Il maldestro tentativo nel Pd di minimizzare la vittoria della Meloni nelle regionali

Per quanto “dimezzata” da un’astensione del 60 per cento dell’elettorato nella sorprendente reazione di Stefano Bonaccini, il candidato in testa -pensate un pò- nella corsa congressuale alla segreteria del Pd , alla vittoria del centrodestra in Lombardia e Lazio il Corriere della Sera non ha potuto negare l’aggettivo “netta” che giustamente le spetta. Con risultati per giunta sovrapponibili, o quasi, per il sorpasso confermato dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni sugli alleati leghisti e forzisti nel centrodestra e il mancato sorpasso, a sinistra, dei grillini di Giuseppe Conte sul Pd. Così sono svaniti i sondaggi che da mesi avevano fatto perdere un pò la testa all’ex presidente del Consiglio. 

Se le “urne vuote”  accompagnate non solo da Bonaccini ma anche da Repubblica e dalla Stampa alla vittoria o al pieno della Meloni, come per contestarne la soddisfazione espressa per l’esito del turno elettorale di febbraio, possono servire agli sconfitti di centrosinistra, chiamiamolo così, per consolarsi, possono o debbono servire anche a Conte per consolarsi di avere portato il suo ambiziosissimo partito al 3,9 per cento in Lombardia, dove aveva accettato di correre col Pd, e all’8,7 nel Lazio, dove aveva voluto correre da solo, pur avendo governato col Pd nella legislatura regionale precedente. 

Non parliamo poi della debacle, a questo punto, del cosiddetto e anch’esso ambiziosissimo terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi, confinatosi nel 4,2 per cento in Lombardia, dove pure era riuscito a portar fuori praticamente dal centrodestra Letizia Moratti, e al 4,8 nel Lazio all’ombra del candidato del Pd Alessio D’Amato alla presidenza. Non so se e come Renzi, in particolare, potrà continuare ancora a scommettere sulle elezioni europee dell’anno prossimo, secondo lui destinate sino a qualche giorno fa a produrre risultati tali da compromettere addirittura la prosecuzione del governo Meloni in questa legislatura di ormai disarmo elettorale. Così ci porta a definirla il felice titolo del manifesto sull’”addio alle urne”, come l’addio alle armi di hemingweiana memoria. 

Riconosciuto comunque al centrodestra, o destra-centro,  ciò che gli spetta, al di là e a dispetto della minimizzazione tentata da Bonaccini e dai giornali de gruppo editoriale Elkann accompagnando le urne vuote al successo della Meloni -sino al titolo di Repubblica “E la chiamano vittoria”- va consigliata una certa prudenza anche al Giornale ancora della famiglia Berlusconi. Per il quale ormai “il Paese è senza opposizione”, a parte quella della sinistra canora di Sanremo, come ha titolato La Verità di Belpietro. 

Sanremo – ahimè- ha il suo peso politico grazie anche alla scelta di Mattarella di onorarne il festival. E un bel pò di opposizione c’è pure nel centrodestra. Berlusconi ha appena anticipato la festa di San Valentino alla Meloni, come da vignetta sul Corriere della Sera, addirittura sul versante della politica estera contestandone l’incontro con Zelensky. 

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Berlusconi sbotta di nuovo contro Zelensky facendola tanto grossa da non poterla coprire

Per le circostanze internazionali e interne -cioè elettorali, ad urne ancora aperte per le regionali in Lombardia e Lazio- nelle quali ha deciso di ribadire a voce ancora più alta e chiara del solito le sue critiche a Zelensky e a chi, come anche Gorgia Meloni, fa a gara in Europa a incontrarlo per sostenerne la resistenza all’aggressione russa, questa volta Silvio Berlusconi l’ha fatta più grossa del solito: tanto che è obiettivamente difficile, anzi impossibile coprirla. Così si dice in Toscana, con un’espressione usata nel 1960 da Amintore Fanfani, all’epoca del governo Tambroni. 

