Salvini viola la Costituzione auspicando che Battisti “marcisca” in galera

            Diavolo di un uomo, Matteo Salvini riesce a farsi male da solo. Quella frase –“Dovrà marcire in galera fino all’ultimo giorno”- gridata, col solito giubbotto della Polizia addosso, contro Cesare Battisti appena sbarcato dall’aereo che lo riportava in Italia dalla Bolivia per scontare i due ergastoli art. 27 .jpgcomminatigli dai tribunali per quattro omicidi, ne ha distrutto di un colpo la credibilità istituzionale di ministro della Repubblica. Che ha giurato al Quirinale davanti al capo dello Stato, firmandone poi il verbale, di “osservare lealmente la Costituzione”. Eppure essa dice all’articolo 27, fra l’altro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

           Non possono chiaramente stare insieme queste parole della Costituzione e quelle che il ministro dell’Interno, nonché vice presidente del Consiglio, ha pronunciato sul pur ergastolano, ormai, Battisti chiuso giustamente nel carcere di Oristano.

          Salvini ha compiuto un attentato, fortunatamente solo verbale sinora, alla Costituzione italiana. E per fortuna, non tanto di Battisti quanto della stessa Costituzione, egli è soltanto -si fa per dire- ministro dell’Interno e non anche della Giustizia, che è chiamato ad occuparsi delle carceri più di lui. E avrebbe fatto bene il guardasigilli Alfonso Bonafede a tirargli il giubbotto, e forse anche qualche altra cosa, sentendolo parlare in quel modo all’aeroporto di Ciampino. Dove entrambi si erano recati per accogliere festosamente quanto meno gli uomini che avevano catturato o contribuito alla cattura del latitante.

           Nonostante i reati per i quali è stato condannato e quella odiosa spavalderia con la quale ha goduto per quasi quarant’anni della troppo generosa e avventata ospitalità altrui, Battisti è un imputato da “rieducare”, come prescrive appunto la Costituzione, e non da lasciar “marcire” in galera. Battisti.jpgQuesto, pur in un Paese ormai sgangherato culturalmente e politicamente come il nostro, può sfuggire all’ultimo manettaro incontrato per strada, e che magari avrebbe preferito la pena di morte all’ergastolo per Battisti, ma non a un ministro dell’Interno fra le cui aspirazioni c’è anche quella di guidare un giorno il governo. E spero che gli basti il governo.

           Solo Salvini, con la sua irruenza, poteva fare il miracolo di un’autorete del genere. Che è in fondo quella, contestatagli da Francesco Merlo su Repubblica, di essersi messo in qualche modo alla pari con Battisti. “Sono solidali -ha commentato l’editorialista- di ghigno e di gugno. Cesare Battisti che si atteggia a vittima e Matteo Salvini che si atteggia a boia. Solo loro due sono convinti -poveracci- che sia stata arrestata la sinistra”.

           Già, la sinistra. Salvini ci ha messo anche questo nell’auspicare che il detenuto ora marcisca in galera, pagando così anche il fatto di essersi arruolato fra i comunisti, pure i non “combattenti”, è parso Merlo.jpgdi capire, dopo avere scoperto quelli in arme fra altre sbarre, quando era solo un criminale comune. Eppure, a parte il contributo obbiettivo e anche di sangue – ricordo Guido Rossa a Genova nel 1979- che va riconosciuto ai comunisti nella lotta al terrorismo in Italia, senza lasciarsi condizionare dal famoso “album di famiglia” onestamente ammesso da Rossana Rossanda sul manifesto, mi sembrava di aver letto da qualche parte che a Salvini da giovane la sinistra non dispiacesse.

 

 

 

 

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Che cosa Caselli dimentica quando tratta ancora Andreotti da imputato

Per quanto messa ampiamente nel conto, si è rivelata superiore al previsto l’insofferenza di Giancarlo Caselli per le celebrazioni mediatiche ed anche istituzionali – com’è avvenuto ieri alla Biblioteca Giovanni Spadolini al Senato- del centenario della nascita del suo ex ed ormai defunto imputato eccellente di mafia Giulio Andreotti.

Già intervenuto con largo anticipo lunedì 7 gennaio sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, dov’è di casa, con un duro articolo di monito a non “stravolgere la verità” e “truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunciano le sentenze”, Caselli ha voluto scrivere una lettera al Corriere della Sera -che l’ha pubblicata sabato 12 gennaio- per contestare la rappresentazione quanto meno scettica, fatta su quel giornale da Antonio Polito, di un Andreotti assolto per modo di dire. In particolare, assolto dall’accusa formulata proprio da Caselli, quand’era capo della Procura di Palermo, di concorso esterno in associazione mafiosa ma prescritto per i fatti, pur accertati secondo lo stesso Caselli fino alla primavera del 1980, di associazione a delinquere. Che era il reato contestabile appunto sino a 39 anni fa, prima che nel codice penale entrasse quello specifico di associazione mafiosa.

A Polito, come più in generale aveva fatto sul giornale di Travaglio prevenendo quanti si accingevano ad occuparsi della lunga vicenda processuale di Andreotti, durata ben undici anni, Caselli è tornato a rileggere, diciamo cosi, testo alla mano, la sentenza d’appello in cui all’ex presidente del Consiglio sarebbero stati fatti barba e capelli per i suoi rapporti con esponenti neppure secondari della mafia.

