Il 48 personale di Conte e il 50,3 per cento del centrodestra a guida leghista

            Diventato due secoli fa sinonimo di scompiglio, sommovimento, rivolta, disordine e quant’altro, e nella cabala sinonimo del morto che parla, il 48 è in questi giorni un numero apparentemente consolatorio Gradimento.jpgper Giuseppe Conte. Che avrà i suoi problemi fuori e dentro il governo che guida, e la maggioranza che formalmente dovrebbe sostenerlo, ma si è pur trovato ancora in testa, appunto col 48 per cento, alla graduatoria del gradimento nel sondaggio appena sfornato dall’Ipsos per il Corriere della Sera. Che ne ha fatto un titolo augurante di prima pagina. Egli ha distanziato di 8 punti l’avversario Matteo Salvini, di  27 punti l’insofferente alleato Luigi Di Maio,  che lo  avverte sempre più chiaramente come un incubo per il credito di cui dispone presso Beppe Grillo e molti parlamentari pentastellati, e di ben 34 punti Matteo Renzi. Al cui solo nome, secondo molti retroscenisti, il presidente del Consiglio cambia espressione, temendone non si sa se più le critiche esplicite e dirette o gli inviti alla serenità, che Renzi non si risparmia di rivolgergli pur sapendo quanto poco siano diventato credibili da quando li formulava ad Enrico Letta prima di sfrattarlo da Palazzo Chigi.

            Peccato per Conte che quel 48 per cento di gradimento sia in qualche modo contraddetto, almeno sul pianoGiudizio sul governo.jpg strettamente politico, dal giudizio sul suo governo. Che dal 43 per cento positivo del 10 ottobre è riprecipitato al 36 del 5 settembre, mentre quello negativo è salito dal 44 per cento del 10 ottobre al 50.

            Il bisticcio tuttavia fra questi numeri è niente di fronte alla “fluidità delle opinioni degli italiani”, Intenzioni di voto.jpgcome la definisce Nando Paglioncelli, sempre sul Corriere della Sera, riferendo delle cosiddette intenzioni di voto per i vari partiti.  In testa ai quali resta la Lega di Salvini col 34,3 per cento,  a dispetto della morte politica annunciata per il Carroccio dopo l’autorete della crisi di agosto. Altro che morta: la Lega ha poco meno del doppio dei voti virtuali  sia delle 5 stelle sia del Pd.

            Sommata al 9,8 per cento della sorella dei fratelli d’Italia, la rampante Giorgia Meloni, peraltro terza -col 36 per cento- nella graduatoria del gradimento personale, dopo Conte e Salvini, e al 6,2 del partito di Silvio Berlusconi, la percentuale del centrodestra arriva al 50,3 per cento. Siamo insomma alla maggioranza assoluta, salvo una riforma dell’aritmetica a tamburo battente.  

 

 

 

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Sergio Mattarella si smarca dai pasticci istituzionali della maggioranza

Sommersi ormai dai retroscena più immaginati che reali, si avverte un senso di consolazione e, sotto certi aspetti, anche di rivincita per un vecchio cronista della politica italiana imbattersi in un articolo sul Quirinale così bene informato e misurato come quello di Paolo Delgado. Che ha saputo rappresentare sul Dubbio la sofferenza, a dir poco, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di fronte alle tensioni già esplose nella maggioranza giallorossa prima delle elezioni regionali in Umbria e destinate non certo a rientrare di fronte ai loro risultati, in particolare quello del Movimento delle 5 Stelle, sceso ad una cifra. Per cui Luigi Di Maio si è impuntato come un cavallo imbizzarrito di fronte alla prospettiva di ripetere in altre regioni l’esperimento nazionale di alleanza col Pd, considerata invece dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte “irreversibile” con reminiscenze democristiane non nuove per un professore pubblicamente già espostosi per la volontà di ispirarsi ad Aldo Moro.