Gli sfortunati colleghi del Giornale ancora di famiglia dell’ex presidente del Consiglio hanno cercato di metterci una pezza trasformando l’attacco, la bomba, il siluro del capo forzista, secondo i titoli scelti dai vari quotidiani, in un rilancio della proposta di “ricostruire l’Ucraina” con una riedizione del vecchio piano Marshall per l’Europa dopo la seconda guerra mondiale. E per assicurare che, per quanto critico con Zelensky, egli “non sta con Putin”. Del quale è invece immaginare la soddisfazione nel leggere o ascoltare al Cremlino i dispacci dall’Italia. 

Il Berlusconi “vecchio putiniere”, come ha  voluto sfotterlo Ellekappa sulla prima pagina di Repubblica, ha procurato “disagio e dispiacere”, come ha titolato il Corriere della Sera scrivendo di Palazzo Chigi. La cui inquilina solo qualche giorno fa a Bruxelles, rispondendo ai giornalisti che tentavano di stanarla sui rapporti col Cavaliere, lo aveva definito con involontario umorismo, visto ciò che l’attendeva al suo ritorno a Roma, “il migliore ministro degli Esteri d’Italia”, solo per caso, diciamo così, o giusto per non affaticarlo più di tanto, rappresentato alla Farnesina dal suo vice politico Antonio Tajani. Del quale pure si può comprendere e immaginare l’imbarazzo nell’apprendere che cosa avesse appena detto il suo capo uscendo dal seggio elettorale dove aveva votato non si sa per la conferma del leghista Attilio Fontana al vertice della Lombardia o per Letizia Moratti. Nei cui riguardi Repubblica, pur smentita, ha più volte attribuito nella scorsa settimana quanto meno la tentazione avuta dal Cavaliere di preferirla nella corsa al Pirellone. 

Tutto ormai di, su e attorno a Berlusconi è un misto di cronaca, retroscena e leggenda. Il guaio è che non si riesce mai a vedere bene i confini fra le varie versioni o edizioni dell’ex presidente del Consiglio. Non vi riesce, temo, neppure una politica professionista e ormai salita al vertice del governo come Giorgia Meloni. Il cui “peccato”, per stare al titolo di oggi del Foglio, dove ancora Berlusconi è chiamato “l’amor nostro”, anche se Giuliano Ferrara ha dichiaratamente smesso di votarlo, è forse quello di essere salita, appunto, troppo in alto nel centrodestra, sino a rovesciarne il nome in destra-centro.  

Finalmente concluso il festival di Sanremo nella edizione più politicizzata della sua lunga storia

Bene. Si è conclusa a giornali già stampati, prenotando così ribattute e qualche prima pagina di domani, anche questa specialissima edizione del festival canoro di Sanremo, gratificata di un mezzo patrocinio della Presenza della Repubblica con l’arrivo del capo dello Stato, per la prima volta, al teatro Ariston per godersene almeno le prime battute. Fra cui la Costituzione selezionata da Roberto Benigni esaltandone due articoli, in particolare: contro la guerra, per quanto me stiamo aiutando una a favore, giustamente, dell’Ucraina aggredita dai russi, e per la libera manifestazione del pensiero, dopo il pur lontano ventennio fascista che impose la sua mordacchia. 

Il festival è stato vinto sul piano canoro da Marco Mengoni, seguìto da Lazza, Rain, Ultimo e Tananai: tutti invitati in Ucraina nel giorno, si spera non lontanissimo, anche della sua vittoria su Putin nel messaggio rigorosamente scritto di Zelensky letto da Amadeus in persona in giacca bianca. Un colore non molto felice ricordando la bandiera bianca sventolante sul ponte cantata dal compianto Franco Battiato.

Sul piano politico, in verità non nuovo a Sanremo, ma questa volta aumentato di visibilità e altro per la già ricordata e inedita presenza del presidente della Repubblica in apertura, non avendo potuto la giuria votare anche su questo interferendo nelle elezioni regionali di oggi e domani in Lombardia e Lazio, abbiamo assistito al solito, stucchevole tentativo di contrapporre attorno e dentro l’Ariston destra e sinistra. A destra mettendo, per esempio, quanti non hanno gradito la mezza o sostanziale sponsorizzazione del Quirinale,  tutti un pò al servizio o al seguito dello scettico leader leghista Matteo Salvini, e a sinistra di conseguenza quelli favorevoli, anche se non sono mancate voci di dissenso e persino di derisione anche da quella parte. 

