L’esordio giornalistico di Matteo Renzi alla guida del Riformista

Benvenuto, naturalmente, a Matteo Renzi nel campo giornalistico col primo numero odierno del Riformista affidato dall’editore Alfredo Romeo alla direzione, per quanto editoriale e non responsabile, dell’ex presidente del Consiglio, leader di Italia viva e ancora socio con Carlo Calenda del sofferto ma sempre aspirante terzo polo della politica italiana. Che insegue lo scudetto di Montecitorio e dintorni come la squadra del Napoli quello del campionato calcistico di serie A in corso, cui peraltro il Riformista della nuova serie ha dedicato la sua prima pagina come copertina. 

Non manca certamente al senatore di Scandicci il coraggio, non so se più pari o inferiore alla vanità, letteralmente esplosa con quella modifica apportata alla testata che parla da sola. La vecchia erre nera e dritta ereditata da Sansonetti è diventata rossa, sbilenca e sottolineata, come scossa da una pedata del suo nuovo direttore, senza aggettivo. E’ diventata, a vederla, una erre come Renzi, stampato sotto sempre in rosso, più che come Riformista. Di cui egli nell’editoriale ha voluto indicare una specie di decalogo con spirito autobiografico.  Riformista -ha scritto sotto il titolo “A viso aperto”- è “uno che non va di moda”, oggi che “funzionano i sovranisti a destra, gli estremisti a sinistra e i populisti ovunque”. Riformista è uno che “studia, propone, lotta, poi sbaglia, cade, riparte….sempre animato dalla passione per la realtà, non per l’ideologia”. 

Sembra risentire o rileggere Indro Montanelli ai suoi tempi alle prese col democristiano Amintore Fanfani, da lui soprannominato felicemente “Rieccolo”. Una cosa che inorgoglì a tal punto l’interessato da indurlo, quasi per riconoscenza, a procurare a Montanelli, quando ruppe col Corriere della Sera, gli aiuti che gli servivano a fondare il suo nuovo Giornale, nell’ormai lontano 1974. Che, in verità, finì per non essere un anno felice per il leader democristiano, uscito sconfitto clamorosamente dal referendum sul divorzio con effetti destinati a portare lo scudo crociato alla dissoluzione nel giro di vent’anni. 

Immagino gli scongiuri di Renzi a leggermi, se mai gli dovesse capitare di farlo, magari su indicazione di qualche comune amico che ancora si aspetta da lui, al pari di me, il coraggio di una rivisitazione politica, finalmente, di Bettino Craxi per farglielo preferire al ricordo -disse una volta, quando era segretario del Pd e presidente del Consiglio- dello storico segretario del Pci Enrico Berlinguer. Il quale aveva scambiato il modernismo del leader socialista, con il riformismo costituzionale, i tagli antiflazionistici alla scala mobile dei salari, il socialismo tricolore e altro ancora, per uno stupro alla sinistra. 

Ciò nonostante, ripeto, benvenuto a Matteo Renzi nel campo giornalistico e alla sua scommessa sulla capacità di ripresa dell’intelligenza naturale -come ha scritto a conclusione del suo editoriale- di fronte alla paura forse eccessiva che sa provocando l’intelligenza artificiale.

Quante giustificazioni ancora per quell’ignobile linciaggio di Bettino Craxi

Per quanto fuori corso ormai dal 2002, quelle centinaia di monete da 50 e 100 lire, ben più pesanti delle monetine- esse sì- dei centesimi di euro che ne hanno preso il posto, sono tornate a rimbalzare se non a Largo Febo, davanti all’albergo romano dove abitava Bettino Craxi, nelle redazioni dei giornali che hanno voluto evocarle a 30 anni di distanza dal loro lancio contro il leader socialista. Ma ancor più, sia pure figurativamente, contro la Camera che il giorno prima, 29 aprile 1993, aveva osato negare a scrutinio segreto alcune delle “autorizzazioni a procedere” chieste nei suoi riguardi dalla magistratura per il finanziamento illegale dei partiti. E per i reati presuntivamente connessi, secondo gli inquirenti,  di corruzione, concussione e simili. 

