Giorgia Meloni arriva stressata alle trattative di governo con gli alleati

Giorgia Meloni

A volerla dire tutta con franchezza, al netto dell’ottimismo e della grinta di facciata che le ha appena fatto promettere “il governo più politico di sempre”, Giorgia Meloni sta arrivando stressata all’insediamento delle Camere, domani, e alle trattative vere per la formazione del governo con i suoi alleati di centrodestra, quando Sergio Mattarella potrà finalmente conferirle l’incarico di presidente del Consiglio. Quelle svoltesi sino ad ora, del tutto informali, non sono state trattative. Sono stati incontri o contatti, spesso del tutto occasionali, serviti solo a moltiplicare i dubbi dell’interessata, o farle fare il classico segno della croce.  

Dalla prima pagina della Stampa

Sentite questo passaggio della cronaca della Stampa di oggi, in prima pagina: “Lontano dalle telecamere va in scena un breve faccia a faccia tra Meloni e Ronzulli. Non serve a nulla, se non a far capire alla senatrice che la premier in pectore non si muove di un millimetro. Il governo si allontana: per Ronzulli si inizia a parlare della presidenza del gruppo di Forza Italia a palazzo Madama. Meloni si sfoga con i suoi. “Io voglio un governo con le persone giuste al posto giusto- ripete allo sfinimento- non come quello di Berlusconi nel 2018”. Un esecutivo di cui lei faceva parte ma, a quanto pare, non conserva proprio un’ottima memoria”: fu prima minato da una mezza guerriglia politica condotta con grande disinvoltura dall’allora presidente della Camera Gianfranco Fini, sino a proporne la sfiducia, e infine spazzato via per fare posto al loden e al laticlavio di Mario Monti.

Titolo del Riformista
Titolo di Repubblica

Purtroppo non è una forzatura giornalistica né “l’asta di governo” lamentata su tutta la prima pagina da Repubblica, riferendo appunto del traffico nell’ufficio di Giorgia Meloni a Montecitorio, né la rappresentazione amletica della giovane leader della destra italiana proposta dal Riformista attribuendole questa domanda: “Licia Ronzulli dove la metto?”. 

Non si tratta della prima ex infermiera – sia detto senza volontà di offendere- che incrocia le simpatie e la fiducia di Berlusconi, ma questa Ronzulli è la prima che sta facendo davvero rischiare il naufragio del primo governo a guida femminile nella storia d’Italia per l’ostinazione con la quale il Cavaliere ha deciso di sostenerne le ambizioni, liquidando come “arroganti”, senza uno straccio di smentita o precisazione, le resistenze della candidata a Palazzo Chigi, Alla quale pure non più tardi di qualche giorno fa, intervistato da Augusto Minzolini per il Giornale di famiglia, l’ex presidente del Consiglio aveva riconosciuto “la determinazione e la lucidità” necessarie a guidare il governo. 

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La rincorsa paradossale del “secondario” da parte di Giorgia Meloni

All’insorgenza di ogni difficoltà nei rapporti con gli alleati di centrodestra per la formazione del governo, in attesa che le tocchi davvero l’incarico  di presidente del Consiglio dopo l’insediamento delle Camere e le consultazioni di rito al Quirinale, Giorgia Meloni declassa il problema a “questione secondaria”. E cerca così di smarcarsi, fra un appuntamento e l’altro dei suoi, come quello di ieri con gli eletti del suo partito.

D’altronde non ci sono alternative a questo modo di procedere, essendo ancora tutto appeso per aria. Neppure alle opposizioni conviene drammatizzare la rappresentazione dei fatti e chiedere chissà quali accelerazioni perché anch’esse hanno i loro problemi e non sono certamente in grado di formulare alternative ad una coalizione di centrodestra che dispone della maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. 

Giuseppe Conte

Non è che scendendo in piazza, le opposizioni si ritrovino d’incanto unite e tanto meno in vantaggio. Tutt’altro. La manifestazione pacifista, per esempio, adombrata da Giuseppe Conte di fronte alla recrudescenza della guerra in Ucraina se davvero si dovesse svolgere, metterebbe in difficoltà proprio il presidente del MoVimento 5 Stelle perché interromperebbe, con un netto rifiuto del Nazareno, il processo di liquefazione del Pd avviatosi con l’annuncio delle dimissioni del segretario Enrico Letta e l’avvio delle procedure congressuali dopo che lo stesso Conte aveva posto come condizione per la ripresa di un rapporto il cambiamento del “gruppo dirigente” di quello che, fra l’altro, rimane nei numeri elettorali e parlamentari il principale partito di opposizione. 

Certo, sono ripresi i sondaggi, dai quali emerge una certa tendenza di Conte a guadagnare di più e di Enrico Letta a perdere ulteriori decimali, ma il Parlamento ormai è quello che è e nessuno può onestamente pensare  ad un altro scioglimento a breve delle Camere, in pendenza peraltro del bilancio. Ognuno quindi si deve dare quella che si chiama una regolata e mettersi al passo con la realtà interna e internazionale, sociale e politica, economica e finanziaria, e sanitaria. 