Tuttavia il problema posto, volente o nolente, dal buon Mattarella correndo con la figlia a Sanremo non è stato di natura soltanto o prevalentemente politica, con la solita contrapposizione -ripeto- di destra e sinistra, di governo e opposizione. E’ stato di natura prevalentemente culturale o di costume. Di natura addirittura “pedagogica”, com’è scappato di scrivere al quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda e ai suoi imitatori. 

Il Quirinale ha riproposto un rapporto che appassionò a suo tempo un autore molto caro al nostro presidente della Repubblica. Il quale citò una volta Alessandro Manzoni, in una sortita istituzionale, per esortare a non confondere il buon senso col senso comune, cioè col conformismo.  Che questa volta invece è prevalso, anche troppo. E non ha fatto salire ma scendere la politica lungo i gradini dell’Ariston, con effetti -temo- non abbastanza meditati dal capo dello Stato, senza per questo volergli mancare di rispetto come hanno fatto invece altri critici nelle cui osservazioni mi sono parzialmente e sorprendentemente ritrovato, a cominciare da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano di venerdì.

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Mario Moretti in semilibertà già dal 1997 con sei ergastoli sulle spalle

Mentre una minoranza consistente di italiani di buona volontà e bocca risulta comprendere, se non addirittura condividere le proteste del detenuto anarchico, gambizzatore e dinamitardo Alfredo Cospito, appena confermato nel regime del carcere duro del famoso articolo 41 bis dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, è venuta fuori una notizia che smentisce clamorosamente l’impressione, alimentata proprio dalle polemiche su Cospito, che il sistema penitenziario sia generalmente troppo stretto, troppo invasivo, troppo poco pedagogico e perciò in conflitto latente con l’articolo 27 della Costituzione. Che dice, fra l’altro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.  

E’ un articolo, quest’ultimo, che il mio amico Piero Sansonetti sul Riformista ha rimproverato a Roberto Benigni di non avere evocato nell’esaltazione della Costituzione fatta in apertura del festival canoro di Sanremo alla gratificante presenza del capo dello Stato, preferendo gli articoli contro la guerra e per la libera manifestazione del pensiero. 

Ebbene, Mario Moretti, 77 anni compiuti, il capo delle brigate rosse che guidò personalmente nel 1978 l’operazione del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, a distanza di 45 anni da quell’impresa e di 42 anni dalla cattura, con ben sei ergastoli da scontare per la sua  sanguinosa attività terroristica, vive già dal 1997 in regime di semilibertà. Che è evoluto da allora in modo tale che, pur dovendo rientrare nel carcere di Verziano alle ore 22 e uscirne la mattina dopo, egli ha potuto fissare domicilio in una casa di Brescia, svolgere azione di volontariato e spostarsi in auto sino a Milano. 

Egli si è guadagnato questi sei ergastoli non ostativi, come si dice oggi, senza essersi mai dissociato e pentito del terrorismo, ma limitandosi a prendere atto della sua fine quando venne sconfitto. E soprattutto senza avere mai aiutato la giustizia a chiarire i tanti punti oscuri della tragedia Moro: tanti e tanto oscuri da avere impegnato, oltre a tanti inquirenti e giudici, varie commissioni parlamentari. L’ultima delle quali, presieduta dall’ex ministro Giuseppe Fioroni, ha accertato che i colpi  contro l’ostaggio inerme nel bagagliaio di un’auto il 9 maggio 1978 furono sparati da Moretti e complici in modo tale da prolungarne al massino la dolorosa agonia. 

Per non parlare degli uomini -tutti gli uomini- più giovani della scorta sterminata il 16 marzo 1978, Moro aveva solo 62 anni quando Moretti e gli altri brigatisti rossi lo ammazzarono. Il mese scorso Moretti, che allora ne aveva 32, ha potuto compierne 77 grazie anche al modo in cui è stato ed è tuttora trattato, in semilibertà, dal tanto spregevole e disumano sistema penitenziario italiano. Che pure il boss mafioso Matteo Messina Denaro temo abbia preferito, lasciandosi catturare, a cliniche e ospedali frequentati da latitante per curarsi di un tenace tumore.  