In particolare, l’ex magistrato ora in pensione ha indicato come emblematici “due incontri” di Andreotti, presenti il suo luogotenente in Sicilia Salvo Lima, Vito Ciancimino e i cugini Salvo, col “capo dei capi” di mafia Stefano Bontate per discutere anche dell’assassinio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, suo collega di partito e fratello dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio: assassinio compiuto la mattina della Befana proprio del 1980. Di cui è stato quindi celebrato in questi giorni il trentanovesimo anniversario, con una intensità però mediatica e politica  che ha dato a qualcuno, a torto o a ragione, il pretesto per contrapporlo in qualche modo alla ricorrenza del centenario della nascita di Andreotti.

A quest’ultimo proprio Caselli, sempre riferendosi alla sentenza d’appello, e di revisione di quella pienamente assolutoria di primo grado, emessa a Palermo nel processo da lui promosso, è tornato a rimproverare di non avere usato le informazioni probabilmente ricevute da Bontate, morto l’anno dopo, per aiutare la magistratura a fare piena luce sull’assassinio di Piersanti Mattarella. Che “aveva pagato con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa Nostra”, ha ricordato in modo questa volta davvero pertinente l’ex magistrato anche nel primo intervento sul Fatto Quotidiano.

Implacabile nella sua reazione al pur “interessante” articolo dell’editorialista e vice direttore del Corriere della Sera, Caselli ha citato la sentenza d’appello del 2003 per incidere anche sulle colonne del più diffuso giornale italiano che Andreotti “con la sua condotta ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione col sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo, manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”.

Il buon Polito ha proposto un po’ ironicamente in un brevissimo corsivo di replica a Caselli una soluzione di “compromesso” alla disputa sulla conclusione del processo di mafia al 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro: “non condannato”. Cioè, non assolto e neppure condannato.

Ignoro, almeno sino ad ora, la reazione di Caselli al “lodo” Polito.  Nel mio piccolo, molto piccolo per carità, memore anche di un’analoga polemica avuta con Caselli nel 2008 sulle colonne del Tempo, preferisco seguire il percorso suggerito in questi giorni su facebook da un figlio di Andreotti, Stefano. Che ha riproposto all’attenzione del pubblico navigante la lettera scritta proprio al Tempo in quell’occasione dagli avvocati dell’ex imputato eccellente, allora peraltro ancora in vita. Dal quale ho motivo di ritenere che fosse venuta l’idea di quella missiva per non intervenire direttamente lui nella polemica, come io invece gli avevo chiesto ottenendo una risposta interlocutoria.

Gli avvocati Giulia Bongiorno e Franco Coppi, nell’ordine in cui firmarono la lettera, non credo solo per ragioni di cavalleria da parte del professore e titolare dello studio legale, visto il particolare impegno messo nella difesa dell’ex presidente del Consiglio dall’attuale ministra della funzione pubblica, contestarono a Caselli di  fermarsi sempre, nei suoi interventi critici sul loro assistito, alla sentenza d’appello. E di limitarsi ad accennare al terzo e definitivo verdetto, quello della Cassazione emesso alla fine dell’anno successivo, come ad una pura e semplice ratifica dell’altro.

Invece nella sentenza della Cassazione si trova ciò che Caselli, secondo Stefano Andreotti, cerca sempre di tenere per sé, sapendo forse che chi lo legge sui giornali, o lo sente alla radio o in televisione, difficilmente ha poi la voglia e il tempo di controllare scrupolosamente gli atti. Si legge, in particolare, nelle carte della suprema Corte che  da parte dei giudici di appello in ordine ai fatti prescritti “la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi è stata effettuata in base ad apprezzamenti e interpretazioni che possono anche non essere condivise”.

Ancora più in particolare, nella sentenza davvero definitiva di un processo -non dimentichiamolo-  alla cui “autorizzazione” lo stesso imputato contribuì votando palesemente a favore nell’aula del Senato, e quindi rinunciando per la parte che lo interessava all’immunità Andreottijpg.jpgancora spettantegli in quel momento come parlamentare,  è scritto che agli apprezzamenti e alle interpretazioni dei giudici d’appello, sempre in ordine ai fatti coperti dalla prescrizione, “sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica”. Non mi sembrano, francamente, parole e concetti di poco conto, ignorabili o sorvolabili in una polemica così aspra come quella che l’ex capo della Procura della Repubblica di Palermo usa condurre ogni volta che ne ha l’occasione parlando o scrivendo della vicenda giudiziaria di Andreotti.

Caselli, si sa, avrebbe voluto che il senatore a vita, nonostante la lunghezza del procedimento cui era stato sottoposto, protrattosi -ripeto- per undici anni,  ben oltre forse la “ragionevole durata” richiesta dall’articolo 111 della Costituzione nel nuovo testo in vigore dal 1999, rinunciasse anche alla prescrizione. E ancora gli contesta praticamente, anche da morto, di non averlo fatto.

Una volta, andato a trovarlo a Palazzo Giustiniani in occasione di un compleanno, ne parlai con Andreotti, reduce da una fastidiosa influenza. Ma più che le sue parole, oggi facilmente confutabili dai suoi irriducibili avversari perché sarebbero postume, preferisco riferire quelle appena pronunciate dalla figlia Serena in una intervista ai tre giornali –Il Giorno, La Nazione e Il Resto del Carlino- del gruppo Riffeser: “Avremmo voluto batterci per ottenere una forma di completo scagionamento, di piena innocenza. L’abbiamo detto al babbo, ma lui e la mamma erano stanchi e hanno detto basta. Fermiamoci, va bene così, fu la risposta”. La mamma di Serena, Livia, dopo tante apprensioni e amarezze sarebbe stata peraltro dolorosamente colpita da una inguaribile malattia neurologica.  Non dico di più per dare un’idea di ciò che accadde in quei tempi ad Andreotti e alla sua famiglia, a dispetto della tranquillità olimpica, o quasi, che l’ex presidente del Consiglio ostentava in pubblico, e nelle aule processuali, o dintorni, che egli frequentava con lo scrupolo di sempre.