Mario Draghi e i ministri sullo scalone di Palazzo Chigi

Per fortuna in questo passaggio di mano, e di legislatura, i partiti -paradossalmente, loro malgrado- hanno potuto contare sulla serietà di comportamento e sul prestigio internazionale di un governo come quello di Mario Draghi. Che ieri ha messo in fila per la foto di commiato i suoi ministri sullo scalone di Palazzo Chigi ricordando che i governi passano ma l’Italia resta, qualunque sia -mi permetto di aggiungere- il ministro dell’Economia che alla fine riuscirà a trovare, tecnico o politico che sia, una Giorgia Meloni forse sorpresa, ed anche preoccupata, da tante resistenze incontrate  nella ricerca. 

Il rosso e il nero di Giorgia Meloni sulla strada di Palazzo Chigi

Dalla prima pagina di Repubblica

Quel rosso distribuito fra le labbra e l’abito scelto per l’occasione, per un messaggio augurale ai “patrioti” spagnoli della formazione franchista Vox, ma indirettamente anche ad altre formazioni affini al partito conservatore europeo che lei presiede orgogliosamente, non è naturalmente bastato a Giorgia Meloni per non insospettire, allarmare e quant’altro un giornale come La Repubblica. Nè le è valsa a questo riguardo la concessione fatta, anzi vantata, trovandosi non in una piazza ma in un ufficio davanti ad una telecamera, di parlare “a voce bassa”, o comunque senza gridare come in precedenti occasioni comiziali in terra spagnola che le hanno procurato impietose diagnosi politiche di fascismo, post-fascismo e simili. 

    Quell’abbraccio o “riabbraccio” della Meloni alla Vox spagnola di Santiago Abascal è apparso di per  sé al giornale fondato dal compianto Eugenio Scalfari una scelta preoccupante per chi, vinte le elezioni del 25 settembre, trascorre i suoi giorni in Italia aspettando l’insediamento delle Camere, giovedì prossimo, le consultazioni al Quirinale e il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio -prima donna peraltro nella storia d’Italia- da parte di un capo dello Stato già insorto a sua difesa contro la “vigilanza” reclamata da una ministra francese, messa in riga tuttavia anche a Parigi dal suo superiore Emmanuel Macron. 

Dalla prima pagina della Stampa

Alla Stampa, tuttavia, dello stesso gruppo editoriale di Repubblica, ma più vicina non foss’altro fisicamente alla “proprietà”, quel tocco di rosso   adottato dalla Meloni qualcosa ha prodotto. Un politologo della notorietà e qualità di Giovanni Orsina si è chiesto, nello stesso titolo del commento, anch’esso in prima pagina, “se Giorgia sposta gli equilibri” nell’Unione Europea, riconoscendo alla candidata a Palazzo Chigi una “strategia europea” che “comincia a delinearsi con una certa chiarezza”. 

Sempre dalla prima pagina del Foglio
Dalla prima pagina del Foglio

Il professore Orsina si è spinto anche oltre il Foglio, dove il direttore Claudio Cerasa ha scritto  -fra titolo, sommario e testo di un commento improvvisato per il numero preconfezionato del lunedì- che “il futuro governo” Meloni “dovrà scegliere come tutelare l’interesse nazionale: con il nazionalismo o costruendo nuove alleanze”. Appunto, che cosa sceglierà? Cerasa si è risposto da solo scrivendo: “Se Meloni sarà coerente con se stessa, sarà un dramma. Se no, potrebbe diventare un modello su cui scommettere”. Bel furbo, il Cerasa dell’ancor più furbo Giuliano Ferrara, che diffida di quelli che lui chiama ogni tanto “i paracarri”.  

Silvio Berlusconi oggi al Giornale

Qualcosa comunque ha cominciato a muoversi  a  favore della giovane leader  dei fratelli d’Italia riuscita  a far vincere il centrodestra terremotandone i vecchi rapporti di forza. Lo stesso Silvio Berlusconi, che ripete un giorno sì e l’altro pure la litania ormai del ruolo di garanzia suo personale e di quel che è rimasto di Forza Italia nelle urne e in Parlamento, si è sciolto oggi. Nell’ennesima intervista al direttore del Giornale di famiglia, Augusto Minzolini, egli è tornato praticamente a dare del tu alla Meloni e a chiamarla col nome, e non con quella gelante “signora”. “Giorgia -ha detto il Cavaliere, come per affrancarla dopo l’ultimo incontro avuto con lei ad Arcore e in vista del prossimo a Roma- non ha bisogno dei miei consigli. Ha la determinazione e la lucidità necessarie per guidare il Paese in un momento così difficile”.  

