Mattarella “commissaria” il governo e tutti fingono di non accorgersene

             Questa volta neppure al manifesto, quotidiano orgogliosamente comunista, com’è stampato in rosso sopra la testata, hanno ritenuto di promuovere ad evento politico e sociale della giornata di ieri l’udienza ottenuta al Quirinale dai segretari dei tre maggiori sindacati. Che il presidente della Repubblica ha voluto ricevere molto volentieri per discutere della ex Ilva di Taranto, ma anche di altre crisi aziendali. E li ha ricevuti dopo avere lanciato pubblicamente l’allarme di “una bomba sociale”, sulla quale -mi permetterei di aggiungere- si ripete la pratica delle sovrapposizioni di competenze politiche, amministrative e giudiziarie che favoriscono spesso il gioco dei più spregiudicati.

            Piuttosto che sottolineare, come ha fatto il richiamo in prima pagina di un editoriale della Stampa La Stampa.jpgsul “richiamo del Colle al premier” sottinteso nell’iniziativa del capo dello Stato, in qualche modo emulo -aggiungerei- del clamoroso intervento dell’allora presidente della Manifesto.jpgRepubblica Sandro Pertini nella vertenza dei controllori di volo nel 1979, ai tempi del governo di Francesco Cossiga, al manifesto hanno preferito valorizzare il raduno delle “sardine” a Modena, dopo quello di Bologna, per gridare “fuori dalle scatole” a Matteo Salvini. Che osa ambire alla vittoria del centrodestra a trazione leghista nelle elezioni del 26 gennaio nella più storica delle regioni rosse: l’Emilia Romagna.

           Per l’incontro di Mattarella con i sindacati sulla sorte, praticamente, della siderurgia italiana dopo tutti i pasticci ricevuti e ricambiati dai gestori franco-indiani degli impianti di Taranto, è bastato e avanzato al giornale che dovrebbe essere considerato il più a sinistra nel nostro Paese un misero manifesto 2 .jpgocchiello, sia pure rosso, come si chiama nel nostro gergo professionale, apposto al titolo sulla notizia del “rallentamento” delle procedure annunciate dall’azienda per lo spegnimento di un altoforno sorvegliato, diciamo così, dalla magistratura tarantina.  

            In un altro momento, tra le parole e i gesti del presidente della Repubblica, e nella congiuntura politica di un bilancio dello Stato al quale sono stati proposti in Parlamento ben 4500 emendamenti, di cui 1700 da parte della stessa maggioranza, della quale non si può certo dire che sia quindi compatta e convinta delle scelte ministeriali, si sarebbe parlato di un governo sostanzialmente commissariato. Esso d’altronde vive tra risse continue e minacce reciproche di crisi e di elezioni anticipate. Alle quali ultime l’unico che continua ad opporsi testardamente è Matteo Renzi, che già le ha impedite nella scorsa estate ribaltando i suoi rapporti con i grillini e trascinandosi appresso il partito cui ancora apparteneva -il Pd- e il suo segretario Nicola Zingaretti, forse sempre meno convinto di quel cedimento.

            L’argomento che Renzi continua ad opporre alle elezioni, appena ribadito in una intervista al Corriere della Sera, è sfacciatamente quello di impedire che nuove Camere a prevedibile maggioranza Mattarella.jpgdi centrodestra eleggano alla Presidenza della Repubblica nel 2022 un successore di Mattarella a lui -Renzi stesso- non gradito. E’ un argomento che presumo, per ragioni di galateo personale e istituzionale, metta in imbarazzo per primo il presidente in carica. Ma Renzi è così: testardo e politicamente sfacciato- ripeto- sino all’autolesionismo, come già gli accadde col referendum del 2016 perduto sulla riforma costituzionale varata dal suo governo, e pur apprezzabile sotto molti aspetti, tanto da averla votata anch’io.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it e policymakermag.it 

Il solito gioco dei quattro cantoni nella maggioranza giallorossa

Certo, non è stata l’ovazione riservata alla presenza e all’intervento di Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil, ma è pur stato consistente e significativa la buona accoglienza riservata al presidente della Confindustria Vincenzo Boccia dai partecipanti alla conferenza programmatica del Pd a Bologna. Le cui cronache purtroppo sono state anch’esse in qualche modo sommerse da quelle su Venezia e sulle altre località flagellate dall’acqua, dalla neve e dal vento.