Reazione elettoralistica della Meloni alle critiche per gli attacchi a Macron

Per stare alla facciata di Palazzo Chigi come  l’ha voluta illuminata Giorgia Meloni di ritorno dal Consiglio Europeo straordinario, s’impone ormai il ricordo, oltre al vecchio dramma delle foibe, dello “strappo” -come ha titolato Repubblica- che la premier italiana ha voluto consumare nei riguardi di Macron in apertura e in chiusura dell’importante evento comunitario di Bruxelles. “L’avviso dei partner: così Giorgia farà piccola l’Italia”, ha insistito Repubblica in un altro titolo. Ma è l’opposto di notizie e valutazioni di altri giornali secondo cui la Meloni ha raccolto nella stessa Unione Europea e nella maggioranza con la quale governa in Italia apprezzamenti per gli attacchi a Macron. Che improvvisando a Parigi un vertice conviviale col cancelliere tedesco Sholz e il presidente ucraino Zelensky avrebbe rivendicato il primato franco-tedesco in un’Europa che rischierebbe così “la fine del Titanic”. Su cui ha titolato il manifesto riportando anche le parole della Meloni sulla morte che accomunò tanti passeggeri, a prescindere dal biglietto che avevano pagato e delle classi in cui avevano navigato. Paragone -bisogna riconoscerlo- azzeccato, al di là del giudizio che ciascuno voglia esprimere sulla opportunità e sui tempi scelti dalla Meloni per riaprire un altro conflitto politico con Parigi. 

I tempi scelti dalla presidente del Consiglio sono, fra l’altro, quelli strettissimi delle elezioni regionali di domani e lunedì in Lombardia e Lazio, dove sono assai probabili sia la vittoria del centrodestra, o destra-centro, sia l’aumento delle distanze fra il partito della Meloni e gli alleati. La bandiera nazionale e insieme europea nella quale la premier ha voluto avvolgersi contro l’asse franco-tedesco potrebbe in effetti giovarle. “L’isolato è Macron”, ha titolato Libero.

Pur in una funzione elettoralistica che ha sempre i suoi limiti, vista la volatilità degli umori nelle urne, va detto che la Meloni ha trovato sulla strada nelle ultime 24 ore comprensioni e persino solidarietà che vanno oltre il suo schieramento politico. 

Anche Fabio Rampini, per esempio, ha scritto nell’editoriale odierno del Corriere della Sera che “il motore franco-tedesco dell’Unione è in uno dei punti più bassi”, considerando “la morte celebrale della Nato” su cui aveva scommesso imprudentemente Macron prima dell’aggressione russa all’Ucraina e la mancata “svolta della politica militare tedesca” promessa da Sholz di fronte alla guerra voluta da Putin. Sono seguite solo le dimissioni della ministra della Difesa a Berlino. 

Suonano a favore della Meloni anche quelle “torrette contro i migranti” appena strappate all’Unione con l’aiuto della presidente della Commissione Ursula von der Layen, con tanto di titolo e fotomontaggio sull’insospettabile Fatto Quotidiano, che abitualmente non fa favori al governo in carica, salvo sul caso del carcere duro contrastato col digiuno dal detenuto anarchico Alfredo Cospito e appena confermato dal ministro della Giustizia.

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Clamorosa caduta della Meloni a Bruxelles nelle provocazioni degli avversari

Un misto di sfortuna e di imprevidenza ha fatto uscire la presidente italiana del Consiglio dall’apertura del Consiglio Europeo straordinario  a Bruxelles come peggio, francamente, non si poteva facendole meritare “il giorno nero di Meloni” sparato in prima pagina da Repubblica. Che già ieri le aveva contestato con quel “Vertice senza l’Italia” il mancato invito al vertice conviviale improvvisato dal presidente francese Macron col presidente ucraino Zelensky e il cancelliere tedesco Sholz. 

