rifondazioni nell’area della sinistra, se non si scioglie prima quello che Violante ha definito “un nodo”, ma che sono tentato di chiamare “il nodo” del Pd: chiudere definitivamente con la tradizione “comunista”, riconoscendo che il comunismo “è stato insieme un grande strumento di libertà all’opposizione e di oppressione quando ha governato”. E’ ora di rendersi finalmente consapevoli  -ha detto testualmente- che “un partito socialdemocratico è ciò che serve”.  “Il Pd -ha detto ancora Violante- non può essere una riedizione del cattocomunismo”.

Più chiaro e deciso mi sembra che l’ex presidente della Camera non potesse essere, anche a costo -penso- di fare storcere il naso e drizzare i capelli a buona parte, almeno, della componente del Pd di provenienza democristiana. Che ancora soffre, quanto meno, a sentir parlare di socialismo o socialdemocrazia e sarebbe magari tentato di ritorcere contro Violante il riconoscimento da lui stesso fatto, nella medesima intervista, che “il cristianesimo è il solo a durare da duemila anni”.

Eppure è toccato proprio a un piddino -sino a qualche settimana fa- di provenienza sostanzialmente democristiana, Matteo Renzi, trovare il coraggio, mancato ai suoi predecessori Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, nell’ordine della loro successione, di portare il Pd nella famiglia del socialismo europeo. Sembra un paradosso, almeno per quello che poi ha fatto Renzi uscendo dal partito e mettendosi in proprio con la sua Italia Viva, ma questo è avvenuto nella storia poco più che decennale del Pd. La cui fondazione, al di là delle stesse intenzioni dei promotori, si è rivelato  più un espediente che una soluzione al problema avvertito da entrambi i principali artefici- quel che restava del Pci e della sinistra democristiana- di definire una nuova identità dopo gli sconvolgimenti seguiti alla caduta del comunismo e al crollo della cosiddetta prima Repubblica per via giudiziaria, prima ancora che politica ed elettorale.

Massimo D’Alema fu il primo e il più esplicito a parlare di quell’operazione come di “un amalgama mal riuscito”. Cui d’altronde si erano opposti, prevedendone gli effetti più negativi che positivi, fior di politici di entrambi gli schieramenti: da una parte, per esempio il comunista Emanuele Macaluso, e dall’altra il democristiano Gerardo Bianco, che addossò la colpa di una fusione troppo e inevitabilmente fredda soprattutto a Romano Prodi. La fusione  illuse i post-comunisti di potersi sottrarre alla resa dei  conti con la fine della loro ideologia e i post-democristiani di poter alla fine realizzare, senza danni per loro, una volta che il comunismo era caduto, lo scenario del compromesso storico impietosamene indicato nella sua analisi da Violante. Esso peraltro nella Dc non fu perseguito neppure dall’uomo più aperto al dialogo e al confronto, Aldo Moro, contrariamente a quanti ne scrivono ancora come di un simbolo, più ancora di Enrico Berlinguer che l’aveva proposto. Moro si fermò alla “tregua”, come lui stesso la definì, di una “solidarietà nazionale” a termine, garantita a suo modo dal carattere monocolore democristiano del governo e dal solo appoggio esterno del Pci.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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