Luigi Di Maio sfugge come Pinocchio a “mastro Geppetto” Grillo…

            Alla faccia del “commissariamento” sbandierato da giornaloni, giornali e giornalini dopo lo spettacolo offerto da Beppe Grillo e Luigi Di Maio davanti ai Fori imperiali di Roma: l’uno confermandolo capo del Movimento 5 Stelle, e invitando chi non fosse d’accordo a “non rompere i coglioni”, l’altro annuendo e sorridendo a tutte le stravaganti affermazioni del comico, compresa la rivendicazione del caos come “natura” della formazione politica da lui improvvisata dieci anni fa.

            Più che commissariato, Di Maio si sta rivelando un irriducibile insubordinato politico, che fa pure rima. Le indicazioni o raccomandazioni del fondatore, “elevato”, “garante” e Vuota la Farnesina.jpgquant’altro da un orecchio gli entrano e dall’altro gli escono senza fermarsi un istante in qualche angolino del cervello. Egli continua a tenersi frequentemente lontano Folli su Di Maio.jpgdalla Farnesina, come ha appena denunciato su Repubblica Stefano Folli anche per contestare al Pd, per non parlare del presidente del Consiglio, la tolleranza verso la sostanziale mancanza, secondo lui, di un ministro degli Esteri italiano. Se ne tiene lontano, Di Maio, per correre ovunque ritenga necessario, pur tra piogge, frane e crolli, esercitare e difendere il suo ruolo di capo effettivo del partito.

            L’ultima o, mentre scrivo,  già penultima missione di questo tipo messa ben in evidenza dappertutto è quella compiuta da Di Maio a Bologna. Dove è corso ad incoraggiare Il Fatto.jpgi militanti pentastellati che non hanno alcuna voglia di seguire le indicazioni implicite di Grillo ed esplicite del Fatto Quotidiano a non partecipare da soli alle elezioni regionali del 26 gennaio -visto che la partecipazione è stata autorizzata, o imposta, a stragrande maggioranza dal recente referendum digitale- ma a cercare accordi col Pd per non compromettere le sorti del governo nazionale giallorosso, seguìto solo di recente a quello gialloverde.

            Non c’è niente da fare, ha detto Di Maio precisando di averne anche parlato daccapo a Grillo. Sarebbe addirittura lo statuto del Movimento a impedire collegamenti, accordi elettorali e Corriere.jpgquant’altro a livello locale che non siano di natura “civica”, com’è avvenuto in Umbria. Dove il Pd, alquanto malmesso per i guai giudiziari degli amministratori uscenti, ha cercato e trovato con i grillini per la presidenza della Regione un candidato cosiddetto civico: il presidente degli albergatori locali clamorosamente sconfitto poi dal centrodestra a trazione leghista, peraltro con risultati che hanno danneggiato, all’opposizione, più il Movimento 5 Stelle, riducendolo ad una sola cifra, che il partito di Nicola Zingaretti.

            In Emilia Romagna il Pd per la sua forte e storica presenza e per la buona salute anche politica del presidente uscente della regione, Stefano Bonaccini, col quale peraltro almeno Bonaccini.jpguna parte dei pentastellati locali ha avuto modo e occasione di condividere visioni e iniziative, non ha nessuna intenzione di ripetere la fallita esperienza umbra di nascondersi praticamente dietro un candidato civico. E se anche a causa della concorrenza pur solitaria dei pentastellati, destinati secondo Di Maio a togliere voti solo ai leghisti, il Pd dovesse perdere a fine gennaio l’Emilia Romagna, avrebbe ben poco da consolarsi l’olimpico e umanista presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’appartamento e relativo bagno in ristrutturazione a Palazzo Chigi.

            Di Maio, d’altronde, non è il solo a resistere alle preoccupazioni e ai consigli di Grillo. Che anche dopo la sua performance romana davanti ai Fori imperiali, fra una visita e l’altra all’ambasciata cinese su cui cresce, diciamo così, la curiosità generale anche all’estero, è costretto a registrare dissensi, proteste e persino dileggi di chi a lungo lo ha considerato o scambiato per un genio, o “un nomade del pensiero”, come ha detto il presidente pentastellato della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra nella presunzione di parlarne bene.

          Il senatore a cinque stelle, pure lui, Gian Luigi Paragone, con passato leghista mai rinnegato, si è in qualche modo rimesso nella “Gabbia” di una sua vecchia e fortunata trasmissione televisiva Paragone contro Grillo.jpgper gridare a Grillo direttamente dalla prima pagina di un giornale romano: “Sì, caro Beppe, rompo i coglioni”. E per chiedergli, come un Gianfranco Fini qualsiasi con Berlusconi ai tempi del Pdl: “E adesso che fai? Mi cacci”. Fini fu praticamente cacciato, per quanto fosse allora presidente della Camera. E non se ne hanno più notizie, se non giudiziarie, come accade di sovente in politica dalle nostre parti.  

