Il flop del tentativo di rianimare con Berlusca il processo della “trattativa”

Una rondine non fa primavera, ha forse pensato qualche pessimista reagendo all’ottimismo di quanti hanno sottolineato la differenza fra il giustizialismo degli anni di Mani Pulite, quando la Procura di Milano veniva incoraggiata dai cortei per le strade anche di altre città a far sognare gli italiani con i suoi avvisi di garanzia, con gli arresti davanti alle telecamere allertate di giorno e di notte e con la compiaciuta demolizione dei partiti di governo, e il pur pallido garantismo di questo 2017. Che è fortunatamente contrassegnato dall’interesse mediatico che si stanno guadagnando non tanto le indagini sulla vicenda Consip, partite stavolta da Napoli e sviluppatesi tra gli applausi e lo spasmodico interesse degli avversari di Matteo Renzi, convinti di poterlo abbattere dopo averlo ferito col referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, quanto le indagini sulle indagini.

Condotte tra la Procura di Roma e il Consiglio Superiore della Magistratura, per non parlare del  lavoro meno rumoroso ma pur sempre vigile della Procura Generale della Corte di Cassazione, le indagini sulle indagini Consip stanno svelando troppe stranezze, quanto meno, dell’accusa e della polizia giudiziaria per poter volgere lo sguardo dall’altra parte, o mettere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi.

L’ultimo tentativo di smontare le accuse contro l’accusa è stato compiuto con l’annuncio di un’imminente e scontata archiviazione dell’indagine romana per fuga di notizie ed altro a carico del pm anglo-napoletano Henry John Voodcock, ma la Procura capitolina, che peraltro indaga su quel magistrato anche per falso, ha avvertito che una richiesta di archiviazione non è né scontata né imminente. Qualcuno ha fatto finta di non sentire e di non capire, ma non fa niente.

Ora le rondini sono diventate due. E vedremo se riusciranno a fare insieme almeno un po’ di primavera, anche se siamo appena entrati in autunno e dovremo superare ancora l’inverno. E che inverno, con la campagna elettorale per il rinnovo delle Camere.

L’altra rondine è il flop mediatico del tentativo del pubblico ministero Nino Di Matteo, che prosegue a Palermo l’opera avviata da Antonio Ingroia, di rianimare il lungo e anemico processo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione stragista del biennio 1992-93: lo stesso, peraltro, della demolizione giudiziaria della cosiddetta Prima Repubblica con le indagini sul finanziamento illegale dei partiti e sui reati più o meno connessi di concussione, corruzione e ricettazione.

Nino Di Matteo, aiutato anche con un’audizione dalla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, ha cercato di infilare nella salsiccia del processo in corso a Palermo, indebolito dall’assoluzione di alcuni imputati usciti col rito abbreviato, come l’ex ministro Calogero Mannino, o sottoposti per gli stessi fatti ad altri procedimenti, come il generale Mario Mori, una intercettazione del boss mafioso Giuseppe Graviano. Che nel carcere di  massima sicurezza di Ascoli Piceno si è vantato col compagno di cortile Umberto Adinolfi di avere ricevuto a suo tempo da Silvio Berlusconi, chiamato più brevemente Berlusca, “la cortesia” di aggiungere al lavoro dei magistrati milanesi contro “i vecchi” governanti “una bella cosa” che potesse aiutarlo a fargli vincere le elezioni nel 1994. Un botto da strage, insomma, e via verso quello che Giuseppe Sottile, sul Foglio, ha efficacemente e polemicamente tradotto in “un deserto di sangue e di paure” utile a garantire il successo politico dell’allora Cavaliere.

E’ Berlusconi insomma che meriterebbe un processo come mandante delle stragi di mafia. Altro, quindi, che trattativa fra Stato e mafia, altro che gli imputati alla sbarra da anni, altro che Giorgio Napolitano, accusato continuamente da Ingroia di avergli boicottato dal Quirinale indagini e processo. E’ su Berlusconi, ripeto, che bisognerebbe mettere le mani, e precludergli così anche il ruolo di protagonista politico che, nonostante tutti i guai e la perdurante incandidabilità,  è riuscito a guadagnarsi in questa lunghissima vigilia elettorale in corso dal referendum del 4 dicembre perduto da Renzi, peraltro col contributo dello stesso Berlusconi.

Ma questa volta, diversamente da quanto sarebbe accaduto sino a qualche anno fa, quando Berlusconi era a Palazzo Chigi, fra un appuntamento e l’altro con le ragazze spiate dalla Procura di Milano, la polpetta ravvisabile nell’intercettazione ad Ascoli Piceno non ha funzionato. Neppure il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che a Di Matteo ha già innalzato da tempo un monumento in vita, ha ritenuto di scaldarsi più di tanto, tenendo cautamente la bomba Graviano lontano quanto meno dalla prima pagina.

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