E’ impressionante, a quest’ultimo proposito, il racconto che in questi giorni ha fatto un amico giornalista dell’allora imputato di una serata trascorsa con lui in un albergo di Palermo, fra un’udienza processuale e l’altra. Andreotti trovava il tempo, e la voglia, di parlare degli anni giovanili in cui da sottosegretario di Alcide De Gasperi alla Presidenza del Consiglio si occupava anche di spettacolo e frequentava attori e attrici incorrendo una volta nelle proteste della moglie. Che si ingelosì davanti ad una foto che lo ritraeva sorridente a Venezia con Anna Magnani, allora legata a Roberto Rossellini. Che prima ancora di conoscere e di unirsi a Ingrid Bergman già faceva soffrire, diciamo così, la grande attrice romana.

Francamente, anche alla luce delle postille della Cassazione su cui Caselli di solito tace, non mi sembra giusto -e neppure umano, aggiungerei- trattare ancora Andreotti, a sei anni circa della morte,  come un imputato e partecipare ad una caccia contro di lui alla maniera un po’ dell’ispettore di polizia Javert con l’ex galeotto Jean Valjean nei Miserabili di Victor Hugo. E con questo, scusandomi in anticipo con Caselli se dovesse sentirsi ingiustamente colpito da questo richiamo letterario, davvero completo e chiudo la rievocazione di Andreotti cominciata martedì scorso 8 gennaio su queste pagine, in vista del centenario della sua nascita.

Che riposi davvero e finalmente in pace, avvolto nella bandiera pur metaforica dell’articolo 59 della Costituzione, applicatogli nella nomina a senatore a vita per avere “illustrato la Patria”, il protagonista di tantissimi anni della politica italiana. Cui qualcuno cerca ogni tanto di paragonare i davvero, e sotto tutti gli aspetti, lontanissimi attori di oggi, ora accomunandogli l’ex presidente del Consiglio, pure lui, Mario Monti per la sua ironia pungente, ora il presidente del Consiglio in carica Giuseppe Conte per le mediazioni con cui si sta cimentando, ora addirittura il giovanissimo vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio per la sua agilità di posizionamento. Ha fatto quest’ultimo paragone persino in un saggio il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana mettendo a dura prova la sedia alla quale ero appoggiato leggendolo.

 

 

 

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Volti e risvolti dell’affare Battisti nella complessa partita di governo

               Chi ha visto e sentito Matteo Salvini, nel salotto televisivo di Massimo Giletti, a la 7, parlare della cattura del criminale Cesare Battisti in Bolivia e del suo viaggio, finalmente, verso un carcere Schermata 2019-01-14 alle 15.02.36.jpgitaliano dove scontare i due ergastoli guadagnatisi per quattro omicidi commessi nei cosiddetti anni di piomboSalvini.jpg in Italia, avrà sicuramente notato quanto il ministro dell’Interno abbia evitato di assumersi tutti o i maggiori meriti dell’operazione. Lo ha evitato resistendo anche ai tentativi un po’ melliflui del conduttore di compiacere la sua vanità personale e politica, fra un sorriso e un’allusione, non foss’altro per ricambiargli il favore professionale ricevuto con quella nuova e puntuale presenza nella sua “non arena”. Che è  poi un nome destinato ad ampliarla, in riferimento alle precedenti e interrotte edizioni alla Rai.

              Il leader leghista un po’ non ha voluto fornire alle viscere, diciamo così, degli alleati grillini nuove Battista 2.jpgoccasioni di sofferenza per il ruolo preponderante che egli ha svolto concretamente e mediaticamente nel governo dal momento della sua formazione: una sofferenza che ogni tanto esplode con proteste o vere e proprie ritorsioni politiche. Fra le quali può essere annoverato anche l’intervento a gamba più o meno tesa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del vice presidente Luigi Di Maio, entrambi grillini appunto, nella vicenda dei 49 profughi rimasti per una ventina di giorni bloccati davanti all’isola di Malta, e alla fine accollatisi pure dall’Italia, mentre Salvini protestava da Varsavia. Dove peraltro egli  era in missione più di partito che di governo, non ben digerita -credo- dal ministro degli Esteri.

                Per un altro verso, forse anche prevalente, Salvini ha mostrato consapevolezza della natura oggettivamente complessa dell’operazione Battisti, sicuramente facilitata dai suoi rapporti personali e dalle affinità politiche col  nuovo presidente del Brasile Jair Bolsomaro, da cui praticamente il criminale italiano è fuggito in Bolivia per cercare di sottrarsi all’estradizione in arrivo, ma alla quale hanno partecipato per competenze e rapporti anche il presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri, il ministro della Giustizia e lo stesso presidente della Repubblica. Ad un certo punto è risultato all’Italia utile, più ancora del “regalo” annunciato  a Salvini dal figlio del nuovo presidente brasiliano, il sì del presidente boliviano Evo Morales alla partenza del catturato direttamente per l’Italia, senza ripassare per il Brasile, da cui era scappato. Ciò consente ora di inchiodare Battisti ai due ergastoli da scontare, ma estranei al sistema giudiziario brasiliano. Che contempla in casa, e autorizza per gli espatriati, una carcerazione non superiore ai 30 anni. Anche sotto questo aspetto il criminale ha compiuto un’autorete fuggendo in Bolivia,

            La questione potrà sembrare di poco conto a prima vista, a causa dei 64 anni che ha Battisti, ma ha Battisti 3 .jpgugualmente una sua rilevanza pratica, e non solo mediatica, ai fini del trattamento penitenziario di cui potrà beneficiare il terrorista per tanto tempo, e con tanta spavalderia, sottrattosi alla giustizia del suo Paese.