Fedele Confalonieri

Ne sarà rimasto soddisfatto il fedele di nome e di fatto Confalonieri, che già prima delle elezioni si era esposto in una intervista sollecitando l’amico di una vita, Silvio, a sponsorizzare la scalata della sua ex ministra della Gioventù a Palazzo Chigi. Il Corriere della Sera ha tuttavia raccolto e rilanciato voci su malumori di Berlusconi per le resistenze che della Meloni alla candidatura della fidata Licia Ronzulli a un incarico importante di governo.

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Miracolo in piazza a Roma: il centrodestra non ha vinto. Conte in sorpasso sul Pd

A sentire Maurizio Landini ieri in Piazza del Popolo, a Roma, tra bandiere vere, per carità, ma argomenti forse un pò troppo truccati, si stava più o meno contemporaneamente celebrando ad Arcore, nella villa di Silvio Berlusconi, un vertice abusivo di celebrazione della vittoria elettorale del centrodestra  e di preparazione del nuovo governo, in attesa di formalità più o meno burocratiche costituite dall’insediamento delle Camere, il 13 ottobre, dalle consultazioni al Quirinale e dal conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio a Giorgia Meloni. 

Titolo del Giornale
Gli “abusivi” di Arcore

Ma cosa si erano messi in testa quei tre e il cagnolino bianco che scodinzolava  fra i loro piedi? In fondo -ha loro ricordato il segretario generale della Cgil nella sua stravagante interpretazione del responso elettorale, se non vogliamo chiamarlo “pregiudizio in piazza”, come ha titolato il Giornale di famiglia di Berlusconi- il centrodestra ha preso il 25 settembre soltanto 12,3 milioni di voti contro i 15,8 di tutti gli altri concorrenti ai 600 seggi parlamentari in palio, e soprattutto i 18 milioni di astenuti e simili. I quali come fantasmi avrebbero il diritto giovedì prossimo di occupare le aule di Montecitorio e di Palazzo Madama. Giù le mani, i piedi e quant’altro, per favore, dal Parlamento, dal Governo e dintorni, mancava solo che gridasse Landini dal palco dell’arbitro assegnatosi sotto la storica terrazza di Giuseppe Valadier.

Titolo della Stampa
Titolo di Repubblica

Ad applaudire Landini c’era anche Giuseppe Conte. Anzi, c’era soprattutto lui, il presidente del MoVimento 5 Stelle. “Conte tra le bandiere”, ha messo lì nel titolo di prima pagina la Repubblica non rendendosi conto esattamente dell’importanza di quella presenza, sottolineata invece dalla Stampa, dello stesso gruppo editoriale, con quella “piazza in cerca d’autore” dove Conte, appunto, “si prende la scena”, dice un titolo a suo modo emblematico della situazione. 

Ancora dal Fatto Quotidiano
Dal Fatto Quotidiano

Ancora più esplicita, o addirittura didattica, è stata la cronaca del solito Fatto Quotidiano, che ha sostituito con la “piazza larga” di Landini il mancato “campo largo” di Enrico Letta, Giuseppe Conte eccetera eccetera. “Per la prima volta a una manifestazione del più importante sindacato italiano, il capo politico dei 5 stelle. Una piazza larghissima, perché non sono mancate neppure le bandiere extraparlamentari di Unione popolare”, ha raccontato il giornale diretto da Marco Travaglio. Che, non potendo evidentemente bastare questo passaggio insolitamente tacitiano è tornato più avanti a spiegare e raccontare: “Ma la novità politica della manifestazione è la prima volta, appunto, di un capo politico del Movimento 5 stelle, mai successo con Grillo e Di Maio. Conte si prende la piazza con una presenza che non era scontata, ormai ben saldo nel ruolo di leader progressista”. E pazienza per Enrico Letta e per tutti quelli che potrebbero prenderne il posto alla guida del Pd fra qualche mese, se il partito del Nazareno esisterà ancora o non sarà stato buttato nel Tevere come un sacco. 

Conte ieri in Piazza del Popolo
Dalla prima pagina di Repubblica di ieri

Del resto, pur cessata formalmente a mezzanotte di venerdì 23 settembre, la campagna elettorale di Conte è ripresa con i sondaggi non più coperti dal silenzio di legge. Non più tardi di ieri l’Atlante di Ilvo Diamanti su Repubblica dava ancora qualche decimo di punto in più a Giorgia Meloni, facendole raggiungere il 26,4 per cento, ma faceva “scendere” il Pd sotto il 18 per cento e “salire” Conte dal 15 al 16,8 per cento. La prossima volta potrebbe essere quella del sorpasso. Allora pure Landini dovrà farsi da parte e lasciare il palco tutto a lui, l’avvocato di Volturara Appula. 

