
Anche a costo di esporsi al sospetto di aspirare a qualche ruolo nel cantiere delle riforme allestito da Giorgia Meloni e non alluvionato, o non ancora, l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, ospite ormai fisso del Pd per l’elezione al Senato dopo la sofferta partecipazione al centrodestra nel passaggio fra la prima e la seconda Repubblica, ha recentemente dato consigli alla prudenza per non mancare anche questa occasione di modificare finalmente la Costituzione. Ma di aggiornarla con giudizio, senza ricadere nella opinione giovanile di molti colleghi del suo passato politico che l’elezione diretta del presidente della Repubblica sia utile dopo tanti presidenti eletti dal Parlamento. Fra i quali peraltro mancò poco che ci fosse anche lui quando Sergio Mattarella sembrò davvero irremovibile contro la propria conferma.


Peccato però che Casini si sia clamorosamente contraddetto in una versione sostanzialmente minimalista dei cambiamenti opportuni addossando proprio ad un predecessore di Mattarella, nell’esercizio delle sue funzioni presidenziali, la responsabilità della mancata approvazione della riforma costituzionale meglio preparata fra tutte. Essa fu, secondo lui, quella ponderatamente studiata dalla commissione bicamerale presieduta fra il 1992 e il 1993 prima dall’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita e poi dall’ex presidente comunista della Camera Nilde Jotti. Una commissione che, pur in una legislatura arroventata dalle esplosioni quotidiane di Tangentopoli e dal ruolo debordante del potere o ordine giudiziario, aveva saputo trovare o indicare un argine alla prospettiva della decapitazione della politica.
Non a caso da quell’avamposto populista, quasi rivoluzionario, che era diventata la Procura della Repubblica di Milano si levarono messaggi e diffide contro quella commissione, sospettata addirittura di “ricatto” da uno di quei magistrati che sarebbe poi diventato tra i più moderati e un pò anche autocritici: Gherardo Colombo.

“Quel progetto -ha raccontato fedelmente Casini- conteneva un’ampia riforma del rapporto Stato-Regioni e la definizione di una forma di governo neoparlamentare, che contemplava l’investitura diretta, da parte del Parlamento, del primo ministro, attribuiva a quest’ultimo l’esclusiva responsabilità sulla nomina e la revoca dei ministri e introduceva l’istituto della cosiddetta sfiducia costruttiva”. Tutte cose di cui ancora si discute adesso in alternativa ad una riforma radicalmente presidenzialista caratterizzata dall’elezione diretta del capo dello Stato.

Ebbene -ha ricordato Casini praticamente inciampando il 13 maggio scorso in un lungo articolo sul Quotidiano Nazionale, dove confluiscono Il Giorno, La Nazione e il Resto del Carlino- quella riforma così potenzialmente risolutiva fu impedita dallo scioglimento anticipato delle Camere elette nel 1992. Cui si approdò quando il governo di Carlo Azeglio Ciampi, seguito nel 1993 a quello di Giuliano Amato, si dimise pur disponendo ancora di una maggioranza per continuare, anche dopo l’approvazione della nuova legge elettorale imposta dal referendum del 1993 antiproporzionalista. Una nuova legge elettorale grazie alla quale il Pds-ex Pci guidato da Achille Occhetto pensava di potere vincere a mani basse un immediato rinnovo delle Camere. Inutilmente l’allora capogruppo democristiano di Montecitorio, Gerardo Bianco, chiese udienza al Quirinale per scongiurare sia la rinuncia di Ciampi sia lo scioglimento delle Camere.

Chi al Quirinale, eletto dal Parlamento, si intromise nella lotta politica assecondan il disegno di Occhetto e della sua “giocosa macchina da guerra”, non trattenendo ma incoraggiando Ciampi sulla strada delle dimissioni, se non ordinandogliela, insofferente ormai delle Camere praticamente assediate dalle Procure? Fu il presidente democristiano Oscar Luigi Scalfaro, il primo poi sorpreso della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e del suo improvvisato centrodestra. E infine prodigo di apprezzamenti e incoraggiamenti rivelati da Umberto Bossi nell’operazione di sganciamento della Lega dal primo governo del Cavaliere. Uno Scalfaro -debbo dire- di cui ricordo bene ciò che una volta dichiarò proprio Casini a proposito dei continui screzi fra lo stesso Scalfaro e Berlusconi, o viceversa: “non riuscirete mai -avvertì- a farmi pronunciare un giudizio contro il capo dello Stato”.

Scalfaro d’altronde era stato collega di partito di Casini. E ancora lo era nella forma non già di un partito ma di un più generale, ideologico e caratteriale democristianesimo, chiamiamolo così. Cui è ascrivibile -senza offesa, per carità- anche l’ottimo Sergio Mattarella. Ma mi chiedo se questo filone potrà ancora generare altri presidenti del livello attuale. E se è più opportuno scommettervi o predisporre qualcosa di nuovo davvero nell’organizzazione dello Stato: altro che “il ferro vecchio del presidenzialismo” di cui hanno discorso ieri sulla Stampa Gustavo Zagrebelsky e Luciano Canfora.
Pubblicato sul Dubbio
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