Il colpo di grazia di D’Alema alla sinistra, in odio al solito Renzi

Puntuale come un treno nella Svizzera, Massimo D’Alema all’indomani dell’ennesima debacle della sinistra in Europa, visti i risultati delle elezioni tedesche, si è lasciato intervistare dal Corriere della Sera per spargere un bel po’ del suo sale sulle ferite della sinistra italiana. Di cui ha praticamente liquidato ogni possibilità di ricomposizione e di successo elettorale prospettando, anzi auspicando dopo il rinnovo delle Camere con un sistema proporzionale, essendo una “indecenza” il cosiddetto Rosatellum che arriverà nell’aula di Montecitorio il 10 ottobre, un altro “governo del Presidente”. Un governo, cioè, praticamente imposto dal capo dello Stato ad un Parlamento e  a un mondo politico incapaci di provvedervi da soli.

Ciò è già accaduto nella cosiddetta seconda Repubblica con i governi di Lamberto Dini, nel 1995, di Mario Monti nel 2011 e di Enrico Letta nel 2013. Una quarta edizione sarebbe forse il definitivo commissariamento della Repubblica parlamentare voluta dai famosi e tanto traditi padri costituenti, ma D’Alema evidentemente non ne sarebbe preoccupato, o non più di tanto.

Pur convinto di essere ormai “arrivato a una certa serenità”, che sembra però assomigliare molto a quella che lui stesso ha rinfacciato a Matteo Renzi di avere garantito ad Enrico Letta poco prima di disarcionarlo a Palazzo Chigi, D’Alema ha bollato il segretario del Pd come un uomo tanto finito da dover essere solo soccorso da un uomo generoso come si è autodefinito lui. Che ritiene di avere dato una mano a suo tempo anche al povero Bettino Craxi, tentando  -ha raccontato- un negoziato però fallito con la Procura di Milano per farlo tornare da Hammamet in Italia senza essere arrestato, e piantonato in un ospedale per esservi curato, ha detto sempre D’Alema. Che dovrebbe sapere bene che a Craxi restava solo poco tempo per morire, e basta. E se non lo sapeva, glielo dico io che gli ero amico, per cui penso che quella sua ora vantata trattativa con la Procura di Milano andava rivelata, anzi denunciata pubblicamente, quando egli avverti le insuperabili resistenze dei magistrati. Dei quali andava gridata la responsabilità ai quattro venti, e non contenuta nel solito sinedrio.

Ora, a distanza di più di diciassette anni dalla morte, e solo in funzione antirenziana, per sbattere cioè Renzi sempre più a destra, D’Alema ha riconosciuto che Craxi era un uomo di sinistra, per quanto provvisto di una “forte carica anticomunista”, per niente paragonabile al giovanotto di Rignano sull’Arno. Che, d’altronde, avventatamente si è sempre rifiutato di sentirsene erede. 

Dio mio, non poteva D’Alema accorgersi della natura di sinistra di Craxi negli anni in cui da giovane dirigente del Pci assecondava il furioso anticraxismo di Enrico Berlinguer? Non attendo naturalmente risposta.

La solita caccia giudiziaria a Berlusconi per le stragi di mafia

In un altro momento certe notizie relative al processo in corso a Palermo dal 27 maggio di quattro anni fa sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, nella lontana stagione delle stragi del 1992-93 avrebbero fatto un rumore enorme. Non sarebbero cadute nel sostanziale vuoto di questa volta.

Le notizie, in particolare, sono queste: la trascrizione, disposta a Palermo nello scorso mese di giugno e appena terminata, delle registrazioni delle conversazioni intercettate nel carcere di Ascoli Piceno tra l’ergastolano di mafia Giuseppe Graviano e il compagno d’aria Umberto Adinolfi, ergastolano di camorra, e il loro invio, da parte del pubblico ministero Nino Di Matteo, anche alle Procure di Firenze e di Caltanisetta. Che dovrebbero pertanto valutare se è il caso di riaprire le indagini sulle stragi di mafia di venticinque anni fa di loro competenza.

Di quelle stragi, a sentire Graviano, dovrebbe essere sospettato come mandante, un Silvio Berlusconi smanioso di entrare in politica e di riempire il vuoto lasciato dai politici spazzati via o miracolosamente sopravvissuti all’uragano giudiziario di Tangentopoli.

Non è la prima volta che magistrati d’accusa e giornalisti al seguito hanno cercato di tirare in mezzo Berlusconi in quelle stragi, non bastando né avanzando i sospetti e il processo in corso -ripeto- da quattro anni sulla trattativa che pezzi dello Stato, quanto meno, e vertici di mafia avrebbero condotto per fermare la mattanza accompagnatasi agli sconvolgimenti delle inchieste sul finanziamento illegale della politica. Sarebbe stata una trattativa che, a sentire o a raccogliere quei sospetti, avrebbe dovuto essere estesa addirittura all’allora presidente della Fininvest, se veramente le stragi avessero dovuto servire non solo a intimidire i governi in carica ma pure a spianare la strada al suo movimento politico.

Tutte le volte che la fantasia degli inquirenti togati e mediatici ha provato a costruire un simile scenario è tutto finito in archiviazione. Ma Graviano, benedett’uomo, ha riacceso speranze, dubbi e quant’altro, secondo i gusti, dicendo testualmente al co-detenuto Adinolfi: “Berlusca –cioè Berlusconi, come noi giornalisti siamo soliti chiamarlo da tempo con una confidenza che il boss mafioso si vanta di avere acquisito ben prima- mi ha chiesto questa cortesia…per questo è stata l’urgenza. Lui voleva scendere in politica, però in quel periodo c’erano i vecchi. E lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. Cioè, un bel po’ di attentati, perché una cosa – a proposito di cose- è partecipare alle elezioni politiche con uno slogan e un movimento da sport come Forza Italia, altra è poter vincere più speditamente in quello che Giuseppe Sottile ha sarcasticamente chiamato sul Foglio qualche giorno fa “un deserto di sangue e di paure”, notando peraltro la inquietante coincidenza fra queste rappresentazioni della presunta origine criminosa dell’impegno politico di Berlusconi e il suo ritorno da protagonista sullo scenario in vista delle elezioni dell’anno prossimo.

Stavolta però, come dicevo all’inizio, per quanto ascolto, almeno fisico, possano avere trovato gli eventuali dubbi di De Matteo nella commissione parlamentare antimafia che ha voluto recentemente ascoltarlo, non è eplosa né una bomba né un petardo mediatico. Neppure il giornale di Marco Travaglio, abitualmente sensibilissimo a certi temi e a certi protagonisti del mondo giudiziario, ha ritenuto di spendersi per riaccendere il fuoco dell’antiberlusconismo.

E’ la seconda rondine che ho visto e sentito volare nel giornalismo solitamente fiancheggiatore del giustizialismo. E’ la seconda dopo quella della mancata mobilitazione contro le indagini sulle indagini targate Consip. Che venticinque anni fa, ai tempi di Mani pulite e dei cortei che incitavano la Procura di Milano a far sognare i manifestanti di giorno e di notte, più ancora di quanto i magistrati non avessero già fatto facendo riprendere gli arresti dalle solerti telecamere, sarebbero state semplicemente inimmaginabili.

Tanto tempo non è forse trascorso invano. Meglio tardi che mai.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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