Costretto non tanto dall’opposizione dell’ex alleato Matteo Salvini, peraltro minacciato di querela per calunnia nel legittimo esercizio del suo mandato parlamentare tutelato dall’articolo 68 della Costituzione, ma dal ripensamento e dal dissenso del tuttora alleato Luigi Di Maio a riferire lunedì alla Camera sull’affare del Mes, o fondo europeo salva-Stati, il presidente del Consiglio si nuove ormai fra troppe trappole per non rischiare un’altra crisi di governo in quest’anno da lui imprudentemente annunciato alla vigilia come “bellissimo”.
“La corda troppo tesa prima o poi si spezza”, si è lasciato scappare in uno sfogo raccolto dal Corriere della Sera il capo della delegazione del Pd al governo Dario Franceschini. Che fra tutti i suoi colleghi di partito era stato il primo nella scorsa primavera, precedendo la svolta improvvisa di Matteo Renzi, ad aprire ai grillini mentre maturava la rottura della loro alleanza con i leghisti. Ed era stato anche il primo, una volta aperta la trattativa con i pentastellati, a scavalcare Renzi e lo stesso segretario del Pd Nicola Zingaretti prospettando per la nuova maggioranza giallorossa l’estensione a livello regionale e la durata sino alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 2023.
“L’incasso del risanamento lo farà il Salvini 1”, è stato attribuito sempre a Franceschini, e sempre
dal Corriere della Sera”, facendogli immaginare -con le tensioni e le trappole crescenti di
questi giorni, e al netto dell’ottimismo sull’esito della manovra finanziaria compiuta dal governo in carica- elezioni anticipate vinte dal centrodestra a trazione leghista e l’insediamento dell’ex ministro dell’Interno a Palazzo Chigi.
La trappola successiva al controverso Mes, o fondo europeo salva-Stati, il cui decollo potrebbe slittare a febbraio dal preannunciato mese di dicembre per la firma a Bruxelles o dintorni, è la non meno controversa disciplina della prescrizione destinata a scattare il 1° gennaio prossimo. E ciò per una norma inserita come una supposta dall’allora maggioranza gialloverde nella cosiddetta legge “spazzacorrotti”, e promulgata a gennaio di quest’anno dal presidente della Repubblica dopo qualche settimana di riflessione, nonostante le proteste levatesi anche dal Consiglio Superiore della Magistratura contro la possibilità di abolire la prescrizione, appunto, al pronunciamento della sentenza di primo grado senza un preventivo o contemporaneo meccanismo di garanzia della “ragionevole durata” dei processi. Che è imposta dall’articolo
111 della Costituzione. Per questo meccanismo il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede si era impegnato con i leghisti, guidati nella trattativa dall’allora ministra e avvocata Giulia Bongiorno, ma esso non è sopraggiunto, neppure adesso che l’hanno reclamato con forza nella nuova maggioranza il Pd e il nuovo partito di Matteo Renzi.
Su questo contenzioso esploso nel governo e, più in generale, nel Parlamento, dove una parte della maggioranza potrebbe votare con l’opposizione di centrodestra per ripristinare la vecchia disciplina della prescrizione portante il nome dell’ex guardasigilli del Pd Andrea Orlando, è tanto clamorosa quanto imbarazzante per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte la posizione assunta dal suo vecchio maestro, amico, professore e avvocato Guido Alpa, ex presidente peraltro del Consiglio Nazionale Forense.
In particolare, mentre Conte si è schierato con Bonafede e i grillini per non toccare la nuova e sostanzialmente soppressiva disciplina della prescrizione al compimento del primo grado di giudizio, essendone secondo lui gli effetti abbastanza differiti per accelerare in un secondo momento
i processi ed evitare l’orribile prospettiva degli imputati a vita, il professore Alpa ha detto che questo non si può fare. E lo ha detto nei giorni scorsi parlando con i giornalisti a Montecitorio, dove si era recato per una cerimonia. “Non sono d’accordo -ha spiegato il giurista- perché siamo un paese in cui i processi sono
troppo lunghi”. “La nuova disciplina”, sempre della prescrizione, “va abbinata a quella che abbrevia i processi”, ha insistito Alpa. Che ha ripetuto ai cronisti, forse dubbiosi perché memori della diversa posizione assunta dal suo amico ed ex discepolo Conte e interessati quindi a capire bene i tempi dell’operazione: “Sì, devono andare insieme”. Che figuraccia per l’ex allievo, verrebbe da dire.