Fu proprio di Moro, all’inizio degli anni Settanta, quando Conte frequentava ancora nella comune regione pugliese  le scuole elementari, a sostenere la “irreversibilità” del centrosinistra, da lui realizzato nella sua “organicità” e guidato a Palazzo Chigi dal 1963 al 1968, di fronte alle tentazioni democristiane di tornare indietro. Erano gli anni in cui i socialisti reclamavano “equilibri più avanzati” e gli stessi  avversari o concorrenti di Moro nello scudo crociato avevano cercato di accontentarli col centrosinistra “più incisivo e coraggioso”, offerto e presieduto da Mariano Rumor.

Per nulla trattenuto dal fatto di avere anticipato Moro sulla strada del centrosinistra con i governi delle “convergenze parallele” sostenuti esternamente dai socialisti, Amintore Fanfani sostenne la più ragionevole, realistica reversibilità delle formule politiche. E vinse lui la partita col ritorno della Dc, guidata allora da Arnaldo Forlani, ancora “delfino” di Fanfani, alla collaborazione di governo con i liberali, e il ritorno dei socialisti all’opposizione. Fu chiamato dallo stesso Forlani il governo “della centralità”, affidato alla guida di Giulio Andreotti. Poi, fedele sempre al concetto o principio della reversibilità, lo stesso Fanfani dopo un anno detronizzò Forlani, ne prese il posto e promosse il ritorno al centrosinistra ritrovandosi con Moro. Ma fu tutto un altro centrosinistra, destinato a sfociare rapidamente in esperienze assai diverse: la “solidarietà nazionale” col Pci e poi il “pentapartito” di Bettino Craxi.

Sergio Mattarella, di scuola democristiana ben più vissuta e partecipata del giovane Conte, non si è perciò lasciato prendere da forti emozioni davanti alle turbolenze della maggioranza giallorossa. Egli “non ha alcuna intenzione -come ha scritto Delgado- di accanirsi terapeuticamente per tenere in vita la legislatura” col governo e con la maggioranza attuale. Se sarà crisi, il capo dello Stato non si sentirà obbligato a fare chissà che cosa per salvare le Camere dallo scioglimento anticipato. Non si lascerà trattenere neppure dalla paura un po’ troppo imprudentemente espressa, anzi gridata, da Matteo Renzi che possano essere nuove Camere, a prevedibile e comunque temuta maggioranza di centro destra, a scegliere nel 2022 il nuovo presidente della Repubblica. Non è la prima volta, d’altronde, che Renzi con la sua spavalderia finisce per danneggiare anche le cause e gli obiettivi che si propone.

Sul Corriere della Sera il quirinalista Marzio Breda, abituato da tempo ad avvertire e raccogliere anche i sospiri sul Colle più alto di Roma, ha scritto che in caso di crisi Mattarella, come ha tenuto già ad avvertire chi lo ha avvicinato, agirà “sena tenere conto dei calcoli su quali forze di Camera e Senato eleggeranno il suo successore al Quirinale”.

Da uomo ormai delle istituzioni Mattarella non permetterà dunque di confondere due partite così diverse fra loro come quelle del governo e della Presidenza della Repubblica. Il fatto che nel 2015, sovrapponendole Matteo Renzi.jpge un po’ confondendole nei fatti, a dispetto della pretesa di separarle,  l’allora presidente del Consiglio Renzi fosse riuscito a mandare al Quirinale proprio Mattarella, anche a costo di rompere il sodalizio con Silvio Berlusconi sulle riforme, e tutto ciò che ne seguì, compresa la bocciatura referendaria della  riforma costituzionale, non ha lodevolmente cambiato la caratura dell’attuale presidente della Repubblica.

D’altronde, non si riesce sempre ad eleggere  l’uomo migliore nel modo peggiore. Giù il cappello, signori, davanti a un capo dello Stato già imprudentemente esposto durante la crisi d’agosto al sospetto, che non meritava né politicamente né umanamente, di avere risolto una difficilissima crisi di governo pensando anche alla propria rielezione.  Lo scrissi già allora sul Dubbio, incredulo a ciò che sentivo e leggevo, e lo ripeto oggi.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 2-11-2019

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