 

 

 

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Ridiamo a Mario Scelba, per favore, tutto quello che gli spetta

Fra i primissimi articoli scritti all’insegna di un orgoglioso e meritato “ritorno in Solferino” quel salutare bastian contrario della sinistra che è Giampaolo Pansa ha voluto dedicarne uno al democristiano che forse fu il più odiato dai comunisti e dai loro alleati -più  dello stesso Alcide De Gasperi, il vincitore delle storiche elezioni del 18 aprile 1948- per il polso col quale volle e seppe fare il ministro dell’Interno. Pansa invece gli ha giustamente espresso “gratitudine” proprio per questo,  riconoscendo che a causa dello stato in cui erano ridotti i “corpi di sicurezza italiani” nel dopoguerra sarebbe stato facile al Pci di Palmiro Togliatti realizzare una “rivoluzione”, se lo avesse voluto davvero sfidando anche Stalin. Che difendeva da Mosca la spartizione dell’Europa concordata con gli altri vincitori del conflitto scatenato dai nazisti, cui si erano accodati i fascisti.

Peccato che Pansa, Giampa per gli amici come me, si sia sostanzialmente limitato a riconoscere a Scelba solo quel merito, comprensivo del ricorso ai “celerini” scambiati spesso a sinistra per barbari scatenati dal Viminale contro inermi dimostranti. Scelba fu un patriota, e non il reazionario dipinto dai suoi avversari, anche per scelte successive a quegli anni terribili e per la pazienza con la quale seppe sopportare le provocazioni tentate contro di lui, persino con dossieraggi segreti sulla sua famiglia, quando contrastò l’apertura della Dc a sinistra, particolarmente nei riguardi del Psi di Pietro Nenni. Era il superamento di quel centrismo che gli era capitato di guidare anche come presidente del Consiglio, sostanzialmente rimosso nel 1955 da Giovanni Gronchi appena approdato al Quirinale.

Per dimostrarvi la civilissima opposizione di Scelba a quella svolta, a capo di una corrente che fu chiamata “Centrismo popolare”, ricordo un particolare riferitomi dal fedele Oscar Luigi Scalfaro. Dopo avere presieduto una lunga e complicata riunione della direzione sulla preparazione del centrosinistra, il segretario del partito Aldo Moro propose e fece approvare un documento “con le consuete riserve” -disse- dell’onorevole Scelba. Il quale però reagì dicendo che per le cautele di quel documento egli non aveva riserve da esprimere. “Ma è utile che vi siano”, gli replicò Moro pensando alle esigenze tattiche delle trattative con i socialisti. E Scelba sorridendo consentì.

Realizzato finalmente nell’autunno del 1963 sotto la propria guida il primo governo “organico” di centrosinistra, con la partecipazione diretta dei socialisti, Moro dovette dimettersi già nell’estate dell’anno successivo per un incidente parlamentare sul finanziamento alla scuola materna privata. Che, bocciato dai socialisti, alcuni settori della Dc tentarono di cavalcare per interrompere l’esperienza di governo col Psi e tornare alle elezioni con un governo centrista. Essi trovarono una certa sponda al Quirinale, dove peraltro Antonio Segni era stato eletto nel 1962 come contrappeso politico preventivo al centrosinistra in gestazione.

Lo stesso Scelba, prima di morire a novant’anni nel 1991, ha raccontato in un suo libro di memorie la proposta ricevuta da Segni nell’estate del 1964 di fare quel governo elettorale di centro. Che egli contestò esprimendo la preoccupazione che, data la breve durata dell’esperimento di governo avviato da Moro,  si aprisse una stagione politica di altissima tensione anche nelle piazze.

Alla garanzia del controllo della situazione dell’ordine pubblico fornitagli da Segni parlando delle assicurazioni ricevute in questo senso dal Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri De Lorenzo.jpge già capo del servizio segreto Giovanni De Lorenzo, di una cui udienza al Quirinale fu data peraltro notizia ufficiale, Segni oppose un rifiuto ancora più forte e convinto. E la crisi di governo prese tutt’altra piega, con la ricomposizione del centrosinistra da parte di Moro fra i “rumori di sciabole” avvertiti nei propri diari da Pietro Nenni. Essi contribuirono a diffondere la sensazione, mai provata, anche con verifiche giudiziarie, di un colpo di Stato predisposto allora con un piano chiamato “Solo”.

Fu dopo quella crisi, per volontà dello stesso Moro e quasi come riconoscimento della lealtà del suo amico di partito, che Mario Scelba divenne presidente del Consiglio Nazionale della Dc, rimanendovi sino al 1973, anche dopo avere assunto nel 1969 la Presidenza del Parlamento Europeo a elezione non ancora diretta. Questo era Scelba, non a caso il pupillo, come ha ricordato lo stesso Pansa, del più celebre concittadino  don Luigi Sturzo. Di cui era stato allievo e fidato segretario.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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