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Gorgia Meloni ottiene da Mattarella una specie di acconto dell’incarico di presidente del Consiglio

La ministra francese Laurence Boone

Sergio Mattarella avrà pure abusato del Pd, come gli ha praticamente rimproverato Enrico Letta attribuendo la causa della sconfitta elettorale alle troppe responsabilità di governo assunte in anni di emergenze anche per rispondere alle larghe intese, solidarietà nazionali e simili via via raccomandate dal Quirinale anche prima di mandare a Palazzo Chigi Mario Draghi, ma gli va riconosciuto il merito di avere saputo e voluto reagire per primo all’abuso, chiamiamolo così, di vigilanza  o preoccupazione europea compiuto dalla ministra francese Laurence Boone con dichiarazioni di cui Giorgia Meloni, spalleggiata appunto da Mattarella, ha preteso e ottenuto riparazioni a Parigi. 

Titolo della Nazione

Condizionato dalla inagibilità, tuttora, delle Camere rinnovate col voto del 25 settembre, in attesa del cui insediamento anche lui è costretto a starsene alla finestra, col suo intervento di protesta e di richiamo immediatamente corrisposto dal presidente francese Emmanuel Macron il capo dello Stato italiano ha  praticamente concesso alla vincitrice delle elezioni una specie di acconto dell’incarico di presidente del Consiglio. E con ciò ha anche riempito metaforicamente di contenuto il lavoro preparatorio e fluido della formazione del governo attribuitosi dalla stessa Meloni con tanto di orari di ufficio a Montecitorio. 

Alessandro Sallusti su Libero
Titolo di Libero

Forse è un pò esagerato quel tre a zero sparato da Libero in prima pagina a favore della Meloni, appunto, sulla Francia della signora Boone. E lo stesso direttore di Libero, Alessandro Sallusti, si è lasciato probabilmente prendere troppo la mano dal patriottismo, se no dal tifo politico, quando ha rivelato la confidenza fattagli da un amico, e provata con tanto di elettronica, che la Meloni già alle ore 5.50 è in piena attività messaggistica di candidata alla guida del governo. Sta “sul pezzo”, ha scritto Sallusti come i giornalisti dicono di se stessi. La Meloni, peraltro, lo è davvero avendo imparato il mestiere al Secolo d’Italia, il quotidiano ufficiale del MoVimento Sociale e partiti indotti. 

Naturalmente stare sul pezzo non basta. E di problemi la Meloni ne sta incontrando, a cominciare dal “suo” centrodestra, dove non è per niente oro tutto ciò che luccica. E -va detto anche questo- non ne luccica molto col terremoto che quel 26 per cento di voti raccolto dai fratelli d’Italia ha provocato in Forza Italia e nella Lega, che ne hanno fatte le spese. La politica, del resto, non è notoriamente un pranzo di gala, anche se i ricevimenti si sprecano. 

Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano

Le tensioni esistenti nel centrodestra, dove peraltro Giorgia Meloni è accusata anche da suoi amici o fratelli di partito di corteggiare troppo tecnici piuttosto che politici per le postazioni di governo più delicate, hanno avuto il loro peso anche  nelle difficoltà incontrate dalla candidata a Palazzo Chigi a raccogliere adesioni alle sue offerte più o meno esplicite. Vi ha appena accennato sul Fatto Quotidiano il fondatore ed ex direttore Antonio Padellaro scrivendo: “Sarebbe troppo facile parlare di nemesi della poltrona a leggere dei cortesi rifiuti in serie che sta ricevendo Giorgia Meloni nel suo tentativo di appioppare le poltrone migliori ad alcuni dei cosiddetti “Migliori”, con la maiuscola usata in modo sarcastico da Marco Travaglio quando sbertuccia Draghi e i suoi ministri. 

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Un clamoroso Enrico Letta rappresenta il Pd come vittima del Quirinale

Giorgia Meloni
Dalla prima pagina del Dubbio

Fra gli argomenti opposti  in campagna elettorale dal Pd alla riforma presidenzialista proposta da Gorgia Meloni, che pure si era affacciata già negli anni precedenti con aperture anche da sinistra, per esempio nella commissione bicamerale presieduta da Massino D’Alema, ci fu quello, in particolare, del segretario Enrico Letta che esortava a non rimettere in discussione un’istituzione che aveva dato buona prova di sé: la Presidenza della Repubblica, appunto. Che con l’elezione indiretta del capo dello Stato, da parte del Parlamento e di una delegazione di consiglieri regionali, aveva funzionato in modo eccellente come elemento di garanzia e, insieme, di propulsione del sistema. 

Più volte, in effetti, di fronte ad emergenze e a inceppamenti partitici e parlamentari, il presidente della Repubblica aveva saputo trovare e proporre soluzioni: l’ultimo, in ordine di tempo, il ricorso alla maggioranza atipica del governo di Mario Draghi nella impossibilità di sciogliere i nodi della crisi del secondo governo di Giuseppe Conte col ricorso anticipato alle urne ancora in piena pandemia. 