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le appartengono si può cadere nella tentazione, condivisa sia dal presidente del Consiglio sia dal capo dell’opposizione, in ordine d’importanza istituzionale, di portare in tribunale la vertenza politica esplosa anche all’interno della maggioranza giallorossa, e non solo fra questa e il centrodestra, sul cosiddetto fondo europeo salva-Stati o revisione del Mes, acronimo del Meccanismo europeo di stabilità. Alla cui adesione corrisponderebbe, secondo il leader leghista Matteo Salvini, un alto tradimento della Costituzione da parte del presidente del Consiglio. Che potrebbe risponderne appunto nelle aule giudiziarie con le procedure del cosiddetto e ordinario tribunale dei ministri, visto che dal 1989, per fortuna, i giudici speciali del Palazzo della Consulta possono processare per questo tipo di reato solo il capo dello Stato.
probabilmente a questa garanzia che deve avere pensato Salvini quando, intervistato dalla Stampa, ha reagito all’annuncio o alla minaccia di Conte invitandolo sarcasticamente a mettersi “in fila dopo Carola”, la giovane tedesca da lui liquidata come “una zecca” quando lo sfidava come ministro dell’Interno, speronava una motovedetta della Guardia di Finanza e sbarcava in Italia migranti raccolti al comando di una nave del cosiddetto volontariato battente bandiera straniera. E meno male che Salvini si è fermato a Carola e non ha aggiunto alla fila la denunciante Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano purtroppo morto non per la droga di cui faceva uso ma per le percosse subite in una caserma, dove egli aveva tutto il diritto di essere protetto e sorvegliato, non ridotto in fin di vita.
leader socialista ad allestire una camera nella sua villa tunisina di Hammamet per Matteo Renzi. Il quale si sarebbe meritata la beffarda ospitalità, nonostante il rifiuto opposto da sindaco di Firenze a intestare una strada della città del giglio allo scomparso leader socialista definendone la memoria “diseducativa”, perché ne ha imitato o ripetuto le reazioni ai magistrati impegnati a indagare sui finanziamenti della sua attività politica.
promossasi a infame corte popolare di giustizia, risentita per gli ostacoli ai processi nei tribunali ancora derivanti dalle garanzie costituzionali dei parlamentari, impedirono a Craxi di perseguire i suoi disegni politici: disegni, ripeto, legittimi essendo egli stato eletto in libere votazioni, e non imposto di certo con la forza a nessuno da qualche generale o armata d’invasione.
assimilati ai Gavio, per i crolli autostradali a Genova e Savona, un’intervista al sociologo Massimo De Felice sulla cittadinanza digitale, un ritorno dell’ex ministro delle Infrastrutture Toninelli sul crollo del Ponte Morandi dell’anno scorso, una polemicuzza contro il governatore ligure Giovanni Toti per i viadotti crollati nella sua regione e la difesa che farebbe dei responsabili, infine la richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sul finanziamento dei partiti dopo le retate, e simili, dell’incbiesta giudiziaria sulle sovvenzioni dirette e indirette a Matteo Renzi quando ancora faceva parte del Pd, ne scalava la segreteria e cercava di conservarla, o riconquistarla, secondo i punti di vista.
dalla morte in terra accogliente ma straniera, dove si rifugiò per non subire in Italia un carcere che riteneva di non meritare essendone peraltro stato, dopo Alcide De Gasperi, uno dei migliori presidenti del Consiglio, dovrei essere umanamente e politicamente tentato dal compiacimento, o qualcosa di simile, per la caccia giudiziaria scatenatasi, col solito supporto
mediatico, contro Matteo Renzi. Che con la memoria di Craxi, pur avendone in qualche modo raccolto i tentativi di ammodernare la sinistra e il sistema istituzionale del Paese, è stato ingiusto e sgradevole definendola “diseducativa”, per non dire altro. Invece non ho nè la tentazione né il proposito del contrappasso, vedendo nelle vicende giudiziarie dei due uomini politici, e nel trattamento giornalistico, contesti o coincidenze temporali e politiche a dir poco curiose, se non inquietanti.
