Evviva. Luigi di Maio, il vice presidente grillino della Camera che vorrebbe candidarsi a Palazzo Chigi per rivoltare l’Italia come un calzino, visto che 25 anni fa un’analoga impresa fallì nelle mani e fra i piedi del pool milanese di magistrati schierati contro i vecchi e corrotti partiti di governo, trattati come associazioni a delinquere senza tuttavia incorrere formalmente in questo tipo di reato, è corso a Cernobbio per promettere e disegnare la nostra -o la loro- Nazione Smart.
Come pubblicità all’omonima macchina esportata dai tedeschi, di cui Di Maio ha lamentato peraltro il surplus commerciale che già penalizza tantissimo gli altri soci dell’Unione Europea, non è francamente male. D’altronde proprio sulle ruote delle automobili cammina buona parte della ripresa in corso, che ha fatto ottimisticamente parlare il presidente del Consiglio in carica della “crisi peggiore alle spalle”.
La graziosa, supertecnologica, scattante macchina tedesca, che sfreccia sulle nostre strade e autostrade come un proiettile, e moltiplica nelle città le capacità dei posteggi per le sue dimensioni, deve e dovrà però fare metaforicamente i conti, nel caso malaugurato in cui dovesse capitare al partito di Di Maio di vincere le elezioni, con l’incompetenza e l’inaffidabilità politica di una classe dirigente che ha avuto l’imprudenza di mettersi alla prova in una città come Roma. L’imprudenza per i grillini, ma forse la fortuna per i non grillini, che hanno così avuto modo di vedere e capire di cosa gli altri siano capaci.
Di Maio, poverino, tutto preso a ripetere un discorso che presumo si fosse preparato con largo anticipo, magari nel pulmino elettrico che gli ha fatto percorrere in pochi giorni duemila chilometri, non si è accorto di parlare ai marpioni della finanza e dell’industria nello stesso giorno in cui la sindaca grillina della Capitale, appunto, conquistava le prime pagine dei quotidiani per la figuraccia fatta nell’incontro da lei stessa sollecitato col ministro dell’Interno Carlo Minniti sul tema dell’immigrazione e degli alloggi da garantire a chi è stato giù sfollato dai palazzi occupati abusivamente o dovrà ancora esserlo.
La sindaca ha chiesto, anzi reclamato a questo scopo l’uso delle caserme militari ormai dismesse, che in effetti si prestano assai bene, per le loro strutture e per le loro collocazioni nel territorio di Roma, all’uso degli sfollati e simili. Ma la povera sindaca, tutta presa nel suo primo anno di guida della città a sostituire assessori, dirigenti e altri collaboratori ad un ritmo che ha incuriosito oltre Oceano persino il presidente americano Donald Trump, sembra non essersi accorta che da quattro anni, cioè da ben prima che lei si insediasse nella torre capitolina, lo Stato ha praticamente ceduto al Comune sei caserme, o edifici simili, dove nulla è cambiato nel frattempo. E dove temo che la sindaca non sia andata mai a fare un sopralluogo, né con una Smart né a piedi.