Proprio quel passaggio, purtroppo interrotto anzitempo, sia pure di pochi mesi rispetto alla scadenza ordinaria della legislatura, sembrò calzante nel ragionamento di Enrico Letta. Fra tutti i partiti di quella maggioranza il Pd era stato il più orgogliosamente allineato, tanto da sacrificarle  alla fine il rapporto con le 5 Stelle coltivato da Nicola Zingaretti nella convinzione che fosse essenziale per contrastare il vento favorevole che già soffiava sulle vele del centrodestra. 

Sergio Mattarella
Giorgio Napolitano

Ebbene, tutto questo nel giro di pochi giorni, quasi senza accorgersene, con un repentino cambiamento di giudizio, e di umore, è stato buttato alle ortiche dal segretario del Pd individuando la ragione della sconfitta politica e, più in generale, della crisi del partito del Nazareno  nella pratica del senso di responsabilità ogni volta che gli era stato chiesto dal capo dello Stato di turno di farci carico della governabilità del Paese: con Mario Monti nel 2011, su richiesta di Giorgio Napolitano al Quirinale, con lo stesso Enrico Letta nel 2013, sempre su richiesta di Napolitano, con Paolo Gentiloni nel 2017, su impulso anche di Sergio Mattarella dopo la bocciatura referendaria della riforma costituzionale di Matteo Renzi, col secondo governo Conte nell’autunno del 2019, e col già ricordato Draghi nel 2021, sempre con Mattarella al Quirinale. 

La vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno di ieri sulla direzione del Pd

In questa sequenza di fatti, e di penalizzazioni elettorali subite dal Pd, pur nato nel 2017 con la cosiddetta e famosa “vocazione maggioritaria” del suo primo segretario, Walter Veltroni, c’è qualcosa che assomiglia terribilmente a un processo al Quirinale. Di fronte al quale mi chiedo con una certa apprensione cosa pensi non tanto l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ormai defilatosi alla sua veneranda età, quanto il presidente in carica col suo secondo mandato, Sergio Mattarella. Che, ad occhio e croce, pur sapendolo capace di autoironia, di cui anzi egli ha avuto più volte modo di compiacersi consigliandone anche ai suoi interlocutori, temo non stia gradendo in questi giorni la rappresentazione che si potrebbe farne di un presidente  che ha sacrificato troppo il partito di provenienza, anche se non più di appartenenza. 

E’ vero che accade più spesso di dover chiedere sacrifici agli amici piuttosto che agli avversari, ai familiari piuttosto che agli estranei, ma -Dio mio, sembra dire in questi giorni Enrico Letta guardando verso il Quirinale- ci deve pur essere un limite alla generosità. Che il segretari del Pd ha mostrato di considerare ormai raggiunto, anzi superato, nel momento in cui, pur da dimissionario e da non disponibile a ricandidarsi al congresso, ha detto mai più a governi  di emergenza o simili, mai più a larghe o larghissime intese, mai più alla rinuncia ad una opposizione vantaggiosa senza un preventivo passaggio elettorale. 

La diciannovesima legislatura deve ancora cominciare, con l’insediamento delle  Camere nuove e ristrette, ma il tipo di rapporto almeno del Pd col Quirinale sembra cambiato. E mancano più di sei anni alla scadenza del secondo mandato di Mattarella.  A pensarci bene, salvo improbabili sorprese da parte di un presidente pazientissimo, non è una novità da poco. 

Pubblicato sul Dubbio

La crisi di governo come il gioco dell’oca, più avanspettacolo che spettacolo

La vignetta di Repubblica

Sbollita rapidamente, com’era facile prevedere, la polemica su ritardi e mancanze del piano di ripresa e di resilienza, di cui la stessa Giorgia Meloni ha rinnegato la maternità che invece ha continuato ad attribuirle oggi su Repubblica Francesco Tullio Altan in una vignetta evocativa di un truce Alberto Sordi, la crisi di governo è tornata indietro come in un gioco dell’oca. La candidata a Palazzo Chigi, consumando ormai tutti gli abiti e i colori del suo guardaroba, si è rimessa in attesa dell’insediamento delle Camere e delle consultazioni al Quirinale propedeutiche al conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio. Senza il quale tutto quello che lei fa, progetta, propone, lascia intravvedere è appeso un pò per aria e potrebbe anche dare la sensazione di un troppo lungo avanspettacolo.  