Alcuni hanno evocato quella specie di riedizione dello spettacolo milanese di Piazzale Loreto del 1945 per dolersene e al tempo stesso storicizzarla come “l’antipolitica del Raphael che indebolì le istituzioni”, ha scritto Alessandro Campi, per esempio, sul Messaggero. Altri, senza neppure spendersi tanto nel rammarico, e di fatto replicando, hanno voluto ancora riconoscere a quegli squadristi rossi e neri -come li definì Craxi- l’attenuante di essere stati provocati. Da lui direttamente, come ha scritto Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano, con quel modo “arrogante” che aveva di rappresentare il potere e persino di muoversi fisicamente. Quel metro e novanta di altezza gli faceva vedere il prossimo dall’alto in basso. Enrico Berlinguer invece -suggerisco ai tifosi- aveva ispirato  ai suoi tempi tenerezza con quel fisico tanto striminzito da essere svolazzato affettuosamente in aria da un altro striminzito come Roberto Benigni. 

Ma oltre o ancor più che da Craxi, quegli squadristi furono provocati -secondo Gianni Barbacetto, sempre sul Fatto Quotidiano, e dove sennò? – dalla politica e dal Parlamento nel suo insieme, così guadagnandosi anche il trattamento nero di Giorgia Meloni ora a Palazzo Chigi, par di capire. 

“La Camera-ha raccontato al presente Barbacetto dopo avere ricordato il giuramento al Quirinale dei ministri anche del Pds-ex Pci del governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi- deve decidere se concedere alla Procura di Milano l’autorizzazione a indagare su Craxi per le tangenti scoperte dal pool di Mani pulite. Ha già detto si la Giunta per le autorizzazioni a procedere escludendo che le accuse di Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo siano viziate da fumus persecutionis. Tutti d’accordo, anche il democristiano Roberto Pinza, che invita maggioranza e opposizione a dire sì”.

Ma chi era Roberto Pinza? Un avvocato civilista approdato a Montecitorio l’anno prima, eletto in Emilia-Romagna: un quasi sconosciuto per i più fra gli stessi suoi colleghi, oltre che fra noi giornalisti. Ma la ricostruzione politica di Barbacetto è semplicemente falsa. La verità su quei giorni e quelle ore l’ha racconta più volte, senza essere mai smentito, quel galantuomo di Gerardo Bianco, allora capogruppo democristiano alla Camera. Al quale, adesso che è morto, sarebbe rivoltante se i superstiti dell’incontro da lui riferito opponessero una smentita. 

L’allora segretario della Dc Mino Martinazzoli scelse proprio l’ufficio di Bianco per ricevere, come gli avevano chiesto, il segretario del Pds-ex Pci Achille Occhetto e il capogruppo e compagno di partito Massimo D’Alema. I quali gli chiesero, come atto di buona volontà e di testimonianza della svolta costituita dal governo Ciampi appena nato, l’annuncio del voto della Dc nell’aula di Montecitorio contro Craxi per le autorizzazioni a procedere, messe curiosamente all’ordine del giorno della Camera nello stesso giorno della presentazione del nuovo esecutivo. Martinazzoli, peraltro  avvocato penalista, spiegò che i parlamentari democristiani avrebbero votato secondo coscienza, non su direttiva del partito. 

Infatti in aula -come lo stesso Barbacetto, del resto, racconta più avanti, sempre al presente- “intervengono in difesa di Craxi il capogruppo democristiano Gerardo Bianco e Vittorio Sgarbi allora eletto nelle liste liberali. Si schierano invece a favore dell’autorizzazione a procedere Rifondazione comunista, Pds, Rete, verdi, radicali, repubblicani, leghisti, missini. La Camera vota a scrutinio segreto: e per quattro volte su sei respinge le richieste dei magistrati.  L’aula di Montecitorio si trasforma in un’arena. Agli applausi di soddisfazione si sommano quelli beffardi. Poi urla, strepiti, ingiurie, lanci di volantini, scontri fisici, cori “Ladri! Ladri! “Elezioni Elezioni”.

Spettacolo e invettive vennero ripetute il giorno dopo alla folla in Piazza Navona da Occhetto, che ancora oggi nega di aver voluto con ciò spingere i suoi ascoltatori a spostarsi nell’attiguo Largo Febo. Dove il deputato missino Teodoro Buontempo, pace all’anima sua, distribuiva monete raccolte fra i tabaccai cambiando diecimila lire per lanciarle contro Craxi all’uscita dall’albergo, reclamandone peraltro l’arresto e il suicidio. Sì, anche il  suicidio. 

Largo Febo da elegante piazzetta divenne quella sera una fogna, della quale ancora oggi sento personalmente una puzza  che domenica mi ha tenuto lontano, anzi lontanissimo da chi vi si è raccolto con i garofani in mano per ricordare l’accaduto, sia pure in difesa della memoria del mio amico Bettino. 

Pubblicato sul Dubbio

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