             Per quanto Salvini abbia cercato questa volta di gestire con misura il successo di un’operazione che comunque è passata anche per le sue competenze, e per le forze d’ordine e di sicurezza alle sue dipendenze, sarebbe ingenuo ritenere che a questo punto egli non cerchi di investireBattista 3 bis.jpg la maggiore forza conseguita col caso Battisti nelle sostanziali vertenze che ha con i grillini all’interno del governo. Dove “qualche lite c’è”, ha appena ammesso in una intervista il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, né grillino né leghista, pur cercando di delimitare i contrasti al tema dell’immigrazione e attribuendone la colpa alle carenze di solidarietà, chiarezza, determinazione e quant’altro dell’Unione Europea.

           In realtà, “qualche lite”, per restare al linguaggio del pur fine diplomatico, c’è nel governo anche sui temi, per esempio, delle norme attuative del cosiddetto reddito di cittadinanza e dell’accesso Battista 4.jpganticipato alla pensione, o di quelle nuove sulla legittima difesa, o della linea di alta velocità ferroviaria per le merci da Lione a Torino: la famosa Tav, preferita ormai dal dibattito pubblico nel genere femminile rispetto a quello maschile reclamato, forse con maggiore rigore tecnico, dagli specialisti del Ministero delle Infrastrutture, e del Fatto Quotidiano.

           Sul versante ferroviario, chiamiamolo così, si lavora dietro le quinte, e fra mal di pancia tanto grillini quanto leghisti, su un compromesso che potrebbe consistere in una versione più economica della Tav, con meno chilometri Battisti 5 .jpge stazioni, in grado di far ricalcolare in modo salvifico il rapporto fra costi e benefici  calcolato da una commissione di cui lo stesso ministro grillino delle Infrastrutture, notoriamente contrario all’opera, non ha sinora ritenuto opportuno ufficializzare il risultato.

            La ricerca di un compromesso, finalizzata a garantire l’esecuzione dell’opera senza lasciare sul campo né vincitori né vinti, è di per sé difficile per l’animosità  crescente che deriva dalle campagna elettorali ormai in corso per il rinnovo della rappresentanza italiana al Parlamento Europeo e di alcune amministrazioni regionali. Ma lo è anche per il ruolo che, una volta tanto, possono svolgere le opposizioni incalzando la maggioranza, sino a cercare di spaccarla, con iniziative parlamentari e referendarie.

           A quest’ultimo proposito, mentre grillini e leghisti discutono sulle dimensioni territoriali di un eventuale referendum, il governatore piddino Sergio Chiamparino, notoriamente pro-Tav, ha ricordato che lo statuto del Piemonte gli permette di organizzare e indire a breve un referendum nella sua regione, che è la più direttamente interessata all’opera. Potrebbero imitarlo i governatori di altre regioni del Nord come la Liguria, la Lombardia e il Veneto, dove i leghisti governano con gli alleati di centrodestra. La matassa, come si vede, è un po’ più complicata di quanto non mostri di ritenere l’ottimista vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio. Che punta in cuor suo sul rapporto personale con l’omologo leghista Salvini, polemico spesso con gli alleati ma anche contrario -come ha appena ribadito da Giletti- a liquidare il governo in carica.

 

 

 

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Finalmente catturato in Bolivia il criminale Cesare Battisti

            Questa volta non dovrebbe essere contestato neppure dai suoi avversari o critici il grido elettronico della “pacchia finita” gridato dal ministro dell’Interno Matteo Salvini all’annuncio della cattura, in Bolivia, di Cesare Battisti: un criminale odiosamente omonimo del grande irredentista italiano impiccato dagli austriaci a Trento il 12 luglio 1916, cui sono giustamente intestate tante strade, piazze e scuole d’Italia. Una delle cose più orribili che il delinquente appena catturato in sud America ci ha costretti per tanti anni a fare è proprio scriverne il suo nome, che addirittura sovrasta nelle ricerche via internet quello dell’eroe e martire dell’unità italiana.

          Troppo a lungo sfuggito alla giustizia e chiamato finalmente a espiare i due ergastoli guadagnatisi con quattro omicidi commessi in nome di un terrorismo che è riuscito in qualche modo persino a tradire, almeno di fronte a quanti su quel tragico versante hanno saputo assumersi le loro responsabilità, questo Battisti indegno del suo nome è stato per fortuna catturato col concorso italiano, di cui giustamente Salvini si è vantato, sul terreno della sua latitanza.

          Per il ministro dell’Interno, e leader leghista,  è una notizia -perché nasconderlo?- utile anche ai fini della sua posizione politica, alquanto scossa negli ultimi tempi dai tanti rospi che ha dovuto ingioiare nella collaborazione di governo con i grillini, sempre più insofferenti  nei suoi riguardi non tanto per i metodi di lavoro e d’azione, che non brillano neppure da parte degli esponenti del  movimento 5 stelle, quanto per i crescenti costi elettorali della loro alleanza col Carroccio, improvvisata dopo le elezioni del 4 marzo dell’anno scorso.

          Sono freschi di stampa i risultati dell’ultimo sondaggio di Antonio Noto, che danno la Lega al 34 per cento dei voti, dal 19 delle elezioni politiche del 2018, e i grillini al 23, dal 32  abbondante raccolto nelle urne dell’anno passato.  