battaglia contro il comunismo, che lo aveva sempre voluto o subalterno o in galera. Craxi inoltre, nell’alternanza che regolava nell’epoca del cosiddetto pentapartito i rapporti di alleanza con la Dc, in assenza anche dei numeri per un’alternativa di sinistra, si accingeva a tornare a Palazzo Chigi dopo i cinque anni di una legislatura in cui vi si erano succeduti i democristiani Giovanni Goria, Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti.
anni dopo la morte del leader socialista dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma quelle furono le circostanze in cui si svolse l’azione giudiziaria contro il mio amico. Di cui peraltro toccai con mano, andandolo a trovare più volte nella casa di Hammamet, la quasi ruggine dei rubinetti che dovevano essere d’oro nella rappresentazione degli avversari. Nè trovai traccia -vi giuro- della fontana del Castello Sforzesco di Milano che, sempre per i suoi nemici, vi sarebbe stata trasportata negli anni del potere. Vidi invece con i miei occhi le piaghe da diabete sui piedi di Bettino, che l’allora sostituto procuratore della Repubblica Antonio Di Pietro in un’aula del tribunale di Milano aveva liquidato come “foruncoloni” contestando i certificati medici.
dopo essere uscito dal Pd ed essersi messo in proprio con un partito chiamato Italia Viva. Egli inoltre partecipa all’attuale maggioranza di governo, peraltro da lui stesso promossa quando stava ancora nel Pd, con una certa autonomia e obiettiva confusione, diciamo cosi, non gradite ad altre componenti della coalizione giallorossa. Che tuttavia, quanto a confusione di propositi e di azioni, come sta dimostrando il cammino parlamentare della legge di bilancio, manovra finanziaria e quant’altro, per non parlare dei problemi internazionali, industriali e idreogeolici, fanno al partitino di Renzi una certa concorrenza, a dir poco.
gruppi parlamentari, a Palazzo Madama e a Montecitorio, in assenza di elezioni anticipate alle quali lui stesso è fra i più contrari con diverse motivazioni, coinvolgenti persino la scelta del nuovo capo dello Stato nel 2022, l’anno prima della scadenza ordinaria della legislatura.
quant’altro da un orecchio gli entrano e dall’altro gli escono senza fermarsi un istante in qualche angolino del cervello. Egli continua a tenersi frequentemente lontano
dalla Farnesina, come ha appena denunciato su Repubblica Stefano Folli anche per contestare al Pd, per non parlare del presidente del Consiglio, la tolleranza verso la sostanziale mancanza, secondo lui, di un ministro degli Esteri italiano. Se ne tiene lontano, Di Maio, per correre ovunque ritenga necessario, pur tra piogge, frane e crolli, esercitare e difendere il suo ruolo di capo effettivo del partito.
i militanti pentastellati che non hanno alcuna voglia di seguire le indicazioni implicite di Grillo ed esplicite del Fatto Quotidiano a non partecipare da soli alle elezioni regionali del 26 gennaio -visto che la partecipazione è stata autorizzata, o imposta, a stragrande maggioranza dal recente referendum digitale- ma a cercare accordi col Pd per non compromettere le sorti del governo nazionale giallorosso, seguìto solo di recente a quello gialloverde.
quant’altro a livello locale che non siano di natura “civica”, com’è avvenuto in Umbria. Dove il Pd, alquanto malmesso per i guai giudiziari degli amministratori uscenti, ha cercato e trovato con i grillini per la presidenza della Regione un candidato cosiddetto civico: il presidente degli albergatori locali clamorosamente sconfitto poi dal centrodestra a trazione leghista, peraltro con risultati che hanno danneggiato, all’opposizione, più il Movimento 5 Stelle, riducendolo ad una sola cifra, che il partito di Nicola Zingaretti.
una parte dei pentastellati locali ha avuto modo e occasione di condividere visioni e iniziative, non ha nessuna intenzione di ripetere la fallita esperienza umbra di nascondersi praticamente dietro un candidato civico. E se anche a causa della concorrenza pur solitaria dei pentastellati, destinati secondo Di Maio a togliere voti solo ai leghisti, il Pd dovesse perdere a fine gennaio l’Emilia Romagna, avrebbe ben poco da consolarsi l’olimpico e umanista presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’appartamento e relativo bagno in ristrutturazione a Palazzo Chigi.