La sfortuna è stata quella  -spero  solo per ragioni di cosiddetto cerimoniale che prescindono da questioni o problemi personali- di capitare nella foto collettiva dei partecipanti al Consiglio Straordinario in seconda fila dietro un Macron troppo più alto di lei per farla riprendere del tutto. L’ha un pò salvata il colore rosso, suo malgrado politicamente, della giacca che indossava,

L’imprevidenza, direi anche assoluta, senza più l’attenuante dell’inesperienza, essendo trascorsi più di cento giorni dal suo arrivo a Palazzo Chigi, avendo partecipato ad altri eventi internazionali e soprattutto avendo già avuto con Macron qualche problema di porti e immigrazione; l’imprevidenza, dicevo, è stata quella di protestare pubblicamente contro il vertice “inopportuno” della vigilia con Zelensky e Sholz promosso dal presidente francese senza invitarla. Manco morto, diciamo così, un capo di governo può commettere un errore così autolesionista. E, in più, ai fini della politica interna, la presidente del Consiglio è non scivolata, non caduta ma precipitata nella provocazione degli avversari così chiaramente espressa dal già ricordato titolo di ieri di Repubblica e affini.

L’infortunio è politicamente rilevante come lo sarebbe stato sul piano del buon gusto se la Meloni avesse deciso di protestare contro quel mancato invito dicendo che Macron preferisce la presenza e la compagnia di donne di una certa età. 

Poiché le provocazioni sono come le ciliegie, una tirando l’altra, la Meloni si è procurata anche la versione pur forzatissima del Fatto Quotidiano di un incontro “bilaterale” con Zelensky programmato e “negato”. Versione forzatissima, dicevo, anzi falsa, perché l’incontro a due si è svolto, e non solo per darsi la mano e scambiarsi carinerie, sia pure in appendice, voluta espressamente da Zelensky, a quello con i rappresentanti di altri paesi, in gruppi preselezionati dall’organizzazione del Consiglio Straordinario. 

L’errore della Meloni rischia di creare qualche problema a Roma al presidente della Repubblica, peraltro già reduce da una mezza e controversa sponsorizzazione istituzionale del festival canoro di Sanremo. Il titolo di prima pagina di una nota del quirinalista della Stampa, Ugo Magri, dice che il Colle, per quanto imbarazzato, “chiede il rispetto del patto del Quirinale” di collaborazione, sintonia e altro fra Italia e Francia firmato con tanta solennità e svolazzi di frecce tricolori all’epoca certo non lontana del governo di Mario Draghi. 

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Se la critica ad un governo sgradito sconfina nel disfattismo

L’incontro svoltosi ieri a Parigi fra i presidenti francese, tedesco e ucraino è stato trasformato da Repubblica, con un grido di allarme e insieme di protesta o derisione verso Giogia Meloni, in un “Vertice senza l’Italia”. 

D’altronde, già il 5 febbraio scorso la presidente del Consiglio era stata liquidata in un editoriale del direttore Maurizio Molinari in persona, sempre su Repubblica, come una sprovveduta, o temeraria, caduta “nella trappola del tribalismo politico”  nei rapporti fra il suo e gli altri partiti della stessa maggioranza, oltre che dell’opposizione. Un tribalismo proteso, per esempio,  a fare polpette degli alleati nelle elezioni regionali di domenica in Lombardia e nel Lazio. Un tribalismo che evidentemente la distrarrebbe o addirittura le impedirebbe di occuparsi seriamente di politica internazionale, per quanti viaggi e missioni la premier stia compiendo in questi ultimi tempi. 

Proprio oggi Meloni partecipa a un Consiglio Europeo straordinario, ai cui “margini” -ha titolato sempre Repubblica minimizzando-  incontrerà a Bruxelles il presidente ucraino. Dal quale volerà poi a Kiev entro il 24 febbraio, primo anniversario dell’aggressione russa al paese limitrofo, cui l’Italia sta fornendo con gli alleati l’assistenza economica e militare necessaria per resistere e non perdere potere contrattuale, se e quando Putin, o chi per lui, dovesse accettare a Mosca l’idea di negoziare una pace. 

Più misuratamente e realisticamente di Repubblica, sul Messaggero hanno riferito e riassunto lo scenario internazionale titolando: “Zelensky a Londra e Parigi per i jet. E oggi a Bruxelles incontra Meloni”. Che fortunatamente per l’Ucraina e per gli interessi più generali dell’Occidente, oltre che per la faccia dell’Italia, non  credo che si riconosca nella interpretazione data da Benigni al festival di San Remo, presente il capo dello Stato, del famoso articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra. Una interpretazione della quale si fanno forti i contrari agli aiuti italiani all’Ucraina. Vi ha pensato Amadeus, nella vignetta di oggi sul Corriere della Sera, esortando il giullare a “sorvolare oh oh”. 