Se trentamila in piazza a Torino contro i grillini vi sembrano pochi

           Maurizio Molinari, direttore dello storico giornale torinese La Stampa, ha avvertito e indicato “il risveglio del popolo del nord” -titolando così il suo breve e incisivo editoriale- nella Piazza Castello Il risveglio del Nord.jpgriempita spontaneamente, al richiamo di sole sette “madamine”, di trentamila manifestanti a favore della Tav: la linea ferroviaria di alta velocità per le merci progettata fra Lione e Torino, e notoriamente osteggiata dai grillini. Il cui arrivo al vertice dell’amministrazione comunale torinese non li ha evidentemente aiutati a mettersi in sintonia con la città, ma anche col resto del nord, su un tema che va ben oltre la Tav. O il Tav, come preferiscono chiamarlo nella redazione del protogrillino Fatto Quotidiano, dove peraltro si sono consolati fotograficamente ricordando che un’analoga manifestazione aveva raccolto Rolli.jpgnello stesso posto due mesi fa settantamila persone, ma dimenticando il diverso e più affrettato contesto dei due avvenimenti. In ogni caso, fare spallucce a trentamila manifestanti, tanto convinti delle loro idee da non avere bisogno di sfasciare vetrine o altro per cercare di imporle, è cosa di per sé esplicativa dei limiti della polemica del giornale di Marco Travaglio.

            Più che la Tav, o il Tav, è in gioco una concezione del Paese e della società in questa vicenda, non riconducibile alla visione ragionieristica -con molte scuse, per carità, ai ragionieri- del rapporto fra costi e benefici il manifesto.jpgdi un’opera. E’ in gioco la modernizzazione del nord e, più in generale, dell’Italia già minacciata dalla recessione. E’ in gioco la logica della “decrescita felice” che i grillini si sono sempre vantati di coltivare, preferendola ad una crescita a rischio di una concezione fideistica dell’onestà, che peraltro ogni tanto si scopre che essi violano a casa loro.

             La posta, civile e non solo economica, è così grossa che i leghisti questa volta si sono davvero impuntati, per cui la torre disegnata da Giannelli su Corriere della Sera sovrapponendo le figure del presidente del Consiglio e dei suoi due vice è più pendente del solito, anche se il vignettista fa dire a Giuseppe Conte che, come quella di Pisa, “mai viene giù”. Vedremo.

              Luigi Di Maio, il vice presidente grillino del Consiglio ora tallonato nel rapporto con Salvini non solo dal presidente della Camera Roberto Fico ma anche dal baldanzoso ex deputato Alessandro Di Battista, reduce dal suo giro in America del Sud, ha scommesso dalla Sardegna su un “compromesso”. Ma quando si gioca col “popolo” -parola magica per il movimento 5 stelle- se ne rimane alla fine prigionieri. E il referendum invocato dagli amministratori locali, perRolli.jpg il quale Salvini si è già prenotato a partecipare votando sì alla Tav, o al Tav, difficilmente potrà concludersi con un compromesso. Sarà un sì, probabilissimo, o un no improbabile. L’unico modo per scamparvi sarebbe quello di impedire la consultazione, appunto, del popolo: cosa che stranamente ha auspicato l’imprevedibile Matteo Renzi rivendicando la primazia del Parlamento per decisioni di questo tipo. Ci mancava, nel repertorio dell’ex segretario del Pd, solo questo: un Renzi d’accordo con i grillini, anche se al solo o prevalente scopo di vedere scoppiare l’attuale maggioranza spuria di governo non in piazza, com’è appunto avvenuto a Torino, dove i leghisti si sono uniti ai manifestanti, ma nel Parlamento, più in particolare -magari-  nell’aula del Senato, dove lui rappresenta la  “sua” Firenze appena raccontata in televisione.

             Il “risveglio del popolo del nord” evocato non a torto dal direttore della Stampa riporta un po’ alla memoria, con il vento del nord.jpgun paragone che potrebbe sembrare a prima vista eccessivo, il “vento del nord” esaltato da Pietro Nenni sull’Avanti! del 27 aprile 1945: un vento che completò la liberazione dell’Italia dall’occupazione nazifascita avviando l’intero Paese verso la Repubblica, cui si approdò col referendum dell’anno successivo, e una nuova Costituzione.

            I grillini sono riusciti, dopo più di 72 anni di Repubblica, e poco più di sei mesi di un loro governo del Paese con un alleato assunto solo dopo le elezioni, e fra quelli contro i quali si erano battuti nelle urne, a riportare le scelte degli italiani alla radicalità di quei tempi lontani, in cui l’Italia fu salvata appunto dal “vento del nord”. Bel capolavoro, per un movimento e un governo del “cambiamento”.

 

 

 

 

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Il governo, inseguito dalla recessione, corre sull’autostrada “digitale”

            Grillini e leghisti, in ordine sia alfabetico che di consistenza parlamentare, sono stati sicuramente fortunati nelle urne elettorali del 4 marzo scorso: gli uni diventando il movimento di maggioranza relativa nel Paese, gli altri sorpassando i forzisti nella coalizione di centrodestra ed entrambi facendo poi un governo quasi obbligato dalle circostanze. Che permisero a Matteo Salvini di chiedere e ottenere da Silvio Berlusconi il permesso di “tradirlo” a livello nazionale, ferme restando le alleanze locali, per giunta a tempo indeterminato, sino a quando altre circostanze non avessero riaperto i giochi a Roma.

              Altrettanto sicuramente però grillini e leghisti sono stati quanto meno sfortunati -se si vuole generosamente assolverli dai loro errori- nell’impatto con gli sviluppi negativi della situazione economica: in tutta Europa, ma più in particolare in Italia, dove due mesi e mezzo di “guerra di parole” con l’Unione Europea -inutilmente lamentata dal presidente italiano della Banca Centrale Europea, Mario Draghi- hanno prodotto quanto meno una febbre cronica dello spread, tradottasi in un aggravio dei costi del nostro già ingente debito pubblico.