La vignetta del Secolo XIX

Stefano Rolli sul Secolo XIX ha colto un pò nel segno con la vignetta nella quale fa dire a Giorgia Meloni in prima pagina, e in romanesco stretto: “Devo ancora sistema du’ cosette. ‘tanto divertitevi cor Piddì”. Dove in effetti accadono cose strane, a dir poco, tradotte in “10 ore di psicodramma” in direzione, come le ha definite la Repubblica riferendo della decisione a sorpresa di Enrico Letta di restituire tempi ordinari, cioè lunghi, al congresso che pure aveva prospettato annunciando le dimissioni da segretario e la indisponibilità a ricandidarsi, per cui si era scatenata una corsa alla successione funzionale solo al tentativo di Giuseppe Conte di improvvisarsi vincitore delle elezioni, almeno sul fronte dell’opposizione. E di mettersi in attesa di “un nuovo gruppo dirigente” al Nazareno con cui riprendere a tessere una qualche tela di sinistra per il futuro neppure di questa legislatura, ma forse della prossima. Già, perché Letta, pur tirandosi da parte, ha ieri escluso che il Pd del nuovo segretario potrà rinunciare all’opposizione e tornare al governo con una delle operazioni più o meno di palazzo avvenute negli ultimi anni, senza passare cioè per un altro turno elettorale. 

Titolo di Repubblica
Enrico Letta alla direzione del Pd

In questa prospettiva delineata dal segretario uscente di quel che rimane il secondo partito italiano dopo Fratelli d’Italia, anche se Conte ritiene che il suo 15 cento valga chissà perché più del 19 e rotti del Pd, c’è del chiaro, di certo. Ma anche dell’oscuro, perché non si è mai visto, francamente, un segretario dimissionario in grado di ipotecare la linea del successore. D’altronde anche il predecessore di Enrico Letta al Nazareno, Nicola Zingaretti, si era impegnato nel 2019, allo scoppio della crisi del primo governo Conte, quello gialloverde con i leghisti, a un passaggio elettorale prima di un eventuale accordo di governo con i grillini. E di quell’impegno, disatteso all’improvviso ad un cenno di Matteo Renzi con un piede ancora nel Pd e l’altro già  fuori, fece le spese lo sventurato -manzonianamemte parlando- altro Matteo: il Salvini del Papeete e dintorni, sbertucciato nell’aula del Senato da un Conte moltiplicato almeno per due -“Giuseppi”, ricordate?- dall’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Titolo del Foglio
Titolo del Dubbio

La rappresentazione politica cui Enrico Letta si è prestato riportando indietro anche la storia del congresso rigeneratore, rifondatore e chissà cos’altro del Pd è alquanto impietosa. Si va dal titolo del Dubbio su Letta che “cambia idea” e scopre che “non abbiamo perso” al più perfido del Foglio su un articolo di Giuliano Ferrara, che pure  lo ha personalmente e dichiaratamente votato il 25 settembre: “Gli umili saranno gli ultimi- Letta è una brava persona, ma in politica vince l’impudenza”. Tre volte bravo, anzi, ha precisato Ferrara con linguaggio torinese appreso durante la militanza giovanile comunista. 

Giuliano Ferrara sul Foglio

“Il Pd -ha diagnosticato il fondatore del Foglio- è un organismo malato, introverso nel senso di inespressivo, abulico. Chi lo ha votato lo  ha fatto in genere con grande tristezza, addirittura con un fondo di compassione”. Scritto da lui che appunto -ripeto- lo ha votato….

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Le prime stecche nei cori politici attorno a Giorgia Meloni

Giorgia Meloni

Nella sua lunga, paziente attesa dell’agibilità della nuova legislatura in cui permettere al presidente della Repubblica di appropriarsi davvero dell’agenda della crisi per la formazione del governo Giorgia Meloni è tornata un attimo al ruolo di opposizione svolto contro tutti gli esecutivi succedutisi nella precedente, compreso quello di Mario Draghi. Di cui però è stata anche, e paradossalmente, la sostenitrice maggiore sul terreno non certamente secondario della politica estera, specie nella contingenza bellica provocata da Putin con l’invasione dell’Ucraina e l’annessione referendaria di territori che neppure controlla davvero. 

Titolo del Foglio

La signora si è appena scontrata a distanza con Draghi sul piano nazionale di ripresa e resilienza concordato con l’Unione Europea lamentando “ritardi e mancanze” che il presidente del Consiglio nega con nettezza, levando gli occhi al cielo davanti alle telecamere. E indicando come prova delle sue valutazioni positive la tranche di 21 miliardi di euro appena disposta a Bruxelles, in aggiunta ai quasi 46  dei mesi scorsi. 

Mario Draghi

A occhio e croce, trattandosi di numeri e di rapporti con uffici comunitari con i quali egli ha più dimestichezza della candidata alla sua successione, si dovrebbe o potrebbe -come preferite- credere più a lui che a lei, peraltro trattata generalmente con i guanti dal presidente del Consiglio per ragioni non semplicemente di cavalleria. E tanto meno per guadagnarsene l’appoggio a chissà quale incarico internazionale- fra quelli di cui si scrive da tempo sui giornali, dalla Nato alla stessa Unione Europea- avendo più volte precisato lui stesso che sa cercarseli e trovarseli da solo, senza bisogno di taroccare il suo curriculum, come è capitato nella scorsa legislatura a Giuseppe Conte di sentirsi rimproverare da qualcuno attento ai dettagli. 