per gridare a Grillo direttamente dalla prima pagina di un giornale romano: “Sì, caro Beppe, rompo i coglioni”. E per chiedergli, come un Gianfranco Fini qualsiasi con Berlusconi ai tempi del Pdl: “E adesso che fai? Mi cacci”. Fini fu praticamente cacciato, per quanto fosse allora presidente della Camera. E non se ne hanno più notizie, se non giudiziarie, come accade di sovente in politica dalle nostre parti.
e già capo del servizio segreto Giovanni De Lorenzo, di una cui udienza al Quirinale fu data peraltro notizia ufficiale, Segni oppose un rifiuto ancora più forte e convinto. E la crisi di governo prese tutt’altra piega, con la ricomposizione del centrosinistra da parte di Moro fra i “rumori di sciabole” avvertiti nei propri diari da Pietro Nenni. Essi contribuirono a diffondere la sensazione, mai provata, anche con verifiche giudiziarie, di un colpo di Stato predisposto allora con un piano chiamato “Solo”.
del cosiddetto G20, il ministro degli Esteri e capo ancòra del suo Movimento, Luigi Di Maio, ha annunciato o sentenziato: “Questi concessionari che non mantengono ponti e strade non devono avere più le concessioni”. Lo ha annunciato anche se il ministro competente delle Infrastrutture non è più adesso, col passaggio dal primo al secondo governo di Giuseppe Conte, un uomo del suo movimento politico ma una donna del Pd. E anche se i processi per le responsabilità si debbono fare nei tribunali, secondo le regole del nostro pur malmesso ordinamento giudiziario, e non sulle piazze fisiche e metaforiche.
un elenco aggiornatissimo delle “targhe”, come le chiamano in redazione, delle autostrade italiane. In mancanza di uno spazio maggiore a causa delle particolarità tecniche, diciamo così, dell’edizione in gran parte preconfezionata del lunedì per contenerne i costi, Il Fatto Quotidiano ha rafforzato il titolo e il concetto del titolo di apertura con “La cattiveria”. Che, sempre in prima pagina, è la rubrica corrosiva del giorno.
in pari con Atlantia”, cioè con i Benetton. I quali possono almeno consolarsi per essere stati citati in modo, diciamo così, indiretto, meno esplicito, comprensibile solo per gli specialisti. Che discrezione. Che sensibilità. Viene quasi da commuoversi pensando al titolo brutale della rubrica: una cattiveria questa volta misurata, almeno per i Benetton.
nel solito albergo davanti ai resti dei Fori imperiali per uno spettacolo davvero esilarante di aggiramento politico. Tra foto, pranzo e un quasi monologo web col suo ospite che sembrava, a torto o a ragione, ridotto ad una comparsa sorridente e compiaciuta, Grillo ha graziato politicamente Di Maio, lo ha rimesso in sella al cavallo, ha detto ai suoi avversari interni, dichiarati o occulti, di non rompere letteralmente “i coglioni”, ne ha riconosciuto la insostituibilità e gli ha promesso -o minacciato, secondo gusti e impressioni- di stargli da ora in poi “più vicino”.
e chiaro accordo di governo col Pd per tutto il resto della legislatura. Il che ha incoraggiato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ad annunciare un “avanti tutta” a Repubblica in una intervista quasi liberatoria, e almeno una parte della dirigenza del Pd a tirare un sospiro di sollievo.
i 5Stelle e forse salva il governo”. Ma già il giorno prima, non so se più per felice intuizione, o per vocazione di consigliere, comune del resto a tanti giornalisti, o per maggiori informazioni disponibili su casa Grillo, il direttore del giornale seguìto con particolare interesse sotto le cinque stelle aveva anticipato quel che ci si poteva e doveva aspettare dal fondatore ed “elevato” del Movimento. In particolare, ricordato che alla
presentazione delle liste pentastellate alle elezioni regionali emiliane e calabresi mancano 50 giorni ed esse “non si decidono a Roma nelle segrete stanze” di Di Maio e amici, Marco Travaglio aveva scritto testualmente: “Grillo ha la verve, la fantasia, l’energia e il seguito per organizzare due assemblee aperte a Bologna e a Reggio Calabria coi grillini locali e le forze politiche emergenti” e a “prendere l’ultimo treno” disponibile per realizzare attorno alle candidature imposte dal referendum digitale le condizioni, il clima e quant’altro adatto ad un’intesa col Pd del posto che scongiuri il rischio di una vittoria del centrodestra guidato dal temutissimo Salvini.