              Dannatamente sfortunata è stata anche la coincidenza fra la partecipazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e del vice presidente grillino Luigi Di Maio -prima l’uno e poi l’altro- ad un convegno di consulenti del lavoro ambiziosamente proiettato “verso il futuro”,Di Maio.jpg con tanto di bandiere e di striscione ottimistico steso alle spalle degli oratori, e l’impietoso annuncio ufficiale del calo della produzione industriale italiana del 2,6 per cento in un anno, tra novembre 2017 e novembre 2018, con un picco peraltro del 19 per cento nel settore dell’auto. Che è lo stesso disgraziatamente colpito nella manovra fiscale di fine anno dai grillini, fra le deboli resistenze dei leghisti, con una sovrattassa studiata per agevolare il futuro -si potrebbe dire- della motorizzazione elettrica, ma destinata intanto a colpire il presente e più diffuso commercio della motorizzazione a benzina o nafta.

               Impossibilitati a sottrarsi alla realtà col solito argomento della questione non contemplata nel famoso “contratto” di governo, e non potendo chiaramente bastare la protesta contro l’altrettanto solita eredità ricevuta dai governi passati perché il tempo passa, appunto, e permette sempre meno a chi è oggi al timone della barca di dire che sta ancora subendo i danni della rotta precedente, Conte e Di Maio sono ricorsi all’ottimismo, diciamo così, di ufficio. Come d’altronde fecero in analoghe circostanze i loro tanto bistrattati predecessori: primo fra tutti l’odiato Cavaliere di Arcore.

               In particolare, il presidente del Consiglio ha rivelato che proprio nella consapevolezza di una sostanziale recessione in arrivo il suo governo ha varato una manovra di cosiddetta “espansione”. Della quale però si vedono francamente sempre di più le maggiori spese correnti, cresciute ora col cosiddetto reddito di cittadinanza e gli anticipi pensionistici, che gli investimenti necessari allo sviluppo: quelli per esempio nelle infrastrutture, cui i grillini hanno un approccio a dir poco diffidente, preferendo la cosiddetta “decrescita felice” ai rischi corruttivi e dilapidatori delle grandi opere pubbliche. E ciò a cominciare naturalmente dalla Tav, o dal genere maschile preferito da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano.

              Il vice presidente del Consiglio Di Maio, già inquieto di suo ma ora incalzato più da vicino dal concorrente e amico Alessandro Di Battista, che contende ad una certa, vecchia e non proprio fortunata sinistra la pratica di essere allo stesso tempo “di lotta e di governo”, come lo Dibba.jpgstesso “Dibba” ha appena ripetuto al canale televisivo 9, si è spinto a immaginare a breve addirittura un nuovo “boom economico” tipo anni Sessanta, quando le autostrade, con viadotti annessi e Giggino.jpgconnessi, diedero una forte spinta allo sviluppo del Paese. Le autostrade di Di Maio però avrebbero meno rischi e costi. E quali potrebbero essere? Ma è chiaro: quelle “digitali”, ha chiarito il volatile “Giggino”, come lo ha sfottuto il manifesto in prima pagina commentandone la sortita.

            Altan.jpg Sulle autostrade digitali dell’ancòra capo del movimento grillino viaggia notoriamente, sulle orme del padre, Davide Casaleggio: un redivivo Jean-Jacques Rousseau. Che prima o dopo dovrà soddisfare però la curiosità di quell’impiccione di Francesco Tullio Altan, smanioso di  conoscere e rivelare  ai lettori della sua   Repubblica di carta il rapporto fra costi e benefici del governo in carica, e non solo della o del Tav.

 

 

 

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Anche le istituzioni di garanzia condizionate dalle tensioni nel governo

           L’atmosfera di crisi creatasi nella maggioranza -con leghisti e grillini che  si scontrano praticamente su tutto, e i grillini al loro interno persino con il contributo del genitore politico, convertitosi Giannelli.jpga sorpresa ai vaccini procurando le vertigini ai suoi, educati quanto meno allo scetticismo sulla materia- non ha investito solo il Quirinale. Dove il presidente della Repubblica ha interrotto la sua riflessione critica e preoccupata sulla legge contro la corruzione, ma anche contro la prescrizione, e a dispetto pure dei dubbi espressi dal Consiglio Superiore della Magistratura l’ha firmata per non provocare altre tensioni nella coalizione di governo. La paura di una crisi ha investito pure il palazzo adiacente al Quirinale: quello della Consulta, dove siedono, studiano e deliberano i giudici della Corte Costituzionale.

            Proprio dalla Consulta è appena arrivata una decisione a dir poco inedita, anche se non ne mancano altre, nella storia della Corte Costituzionale, dettate più da ragioni o valutazioni più politiche che giuridiche, e sulle più diverse materie: dalle leggi elettorali al suicidio, su cui per non far decadere le norme in vigore, considerate illegittime, è stato dato al Parlamento un anno di tempo per farne di nuove. O per cercare di farne, sarebbe più opportuno dire, vista la calma, se non l’indifferenza, con cui le Camere hanno reagito sinora al sollecito.