Ha avuto un sapore per niente di forma quel “caro Nicola” rivolto amichevolmente dal rappresentante degli imprenditori italiani al segretario del partito Zingaretti. Che è deciso a scrivere per la sua formazione politica e, più in generale, per la sinistra “tutta un’altra storia”, secondo il titolo, lo slogan e quant’altro assegnato al quasi congresso -molto quasi- svoltosi nei giorni scorsi proprio in quella città e in quella regione che il centrodestra a trazione leghista si è proposto di conquistare a fine gennaio.

Quel “caro Nicola” dev’essere apparso incoraggiante a Zingaretti anche considerando la concorrenza che sul versante da cui proveniva opera con la solita baldanza nei riguardi del Pd Matteo Renzi con la formazione politica appena creata col nome di Italia Viva. E’ una concorrenza, direi, spietata con quel tentativo dell’ex presidente toscano del Consiglio di liquidare il suo ex partito come quello “delle tasse” e di spianarlo, dichiaratamente, alla maniera usata in Francia da Emmanuel Macron, scalando e conquistando l’Eliseo, ai danni del partito socialista. In cui, a dire la verità, nonostante gli auspici recentemente espressi anche da un ex militante comunista come Luciano Violante in una intervista a Carlo Fusi, e poi ribaditi in altri interventi, il Pd non vuole riconoscersi, pur essendo stato portato nella famiglia del socialismo europeo da un segretario -allora- di sostanziale provenienza democristiana: il sunnominato Renzi, diciamo così.

Questa è una delle tante anomalie della sinistra italiana o, se preferite, un residuo di quella lunga storia di divisioni, scissioni, traumi che non le hanno impedito di partecipare alla ricostruzione della democrazia dopo il fascismo e la guerra, ma di costituire davvero un’alternativa di governo sì.  Glielo hanno impedito, eccome. E ciò anche a prescindere -bisogna avere il coraggio di riconoscerlo da quelle parti- dal lungo periodo della cosiddetta guerra fredda, quando neppure Stalin a Mosca si augurava i comunisti italiani al governo per non tradire la spartizione dell’Europa concordata a Yalta con gli altri vincitori del secondo conflitto mondiale.

Prima o dopo, comunque, il Pd i conti con questa storia dovrà pur decidersi a farla, spero in tempo perché Violante possa assistervi con i suoi 78 anni per fortuna molto ben portati.

Per tornare a quel “caro Nicola” di Vincenzo Boccia a Zingaretti, vedrete che prima o poi glielo rinfaccerà al segretario del Pd anche il capo ancòra dei grillini Luigi Di Maio. Che dice di non credere né alla destra né alla sinistra, sentendosi semplicemente “pragmatico” e “deideologizzato”, ma finisce sempre, ogni volta che può o le circostanze gliene danno l’occasione, di mettersi e schierarsi, volente o nolente, da una parte o dall’altra, mai davvero al di fuori e al di sopra.

Con tutto il contenzioso che ha col Pd anche dopo essere stato spinto di persona da Beppe Grillo a fare un governo insieme dopo la rottura estiva con i leghisti, Luigi Di Maio nella sua doppia veste di ministro degli Esteri e di capo della delegazione pentastellata nel secondo Gabinetto Conte ha voluto aprire un altro fronte contro Zingaretti. Di cui egli, dichiaratamente “sconcertato”, non ha gradito, in particolare, il tema della cittadinanza ai figli degli immigrati nati e acculturatisi in Italia: tema rilanciato con una certa forza dal segretario del Pd a Bologna.

Lo sconcerto di Di Maio è stato motivato con l’inattualità, diciamo così, atmosferica o meteorologica di questo problema, con mezza Italia e forse più alle prese con l’acqua. Liquidare così un tema come il cosiddetto ius soli o culturae, comprensivo dei diritti civili, è una cosa francamente agghiacciante. E’ peggio che schierarsi a destra, e ritrovarsi con quel Salvini di cui non a caso ogni tanto anche nel suo partito Di Maio viene accusato di avere una certa nostalgia.

E’ peggio -ripeto- che schierarsi a destra, alla faccia del pragmatismo e della deideologizzazione dei pentastellati, perché anche a destra il tema della cittadinanza ai figli degli immigrati che vanno a scuola con i nostri figli o nipoti non è da tutti liquidato come fanno Di Maio e Salvini. Ne sa qualcosa Silvio Berlusconi, che rischia di perdere proprio su questo terreno una parte di quel che gli resta di Forza Italia, specie ora che inzuppa il pane in quella minestra “l’altro Matteo”, il sunnominato Renzi, sempre lui.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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