I pasticci, si sa, rimangono sempre pasticci, per quanti sforzi si possano fare per renderli dei buoni affari mediatici e politici. D’altronde, la “storica” partecipazione di Mattarella all’inaugurazione del festival di Sanremo, quasi una festa supplementare della Repubblica affidata alla Rai, è già diventata funzionale, su qualche giornale malizioso come Il Fatto Quotidiano, alla salvezza dell’amministratore delegato dell’azienda radiotelevisiva di Stato sotto pericolo o minaccia di sostituzione prima della scadenza del mandato. Non parliamo poi degli ottocentomila telespettatori  in meno rispetto all’anno scorso opposti, sempre dal Fatto Quotidiano, all’ascolto “record” vantato sul palco del teatro Ariston della città dei fiori. 

Mattarella al festival di Sanremo ha fatto impazzire i vignettisti

Caro direttore, complimenti per l’anticonformismo, al limite della sfida, praticato non trovando deliberatamente un titolo, uno spazio, un accenno nell’edizione di ieri del Dubbio, dalla prima all’ultima pagina, all’inaugurazione del lungo e in qualche modo assordante festival canoro di Sanremo. 

Hai voluto e saputo resistere alla leva appunto del conformismo anche quando i geni del teatro Ariston e dintorni, sino a Roma Capitale d’Italia, sono riusciti a convincere il buon Sergio Mattarella a onorare della sua presenza la prima serata di questa che è diventata così anche un’edizione storica della manifestazione canora nazionale: riuscita a procurarsi “per la prima volta”, come ha gridato Amadeus, la partecipazione del capo dello Stato.

Il buon Mattarella, per quanto mi riguarda, senza volerti minimamente coinvolgere in questo giudizio, meriterà  alla fine del suo secondo mandato di essere ricordato per ben altre presenze e iniziative: dalla resa alla rielezione che non voleva ma meritava, e serviva a salvare il Paese anche da una crisi istituzionale che i partiti non avevano saputo risparmiarsi, al ricorso a Mario Draghi per la formazione di un governo davvero di emergenza, anche a costo di incorrere nell’accusa di “Conticidio” da parte dei grillini; dall’ appello ad una “rigenerazione” della magistratura, dopo l’esplosione dello scandalo del mercato correntizio e politico delle nomine, allo stimolo alla partecipazione dell’Italia agli aiuti economici e militari all’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin; dall’accorciamento di una legislatura ormai troppo logora, come quella passata, alla nomina della prima donna alla guida di un governo nella storia d’Itala non appena un chiaro risultato elettorale glielo ha consentito. E ciò senza lasciarsi condizionare dalle rievocazioni spesso strumentali del centenario della marcia su Roma di un Mussolini praticamente antenato della nuova e giovane presidente del Consiglio. Potrei andare avanti ancora per molto, ma mi fermo qui per non perdere lo spazio necessario ad altre osservazioni e puntualizzazioni. 

La mistificazione del festival di Sanremo, pur tra le comiche proteste dei consiglieri di amministrazione della Rai sorpresi dalla notizia e perciò insorti e reclamare chissà quali diritti a informazioni e preventive autorizzazioni, ha il sapore amaro -agli occhi, alle orecchie e al cervello, temo, di tantissimi italiani- di un tentativo soporifero di distrazione di massa, diciamo così, da vecchi e nuovi problemi in cui da tempo si perde la politica nazionale, anche nell’ultima edizione di governo, se Gorgia Meloni me lo permette. E se la premier -o il premier, come preferisce-  non me lo permette o dissente, pazienza. Problemi fra i quali includo naturalmente anche quelli sollevati, in curiosa coincidenza con la nascita del governo attuale, dal digiuno del detenuto anarchico Alfredo Cospito contro il cosiddetto carcere duro dell’articolo 41 bis, concepito in altri tempi e in altre circostanze, si spera, molto diverse e meno gravi delle attuali. 