          In particolare, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal gruppo senatoriale del Pd contro l’approvazione del bilancio dello Stato, avvenuta con procedure sfacciatamente contrarie a quelle dettate dall’articolo 72 della Costituzione per l’esame di quel tipo di disegno di legge. Ma la Corte, in qualche modo contraddicendosi almeno sul piano logico, sicuramente sul piano politico, è entrata lo stesso nel merito della questione sollevata dai ricorrenti riconoscendo che una violazione delle regole c’è stata: una violazione grave ma non abbastanza per richiedere una bocciatura in sentenza, diciamo così. Abbastanza comunque per ammonire i responsabili -si presume, governo Aula Senato su bilancio.jpge maggioranza parlamentare di turno- a non riprovarci più, e tanto meno a ricorrere a forzature più vistose ancora.  “Simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate”, ha avvertito il comunicato della Corte alludendo allo scavalcamento completo della commissione parlamentare competente, avvenuto a Palazzo Madama e tradottosi in aula in una mezza rivolta di senatori contro i banchi del governo e della presidenza dell’assemblea, con fogli che svolazzavano da ogni parte, e al sostanziale bavaglio imposto dal solito ricorso al voto di fiducia sull’altrettanto solito maxi-emendamento di centinaia di pagine e migliaia di commi per spazzare via singole proposte di modifica e dibattito.

           Il costituzionalista Michele Ainis si è giustamente chiesto su Repubblica, ironizzando alla fine sulla “prudenza” adottata dalla Corte Costituzionale, “cos’altro dovrà ancora succedere dopo il sequestro della dignità parlamentare” avvenuto questa volta per schiodare i giudici costituzionali dalla loro posizione di attesa e di monito inoffensivo.

           I due palazzi adiacenti del Quirinale e della Consulta sono appaiono accomunati più o meno consapevolmente da una preoccupata valutazione della situazione politica e istituzionale, prodotta da una maggioranza che traballa ma non cade, sorretta dagli arbitri nel timore di ciò che potrebbe accadere, specie nel contesto europeo in cui ci troviamo, se dovesse aprirsi una crisi Carige.jpganche formalmente. Ma non è detto che il puntellamento ad ogni costo sia il rimedio migliore. I ponti maltenuti prima o dopo crollano, come si è visto a metà agosto a Genova. Dove peraltro l’emergenza nuova si chiama Carige, l’acronimo della Cassa di Risparmio locale, si fa per dire. E la maggioranza la sta affrontando fra le solite divisioni, recriminazioni e quant’altro, più per fare campagna elettorale, al suo interno e all’esterno, che per risolvere davvero il problema.  

 

Il rischio di crisi salva la legge contro corruzione ma anche prescrizione

Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede deve avere tirato un sospiro di sollievo apprendendo che il presidente della Repubblica ha firmato, per la promulgazione, la legge “spazzacorrotti” approvata definitivamente a Montecitorio il 18 dicembre scorso. E’ finita all’improvviso, pur senza un comunicato ufficiale sulla firma, la riflessione impostasi dal capo dello Stato di fronte anche ai dubbi espressi sul provvedimento dal Consiglio Superiore della Magistratura, di cui egli è costituzionalmente il presidente. Si tratta di dubbi particolarmente penetranti sulla norma che sospende la prescrizione  all’emissione della sentenza di primo grado per tutti i reati, e non solo per quelli corruttivi.

Il presidente della Repubblica ha probabilmente interrotto la sua riflessione -pur avendo ancora una settimana di tempo per la firma della legge- di fronte all’insorgenza delle prime voci e interpretazioni sui tempi non rapidi della firma mentre si appesantiva improvvisamente la situazione politica. E’ sin troppo evidente, in particolare, la falla apertasi all’interno della maggioranza di governo sui temi della sicurezza e dell’immigrazione, con riflessi più o meno ritorsivi anche sulle misure in cantiere per l’utilizzo dei fondi destinati nel bilancio al cosiddetto reddito di cittadinanza e all’accesso anticipato alla pensione.

Voci per quanto non confermate attribuiscono al capo dello Stato il timore di concorrere, anche se involontariamente, alle tensioni politiche procrastinando ulteriormente la firma della legge contro la corruzione, o addirittura consentendone la promulgazione con una lettera di segnalazione o puntualizzazione non mancata in altre occasioni, come l’emanazione del decreto legge su sicurezza e immigrazione. Che peraltro,  poi convertito in legge, è incorso nelle contestazioni di sindaci definiti per questo “traditori” dal vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma soprattutto di regioni che si stanno avvalendo dell’accesso diretto alla Corte Costituzionale per la verifica della legittimità di alcune disposizioni che interferiscono con le competenze delle amministrazioni locali.

In ordine ai dubbi da più parti sollevate, anche -ripeto- dal Consiglio Superiore della Magistratura, sulla modifica radicale dell’istituto della prescrizione, il capo dello Stato ha evidentemente voluto scommettere pure lui -solo i fatti potranno dire se con troppo ottimismo o con pacata ragionevolezza- sulla capacità di questa maggioranza di governo non solo di durare, ma di varare la riforma del processo penale. Nell’ambito della quale si dovrà trovare il modo di contemperare il rischio di un allungamento a tempo indeterminato del percorso in tre tappe di un procedimento giudiziario -tra primo, secondo e terzo grado di giudizio- con la “ragionevole durata” del processo prescritta dall’articolo 111 della Costituzione, modificato proprio a questo fine nel 1999.