I problemi della Meloni sulla strada di Palazzo Chigi non sono tuttavia quelli dei presunti ritardi del piano di ripresa e resilienza. E forse neppure quelli di un alleato scomodo come Matteo Salvini, che prenota o fa prenotare posti un pò dappertutto agitando forse più i titolisti dei giornali che la stessa Meloni, convinta che alla fine il capo della Lega si adeguerà alle decisioni e valutazioni del presidente della Repubblica. Dal quale soltanto egli ha già detto di accettare di venire deluso.

I problemi della Meloni vengono forse sempre dal centrodestra ma più ancora da Forza Italia, dove Silvio Berlusconi si sarà pure assunto il ruolo di regista, padre di famiglia, nonno e quant’altro, ma non riesce a controllare umori, sospetti, risentimenti di chi lo circonda e magari pensa di farlo contento dicendo cose che a lui sono precluse dal profilo che ha voluto darsi in pubblico, a livello addirittura internazionale.  

Gianfranco Miccichè a Repubblica

Sentite che cosa ha detto non più tardi di ieri all’edizione palermitana di Repubblica il presidente uscente dell’assemblea regionale siciliana Giovanni Miccichè, Gianfranco per gli amici. Che è ancora indeciso, mentre scrivo, se rimanere in regione, dove è stato rieletto, o trasferirsi al Senato, dove ha conquistato un seggio  e potrebbe davvero sedersi alla sinistra di Berlusconi, dalla parte del cuore. Deluso dal sistema maggioritario, fatto per “Paesi maturi”, come il nostro evidentemente non sarebbe, Miccichè ha considerato “il ritorno al proporzionale quasi scontato”. E non in una prospettiva, diciamo così, di medio o lungo tempo, ma a breve. “Per il 2023 -ha detto- si potrebbe arrivare al cambio della legge elettorale e a un ritorno alle urne”, al quale -ha aggiunto- sarebbe “felice di partecipare andando a Roma”, anziché rimanere nella sua Sicilia, magari a creare problemi all’amico Renato Schifani eletto alla presidenza della regione dopo la guerra -più o meno- fatta dallo stesso Miccichè al meloniano Nello Musumeci, Che in qualche modo ha chiesto e ottenuto asilo anche lui al Senato. Dove il governo avrà forse gatte da pelare più nella maggioranza che nell’opposizione. 

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Sopralluogo nei due cantieri aperti della politica dopo le elezioni

Matteo Salvini

Due sono i cantieri politici aperti in attesa dell’insediamento delle Camere, dell’elezione dei loro presidenti, della composizione dei gruppi, delle consultazioni di rito del capo dello Stato e delle sue valutazioni e decisioni in ordine alla formazione del governo. Un cantiere è appunto quello del governo, dove la protagonista è stata già indicata dagli elettori ed è naturalmente Giorgia Meloni. Che si reca diligentemente ogni giorno al lavoro, riceve, ascolta, telefona, risponde, sfugge con battute laconiche a chi cerca di strapparle notizie, o solo sensazioni. Nel complesso si avverte tuttavia l’impressione che i giornali la rappresentino più avanti di quanto non sia davvero nella preparazione della squadra, senza voler dire con questo che le difficoltà siano maggiori di quelle che appaiono assistendo, in particolare, al braccio di ferro raccontato dalle cronache fra un Matteo Salvini smanioso di tornare al Viminale, spintovi anche da chi non lo sopporta più neppure come capo della Lega dopo tanta dissipazione di credito elettorale in così pochi anni, e una Giorgia Meloni renitente. Che è stata appena consigliata anche da Mario Monti di guardarsi da un alleato troppo poco interessato al successo di un governo da lui non presieduto. 

A parte tuttavia i consigli di Monti, che saranno magari uguali a quelli di Mario Draghi, la candidata a Palazzo Chigi sa di potersi trarre d’impaccio al momento opportuno con i limiti imposti alla sua discrezionalità dall’articolo 92 della Costituzione nel passaggio in cui dice che i ministri sono nominati dal capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio.

Titolo di Repubblica di oggi
Titolo di Repubblica di ieri

Se a Mattarella non sembrerà opportuno nominare Salvini, appunto, ministro dell’Interno perché ancora  sotto processo per il suo precedente passaggio in quel dicastero, vi sarà ben poco da fare. Escludo che la Meloni torni, come quasi cinque anni fa, a protestare e minacciare d’impeachment il presidente della Repubblica che aveva rifiutato a Giuseppe Conte la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia. Non è proprio aria, diciamo così. Allora peraltro neppure Salvini, già vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno in pectore, si dissociò dall’assalto a Mattarella compiuto sia dalla Meloni sia da Luigi Di Maio.  Insomma, non vedo, non avverto tragedie, per quanti sforzi stia facendo in questi giorni la Repubblica di carta di drammatizzare questo passaggio sparando titoli come pallettoni. 

