L’Inferno in cui si è infilato Giuliano Pisapia

Con quel viso sempre sorridente, con quell’aria di un vecchio signore abituato alle buone maniere e con la fama meritatissimo di un buon avvocato garantista, tanto da avere mancato una volta la nomina a ministro della Giustizia di un governo Prodi, in quota al partito di Fausto Bertinotti, per le forti proteste levatesi, pur dietro le quinte, dalla solita magistratura militante, il povero Giuliano Pisapia non meritava certo la sorte toccatagli come “federatore” del centrosinistra dopo la scissione del Pd.

A questo ruolo, in verità, si era già offerto per i suoi trascorsi, sia pure non fortunatissimi, tutti interrotti bruscamente, di capo della coalizione prima dell’Ulivo e poi dell’Unione, il professore Romano Prodi. Che però, per non smentire la sua nota suscettibilità, colse al volo il primo dissenso da Matteo Renzi sui risultati delle ultime elezioni amministrative per smontare la tenda sistemata accanto al Pd, arrotolarla, impacchettarla e portarla via, indignato quasi quanto nel 2013, allorchè il suo partito gli negò a scrutinio segreto l’elezione a presidente della Repubblica.

Pisapia, più modestamente ex sindaco di Milano, si era messo in testa, poverino, di convincere Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani non a tornare da Renzi, per carità, ma a coabitare col suo partito, senza il quale il centrosinistra non avrebbe mai i numeri elettorali e parlamentari per ricostituirsi. Non aveva previsto, poverino, che i due volessero la fine di Renzi alla maniera del marito che si evira per fare dispetto alla moglie. Ma soprattutto non aveva previsto che i due lo condannassero ad avere come suo interlocutore, per loro conto, un giovanotto lucano  che solo a guadarlo ti viene subito voglia di chiedergli che problema abbia: l’ ex capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza. Che sembra un ossimoro più ancora di un cognome. Un giovanotto al quale bastò vedere una fotografia di Pisapia abbracciato con Maria Elena Boschi ad una festa milanese della scomparsa Unità per mandarlo in depressione.

Formalmente comunque il motivo del contendere fra Pisapia e gli scissionisti del Pd non si chiama Renzi ma Alfano: Angelino Alfano. Che specie da quando è ministro degli Esteri, e quindi uno dei suoi successori alla Farnesina, è diventato per D’Alema irricevibile in tutti i sensi: “uno scarto del centrodestra”, lo ha definito di recente  con disprezzo commentando il rifiuto dei leghisti, dei post-missini e di una parte dei forzisti di raccoglierlo  come alleato almeno in Sicilia, dove si voterà per le regionali il 5 novembre e la percentuale del partito di Alfano, nel frattempo assegnatosi la sigla e il nome di Alternativa Popolare, potrebbe essere decisivo per l’esito finale delle elezioni.

I rapporti con Alfano, più ancora che con Berlusconi, sono quelli insomma che fanno la differenza fra una sinistra buona e una sinistra cattiva, una sinistra genuina e una sinistra contraffatta, una sinistra popolare e una sinistra impopolare. Il povero Pisapia stenta a rendersene conto e Alfano, dal canto suo, prima ancora di essere lasciato dagli amici di partito che non lo seguirebbero in una rinnovata alleanza con Renzi, rischia di scoppiare come la rana della famosa favola di Fedro.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto le sfide impossibili di Giuliano Pisapia

Quando il giovanissimo Casini rischiò di rottamare Berlusconi

Non proprio tutto, come forse ha voluto far credere per stare al passo coi tempi, anzi per vantarsi di averli largamente preceduti, ma qualcosa di vero c’è nella rappresentazione che Pier Ferdinando Casini ha appena fatto di se stesso come “rottamatore” negli anni giovanili della militanza democristiana. Ma rottamatore di classe, senza cadere nelle esagerazioni e improvvisazioni del deputato grillino Alessandro Di Battista, da lui redarguito come “cialtrone” nella riunione congiunta delle Commissioni Esteri della Camera e del Senato, dove si è discusso della imminente e piena ripresa delle relazioni con l’Egitto, pur perdurando troppi misteri sul barbaro assassinio del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni al Cairo.

Della Commissione Esteri del Senato Casini è presidente, dopo essere stato presidente della Camera. A sentire il giovane Di Battista imprecare contro il governo come complice degli aguzzini di Regeni egli non è riuscito a trattenersi. E ha poi dichiarato al Corriere della Sera: “Anche io ero un rottamatore, ma studiavo ed ero più umile”.

Partecipe da ragazzo, direi, della corrente democristiana dei “dorotei”, che faceva nella Dc il bello e il cattivo tempo, componendo e scomponendo gli equilibri interni ma anche esterni al partito, Casini aveva l’abitudine di interrompere e fare perdere le staffe ai leader nazionali negli incontri che precedevano o seguivano i maggiori dibattiti nella Direzione o nel Consiglio Nazionale. Fu proprio la sua vivacità a colpire Antonio Bisaglia e a farne assumere una specie di protezione.

Ciò che l’allora potente ministro veneto delle Partecipazioni Statali non si sentiva di dire in prima persona contro Mariano Rumor e/o Flaminio Piccoli lo lasciava dire al giovanissimo Casini, non ancora deputato ma già avanti nella carriera di partito.

Dei due, Piccoli era il più irritabile. Rumor al massimo arrossiva di nervosismo, Piccoli invece inveiva, protestava, batteva i pugni sul tavolo. E Casini, finite le riunioni di corrente, si divertiva a farne il resoconto a noi giornalisti imitando il leader trentino come neppure Maurizio Crozza sarebbe riuscito se fosse nato qualche decennio prima.

I peggiori scontri fra i due avvennero durante l’esperienza della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer. Che Bisaglia da ministro viveva così male da rischiare nella crisi di gennaio del 1978 la conferma nel passaggio dall’astensione al voto di fiducia dei parlamentari comunisti. A salvarlo, e con lui anche Carlo Donat-Cattin, della sinistra sociale della Dc, fu in una lunga e drammatica riunione alla Camilluccia il presidente del partito Aldo Moro. Che dopo qualche giorno sarebbe stato rapito dalle brigate rosse.

In una riunione di corrente risalente ai tempi in cui Piccoli da capogruppo democristiano della Camera era diventato segretario del partito Casini lo interruppe così tante volte che lui gli si scagliò quasi addosso sfidandolo a prendere il suo posto e a dimostrare che cosa fosse capace di dire e di fare.

Quando riferii a Indro Montanelli il racconto fattomi di quella riunione da Casini, al direttore del Giornale si illuminarono gli occhi. Aveva trovato lo spunto per il suo Controcorrente del giorno dopo, che scrisse di botto facendomi solo il piacere di non nominare Casini. Ma di Piccoli scrisse che “diavolo di un uomo, ha perso anche quello che non ha: la testa”.

L’indomani mi telefonò nella redazione romana del Giornale Silvio Brrlusconi, angosciato come mai più l’avrei sentito. “Non ho comperato il Giornale -mi disse- per non fare più l’imprenditore”.

Invece di rottamare Piccoli, senza volerlo e saperlo Casini aveva insomma rischiato di rottamare Berlusconi.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

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