E’ opportuno ricordare di nuovo che i leghisti hanno accettato, con dichiarazioni di Salvini e della ministra della funzione pubblica e avvocata di spicco Giulia Bongiorno, partecipi di un vertice di maggioranza dedicato a questo problema, l’introduzione della nuova norma sulla prescrizione subordinandone l’applicazione proprio alla riforma del processo penale. Dalla quale invece ripetutamente il ministro grillino della Giustizia ha dichiarato di volere prescindere, ritenendo quindi incondizionata la sospensione della prescrizione  alla sentenza di primo grado, sia di condanna sia di assoluzione. La quale ultima, una volta impugnata dalla pubblica accusa, potrebbe paradossalmente condannare anche l’assolto ad essere un imputato a vita.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Addio al mio amico e collega carissimo Guido Quaranta

           Ho incontrato Guido Quaranta, più disincantato e scettico del solito, solo qualche settimana fa alla Camera, alla presentazione di un libro – “Passi perduti,   storie dal Transatlantico”- al quale avevamo entrambi contribuito, intervistati con altri colleghi dall’autore Giorgio Giovannetti per parlare della nostra esperienza di giornalisti parlamentari.

           Eravamo abituati troppo bene alla politica raccontata per più di cinquant’anni, peraltro da postazioni professionali di diverso orientamento politico, per poterci trovare a nostro agio con quella di adesso. Abituati troppo bene non solo alla politica, ma alla nostra stessa professione.

            Guido mi chiedeva ancora, seduto accanto a me nella Sala della Lupa di Montecitorio, quali abitudini avesse nel suo lavoro Indro Montanelli, sapendomi cresciuto un po’ anche alla sua scuola. E ne era ammirato sentendomi descrivere come usasse tagliare i pezzi dei colleghi, non per censura ma per semplici ragioni di spazio. O come diventasse balbuziente per ansia o irritazione quando bussava alla porta qualcuno del comitato di redazione per porgli un problema. Montanelli era un direttore atipico, con quella voglia incontenibile che aveva di fare il solista. E a Guido, per quanto di sinistra orgogliosamente dichiarata, piaceva moltissimo.

            Pur diventato negli ultimi anni parco di parole, ma sempre alla ricerca di curiosità per una urticante rubrica tenuta puntualmente sino all’ultimo sull’Espresso, Guido mi mancherà moltissimo, col ricordo ancora vivo che conservo di quelle mattine in cui Giulio Andreotti, incontrandolo nei corridoi di Montecitorio con un blocchetto di appunti sempre in mano, gli chiedeva sornione se gli volesse fare una multa. Ne sentirò una grandissima nostalgia.

Conte ha rimediato a Salvini il soccorso della Chiesa Valdese per i migranti di turno

            Perduta la sponda fisica e politica del premier laburista di Malta, che bloccando per quasi 20 giorni una cinquantina di profughi su due navi alla fonda dell’isola forniva anche a lui l’occasione per resistere all’accoglienza, il leader leghista Matteo Salvini si è trovato rovinosamente solo col problema dei rapporti non tanto con l’Europa quanto coi suoi alleati di governo: i grillini. Che, prima col solo vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio e poi col presidente del Consiglio in persona, Giuseppe Conte, avevano contestato pubblicamente la sua intransigenza e aperto all’accettazione umanitaria di una parte di quelli che il manifesto ha promosso a Cavalieri di Malta, pubblicandone una foto festosa scattata all’annuncio del loro sbarco imminente.

            Per ore sono volate fra Roma e Varsavia, dove Salvini era in missione di partito, parole di scontro e persino velate minacce di crisi di governo, o di ritorsioni leghiste su provvedimenti di variaGazzetta.jpg natura in cantiere a Palazzo Chigi e dintorni, comprese le aule e le commissioni parlamentari. Infine, costretto al solito vertice, il presidente del Consiglio ha trovato il modo di disinnescare l’ennesima mina copiando paradossalmente proprio Salvini, che nella scorsa estate era uscito dal blocco imposto nel porto di Catania a un pattugliatore italiano  carico di profughi soccorsi in mare trattandone la consegna di buona parte alla Chiesa di Papa Francesco.

             Questa volta, visto anche l’epilogo infelice di quel sostanziale espediente, essendosi poi i profughi allontanati dalla residenza religiosa di Rocca di Papa, dove erano stati destinati, per unirsi ai tanti clandestini in giro in Italia, il presidente del Consiglio ha negoziato con la Chiesa Valdese. Chiesa Valdese.jpgChe a sue spese -è stato precisato per dare a Salvini il motivo di considerarsi soddisfatto- si è accollata l’accoglienza di tutta o parte della quota di 15 immigrati assegnata all’Italia in una trattativa a otto  svoltasi a livello europeo. Dove si dovrà però trovare adesso anche un accordo per la ripartizione di circa 240 profughi accolti nei mesi scorsi da Malta e di altre centinaia accolti invece dall’Italia e rimastivi, in attesa dell’accoglienza alla quale si erano impegnati alcuni paesi dell’Unione Europea.

              Si è aperta naturalmente a livello politico e mediatico, a uso della campagna elettorale sempre in corso in Italia, fra votazioni regionali, comunali ed europee, la solita discussione, o gara, su chi ha vinto o perduto di più fra Salvini e i suoi alleati grillini di governo. “Tre porte in faccia a Salvini”, ha gridato entusiasta Il Fatto Quotidiano. Discussione o gara Il Fatto.jpgcome tante altre – dal reddito di cittadinanza alla pensione anticipata, dalla Tav al salvataggio della Cassa di Risparmio di Genova- destinate ad una sostanziale dissolvenza, in attesa solo di conoscere gli effetti che potranno derivarne soprattutto nelle elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento Europeo. Dei cui risultati si vedrà che uso vorranno fare le componenti dell’attuale maggioranza. Esse non sono più due, come alla formazione del governo Conte, perché quella grillina si è andata via via scomponendo di fatto in tendenze, aree, correnti e quant’altro la cui convivenza dipenderà anch’essa dai risultati delle elezioni europee di maggio, o da quelle regionali che le  precederanno già dal mese prossimo.

 

 

 

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