Pignatone lascia la Procura di Roma lamentando l’uso politico della giustizia

            In una provvidenziale o diabolica coincidenza, secondo i gusti, fra il suo commiato dalla Procura di Roma, dopo 7 anni di guida e 45 di carriera, e la riunione del Consiglio dei Ministri di mercoledì, annunciata per rimuovere il sottosegretario leghista Armando Siri sotto indagine nei suoi uffici Corriere.jpgper corruzione, Giuseppe Pignatone ha voluto far sentire alta e forte la propria voce, affidata al Corriere della Sera, contro l’uso politico della giustizia. Cioè, contro l’abitudine dei politici di usare le indagini contro gli avversari senza aspettarne le conclusioni, cioè l’archiviazione o il rinvio a giudizio. E, in quest’ultimo caso, anche se Pignatone non si è spinto a tanto, in verità, senza aspettare una sentenza definitiva di condanna per ritenere colpevole l’imputato.

            I politici purtroppo -ha detto il capo uscente della Procura di Roma, che si onora di praticare Pignatone dice.jpg“la prudenza” nel senso cristiano indicato da Papa Francesco, “non per stare fermo ma per portare avanti le cose”- sfuggono correntemente alle loro responsabilità scaricando sui magistrati i problemi “etici” che non riescono a risolvere né a prevenire.

               Va ricordato che proprio fra gli inquirenti di Roma il cronista giudiziario del quotidiano La Verità ha raccolto recentemente la sorpresa, e smentita, per la diffusione virgolettata di una intercettazione sui 30 mila euro promessi o versati a Siri per proposte emendative di leggi a favore di un certo tipo di aziende eoliche in cui potesse rientrarne una posseduta dall’amico Paolo Arata in società con un detenuto sotto processo per mafia, sospettato di connivenza col capo latitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro.

            Può darsi che sia tentato ora di appellarsi anche a Pignatone il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, contrario sino al momento in cui scrivo alle dimissioni e tanto più alla rimozione di Siri, neppure interrogato ancora dagli inquirenti e tanto meno rinviato a giudizio: un Salvini sfidato invece dal suo omologo grillino Luigi Di Maio a tirare fuori “le palle” contro il proprio collega di partito  e sbottato pubblicamente in un “ultimo avviso” agli scomodi alleati di governo a smetterla di trattarlo come un avversario. Sennò “il capitano” -par di capire- potrebbe cambiare registro e lasciarsi tentare davvero, come gli hanno attribuito sinora solo i soliti retroscena, dall’idea della crisi di governo subito dopo, o anche prima, delle elezioni europee e amministrative di fine mese. E dareGiorgetti.jpg magari ragione all’amico e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che secondo La Stampa rimpiange l’occasione mancata dalla Lega di far cadere il governo qualche mese fa, all’apice dello scontro sulla questione della Tav: la realizzazione del progetto controverso ma concordato con la Francia per il trasporto ferroviario ad alta velocità delle merci da Lione a Torino e viceversa.

            All’”ultimo avviso” lanciato da Salvini il vice presidente grillino del Consiglio Di Maio, ospite di Massimo Giletti in quella curiosa arena televisiva che è e non è su La 7, ha reagito rinfacciando al “capitano” del Carroccio tutte le richieste di dimissioni avanzate dai banchi dell’opposizione contro i ministri e i sottosegretari di turno indagati, e qualche volta neppure raggiunti da avvisi di garanzia. L’argomento- bisogna riconoscerlo- c’è tutto in una polemica fra persone e partiti dai trascorsi e/o dal presente lamentati, o denunciati, dal capo uscente della Procura di Roma. Ma va anche detto, dalle posizioni garantiste  imposte dalla Costituzione col principio della non colpevolezza, che il giustizialismo non cessa di diventare discutibile quando è praticato con coerenza.

            Intanto il già quasi sottosegretario leghista è finito sotto un’altra inchiesta mediatica, prima che ne risulti avviata una nei competenti uffici antiriciclaggio della Banca d’Italia, per un’operazione immobiliare di fine gennaio segnalata dallo stesso notaio che l’ha tradotta in un contratto d’acquisto di una palazzina a Bresso, in provincia di Milano, intestata alla figlia di Siri e comprensiva di sette appartamenti, un laboratorio e cantine.

          L’acquisto è stato fatto per l’ammontare complessivo  di 585 mila euro con un mutuo bancario di San Marino e con la mediazione di un ex candidato sindaco di Bresso, amico e simpatizzante politico di Siri, nonché padre del capo della sua segreteria ed esponente qualificato della Lega. Il che è bastato e avanzato perché Salvini riprendesse le difese del sottosegretario di fronte al caso sollevato dalla trasmissione televisiva Report, di Rai 3, e rilanciato dal Fatto Quotidiano Fatto su Siri.jpgin prima pagina come un altro buco nero, a dir poco, tanto più inquietante dopo la condanna pattuita nel 2014 da Siri per bancarotta fraudolenta e già contestata, sia pure a scoppio ritardato dai grillini, compreso Di Maio. Che, sempre da Giletti, ha spiegato il consenso ugualmente espresso l’anno scorso alla nomina di Siri a sottosegretario, per non parlare della sua candidatura a ministro dell’Economia nelle trattative per la formazione del governo gialloverde, sostenendo che quel reato fu commesso quando  l’autore non era al governo.

 

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

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