D’altronde, se il problema fosse davvero quello della necessità o opportunità di una distrazione di massa, potrebbero bastare e avanzare in un Paese e in una società normali, quali mi auguro sia ancora rimasta l’Italia, l’immane tragedia turco-siriana di un terremoto di cui ancora non si sono contate esattamente le migliaia di vittime, peraltro in terre già da troppo tempo insanguinate da guerre. 

Mattarella si sarà mosso, si sarà lasciato convincere alla sostanziale “istituzionalizzazione” -si è detto e scritto- del festival di Sanremo dalle migliori intenzioni, per carità. Ma delle migliori intenzioni è lastricata la via dell’inferno, dice un vecchio proverbio che vale per tutti, anche per il presidente della Repubblica. Al quale Marzio Breda, il quirinalista storico anche lui del Corriere della Sera, ha attribuito la decisione di correre a Sanremo, fra canti patriottici e inni alla solita, più bella Costituzione del mondo, nonostante i 75 anni che si porta addosso, e sono tanti, per “rilanciare un sua virtuosa pedagogia costituzionale”. Al livello, evidentemente, più basso o popolare possibile, non bastando quello alto o altissimo, secondo le preferenze, delle sue prerogative scritte dai costituenti fra il 1946 e il 1947, dopo la rovinosa e meritata caduta referendaria della monarchia compromessasi nel fascismo oltre ogni limite, anche razziale. 

Mi chiedo tuttavia, con tutto il rispetto per il capo dello Stato e di chi pensa di interpretarlo al meglio scrivendone, parlandone e cantandone, se è lecito il tentativo, di cui avverto forte la puzza, di abusare della pedagogia per continuare a  nascondere sotto il tappeto vecchi problemi, e metterne anche di nuovi. Fra i quali includo quelli trattati, a proposito dell’Occidente e della guerra in Ucraina, nell’articolo di Thomas Lauren Friedmann che Il Dubbio ha ripreso in prima pagina dal New York Times.

Io non lo credo. E ti ringrazio di nuovo, caro direttore, per avermi fatto sentire ancora di più a casa mia, diciamo così, dopo tanti anni di lavoro giornalistico, con la tua renitenza al conformismo. 

Pubblicato sul Dubbio

Cospito travolto dalle macerie turco-siriane e dal festival della Repubblica a Sanremo

Quello sfrontato di Alfredo Cospito, il detenuto anarchico scambiato anche da mafiosi, terroristi e simili per un mezzo statista in gabbia capace di aiutarli col suo sciopero della fame a liberarsi del cosiddetto carcere duro del 41 bis, è quanto meno uno sfigato, oltre che un criminale. Egli ha azzeccato i tempi d’inizio della protesta,  facendoli scorrere con quelli del governo di Giorgia Meloni, e quindi celebrando insieme i loro primi cento giorni, ma ha tirato le cose tanto a lungo da incrociare due eventi che lo imprigionano ancora di più dov’è. Due eventi di distrazione di massa, dei quali uno tragico e l’altro di varietà, chiamiamola così. 

L’evento tragico è l’apocalisse turco-siriana con quelle “voci sotto le macerie”, come ha  titolato  il Corriere della Sera, destinate a rendere quella di Cospito dal carcere di Opera una stecca. “Una scorreggia nello spazio”, come disse l’Umberto Bossi dei tempi brillanti parlando dell’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, prima di lasciarsene corteggiare per far cadere anzitempo il primo governo di Silvio Berlusconi.

L’evento che ho chiamato di varietà è naturalmente il festival canoro di Sanremo, che ha sempre invaso le prime pagine dei giornali e i palinsesti televisivi della Rai ma quest’anno, con la  sorpresa della presenza del capo dello Stato, la prima volta nella storia della manifestazione, è diventata una specie di festa suppletiva della Repubblica e della sua Costituzione, recitata in sala da Roberto Begnini. Che ne ha esaltato la bellezza e quant’altro, peraltro nel 75.mo anniversario della sua nascita, incorrendo nella “cattiveria” di giornata del Fatto Quotidiano, corso a ricordare i giorni nei quali, nel non lontanissimo 2016, l’artista sostenne la riforma intestatasi con imprudente orgoglio da Matteo Renzi, bocciato nel referendum che avrebbe dovuto confermarla. 