L’altro cantiere aperto è quello non del governo, ma dell’opposizione al centrodestra uscito vincente dalle urne. Qui il lavoro procede più alla svelta, potendo prescindere dall’insediamento delle Camere e dal resto. Ma è un cantiere, a ben guardare, più di demolizione che di costruzione, riguardante in particolare un Pd curiosamente estratto vivo dalle macerie elettorali, per quanto ferito, ma dato più morto del MoVimento 5 Stelle che invece ha raccolto meno voti e seggi parlamentari. E questo solo perché -credo in un eccesso di masochismo- lo stesso Enrico Letta ha voluto drammatizzare la situazione offrendosi praticamente come capro espiatorio alla pretesa di Giuseppe Conte di guidare lui l’opposizione da sinistra. 

Massimo D’Alema al Fatto Quotidiano
Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Il buon Pier Luigi Bersani, sempre prodigo di immagini paradossali, come le bambole da pettinare, i giaguari da smacchiare, le mucche da allontanare dai corridoi e via scherzando, se n’è appena uscito con una intervista al Corriere della Sera in cui chiede, disperato, a compagni e amici di “non lasciare ai 5 Stelle la storia della sinistra”. Che dovrebbe significare non inseguirli, non mettersi al loro servizio,  non farsi commissariare. Ma ciò è proprio quello che anche Bersani chiede, in coincidenza peraltro con una intervista di Massimo D’Alema al Fatto Quotidiano, sostenendo il  recupero del rapporto con un Conte indisponibile a trattare con l’attuale gruppo dirigente del Nazareno. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Un’occhiata nel guardaroba multicolore di Giorgia Meloni

Titolo del Dubbio

Fedele alla favola del diavolo che fa la pentola e si scorda il coperchio, Giorgia Meloni a poco più di una settimana trascorsa dalla vittoria elettorale del 25 settembre ha spiazzato un bel pò di avversari, e  persino amici. Chi la immaginava, anzi desiderava vestita di nero per combatterla meglio, come una caricatura femminile del fascismo che che fu, se l’è trovata vestita di tutti i colori possibili: a cominciare dal rosso dipinto sulle labbra agli indumenti, per finire al celeste, al rosa, al verde. Come quello, misto al giallo, dei coltivatori diretti che l’hanno accolta a Milano con l’entusiasmo rivolto sino a pochi giorni prima dai leghisti e, ancor prima, dai democristiani della lontana, cosiddetta prima Repubblica, quando quel pubblico lì era il principale serbatoio elettorale e persino valoriale dello scudo crociato. Si è tornata a respirare, in quell’incontro davanti al Castello sforzesco, la cultura popolare sostituita troppo a lungo da quella assai diversa, direi opposta del populismo. 

Maurizio Landini, il capo della Cgil assaltata non più tardi di un anno fa nella sua sede centrale dal pubblico “parafascista” dirottato da una manifestazione in Piazza del Popolo, a Roma, col tono conciliante che ha assunto da qualche tempo come se una dieta lo avesse liberato anche dall’estremismo parolaio che faceva impazzire Sergio Marchionne, ha mostrato di morire dalla voglia di confrontarsi col governo che “Giorgia” sta allestendo ben prima dell’insediamento delle Camere, delle consultazioni del capo dello Stato e del conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio. 

Mario Draghi -cui “la signora”, come la chiama prudentemente Silvio Berlusconi, ha praticato una lunga e costante opposizione salvo che in politica estera, dove è stata più atlantista e antiputiniana di tanta parte della maggioranza- la sommerge direttamente e indirettamente di informazioni e -credo- anche consigli. E deve sudare le proverbiali sette camicie per smentire o ridimensionare la rappresentazione che se ne fa come di un lord protettore di chi è destinata a succedergli. 

Statene certi, la prima parola per la promozione di Draghi a segretario generale della Nato, quando ne matureranno le condizioni, non più tardi dell’anno prossimo, si alzerà alta e forte proprio dalla Meloni a Palazzo Chigi.  La seconda forse dal campo avverso, cioè da Mosca, dove Putin si è ormai così infognato nella guerra all’Ucraina che spera forse di sopravviverle politicamente e umanamente con l’aiuto più di uno come Draghi che  di uno come quel Medvdev che al Cremlino sogna solo di succedergli. 

Sergio Mattarella, il traghettatore

La politica è una bestiaccia in tutte le latitudini. Più la si prende sul serio e più ti delude. Più la corteggi e più ti spiazza. Più la studi e meno la capisci. Più presto sali in alto e più presto cadi in basso. Più cerchi di staccartene e più ne rimani coinvolto, come ha imparato l’anno scorso anche Sergio Mattarella sprecando -temo-  un sacco di soldi in un trasloco interrotto, che in tanti -a dire il vero- gli avevamo francamente e giustamente  sconsigliato. Ora tocca a lui, per fortuna, gestire questa sorprendente e inesplorata transizione repubblicana, anche di genere. 

Pubblicato sul Dubbio

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