Il quirinalista principe, che rimane Marzio Breda del Corriere della Sera, per quanto bacchettato qualche tempo fa da una smentita infastidita del capo dello Stato per quanto aveva scritto del suo atteggiamento di fronte al nascente governo Meloni; il quirinalista principe, dicevo, ha scritto che la sorpresa della presenza del presidente della Repubblica a Sanremo, in galleria con la figlia, si deve alla  scelta di “rilanciare una sua virtuosa pedagogia costituzionale”. Sino a fare, come si è già detto da qualche parte, una “istituzione” del festival della canzone. Non a caso, del genere, qualcuno si era proposto, aveva tentato e via presumendo di portarvi almeno in collegamento anche il presidente ucraino Zelensky, fra un missile e l’altro che Putin scaglia addosso al suo popolo da quasi un anno. Poi il collegamento video è stato ridimensionato, almeno sino al momento in cui scrivo, ad una lettera che spero sarà letta da Amadeus col tono giusto di voce, senza papere, e assistito da una donna in tenuta più succinta di quella offerta ieri agli occhi di Mattarella e figlia. 

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Musi lunghi al Nazareno per il percorso congressuale sempre più accidentato del Pd

Musi lunghi al Nazareno, non solo per le “macerie continue”, come le ha chiamate il manifesto, della lontana apocalisse turco-siriana che ha riempito il mondo di angoscia e di orrore, ma anche, e forse ancor di più, senza volere offendere chi lavora o frequenta la sede nazionale del Pd, per le notizie che arrivano dalla periferia sulle votazioni nei circoli per il congresso. Vi partecipa poco più della metà degli iscritti, francamente un pò poco per un appuntamento dichiaratamente “costituente”, e per giunta neppure esente da irregolarità, proteste, ricorsi, persino nella Bologna del candidato in testa nella corsa alla segreteria: il “governatore” regionale Stefano Bonaccini. In Campania alcune votazioni e liste di iscritti sono state bocciate e “volano gli stracci”, come ha titolato qualche giornale.

Fra gli stracci volanti c’è anche il commissario mandato sul posto dal Nazareno, Francesco Boccia, di cui sono state preannunciate per oggi le dimissioni, ma non da coordinatore della campagna congressuale di Elly Schlein, che tallona Bonaccini e si mostra sicuro di sorpassarlo. 

Le acque nel Pd, nonostante la facciata unitaria delle proteste contro Giorgia Meloni e i suoi fedelissimi, che hanno dubitato della fermezza antimafiosa e antiterroristica di un partito che ha versato del sangue sulla strada della lotta all’una e all’altra sciagura nazionale, sono state agitate anche dalla gestione un pò pasticciata, al Nazareno e dintorni, del caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Che è in lungo digiuno di protesta contro il regime speciale del carcere cui è sottoposto al pari di mafiosi e terroristi, appunto. 

La visita di una delegazione di parlamentari del Pd che doveva essere il 12 gennaio scorso di legittima ispezione, verifica e quant’altro delle condizioni del detenuto si è andata via via appesantita di iniziative a dir poco maldestre sollecitate dallo stesso Cospito. Che ha finito per riuscire a coinvolgere in quella visita anche detenuti di mafia e simili. La divulgazione di questo pasticcio nelle aule parlamentari per iniziativa, responsabilità e quant’altro di un sottosegretario alla giustizia e di un deputato fedelissimi della Meloni, che li ha praticamente difesi pur raccomandando a tutti, anche a loro, di abbassare i toni delle polemiche; la divulgazione di questo pasticcio, dicevo, ha moltiplicato le difficoltà del partito guidato ancora per poco da Enrico Letta. Dove sono emerse sensibilità, a dir poco, diverse se non veri e propri contrasti sulla permanente opportunità del regime speciale del famoso articolo 41 bis dell’ordinamento carcerario. E ciò a dispetto di una larga condivisione di questo regime emersa da sondaggi condotti o commissionati anche da contrari al cosiddetto carcere duro.

Intervistata qualche giorno fa dalla Stampa, anche l’ex presidente ed ex ministra del Pd Rosy Bindi ha ammonito i suoi amici che “è inutile dividersi su questo punto, poiché caso per caso la decisione spetta alla magistratura e al ministro”. 

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