Benedetti affari “ordinari” tra i fumi e i veleni della campagna elettorale

Più guardo le immagini della campagna elettorale in corso in Italia -intere come quelle che  comprendono sul palco del meeting di Rimini anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e tagliate come quelle senza di lui- e più leggo cronache, dichiarazioni e quant’altro di protagonisti, attori e comparse di questa corsa estiva al voto, più mi consolo vedendo e ascoltando dell’altro. In particolare, gustandomi le immagini e le cronache della cosiddetta “amministrazione degli affari correnti” felicemente affidata dal presidente della Repubblica al governo di Mario Draghi. Che, grazie a Dio, continua a salvare la faccia del Paese compromessa -scusatemi la franchezza- dai partiti con le loro risse ad horas, spesso all’interno degli stessi schieramenti improvvisati o confermati per trarre il maggiore vantaggio possibile, nella spartizione del bottino parlamentare, dalla legge elettorale di turno.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano
Senza il ministro degli Esteri Di Maio

Proprio a Rimini, da dove sono partito riferendomi a quella che Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano ha definito “l’ammucchiata dei mercanti del tempio ciellino” per il mancato invito a quello statista d’eccezione che lui continua a considerare Giuseppe Conte; proprio a Rimini, dicevo, tra palco e sottopalco, dentro e fuori, a passo svelto o lento, Matteo Salvini ha riproposto i suoi dubbi, a dir poco, sull’utilità delle sanzioni alla Russia per la guerra di aggressione all’Ucraina. E pazienza, anzi fortuna che sul palco la sua vicina di posto e alleata, ora aspirante a Palazzo Chigi con qualche possibilità di riuscita, si sia invece ritrovata d’accordo col segretario del Pd Enrico Letta, sedutole accanto a sinistra, sulla linea fortemente atlantista, e sanzionatoria, praticata dall’Italia con una risoluzione parlamentare che i critici non hanno avuto i numeri e neppure il tempo di rovesciare, o solo ammaccare, prima della interruzione della legislatura. 

L’editoriale del Corriere della Sera

Forse ha ragione, per carità, il mio amico e due volte ex direttore del Corriere della Sera Paolo  Mieli a scrivere oggi nel suo editoriale che il clima della nostra campagna elettorale addirittura “piace a Mosca” per lo spazio che qualcuno, sempre a Mosca, ha visto aprirsi a favore di Putin e della sua guerra tra i fumi dei partiti e movimenti italiani. Ma Paolo mi perdonerà se, meno pessimisticamente di lui, io preferisco scommettere sulla felice coincidenza tra due notizie di quella ho definito amministrazione degli affari correnti. 

Titolo del Messaggero

Una, cui dò la precedenza perché proveniente dal Quirinale e attinente le competenze del Capo dello Stato, è la revoca di dieci onorificenze concesse dalla Repubblica d’Italia a russi che non le hanno più meritate quando hanno condiviso o persino partecipato a loro modo, non necessariamente armato, all’aggressione all’Ucraina. Mi direte che il gesto è più simbolico che altro, ma non sono d’accordo, anche perché non è il primo adottato dal Presidente della Repubblica. Che non a caso, del resto, proprio qualche giorno fa ha voluto ribadire il carattere “scellerato” dell’azione che la Russia sta continuando ad esercitare contro il libero paese confinante.

Mario Draghi alla Conferenza sulla Crimea

L’altra notizia è la partecipazione del presidente del Consiglio Mario Draghi, pur da remoto in questi tempi di perdurante pandemia, alla Conferenza per la Crimea nel 31.mo  anniversario dell’indipendenza dell’Ucraina, e sesto mese della guerra scatenata contro di essa dalla Russia. Questa ancora in corso e, prima ancora, l’annessione della Crimea, deplorata anche da Erdogan, sono cose inaccettabili, di fronte alle quali -ha detto Draghi- “il mondo non può voltare la testa”.

In Crimea nel 2015

E pensare che fra i primi a correre in Crimea per complimentarsi con Putin fu nel 2015 il fortunatamente già ex presidente del Consiglio  italiano Silvio Berlusconi, amico personale dello stesso Putin. Uno degli incontri avvenne su una nave  affondata in questa guerra dagli ucraini grazie anche agli aiuti occidentali.

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La gara al machismo elettorale fra Giuseppe Conte ed Enrico Letta

Nel timore forse di non essere stato preso sul serio per la rapidità con la quale aveva aperto e chiuso al Pd entrando e uscendo dallo studio televisivo domenicale di Lucia Annunziata, di Rai3, Giuseppe Conte ha voluto mandare un segnale di conferma della chiusura. Egli ha staccato la spina anche all’alleanza elettorale per le regionali siciliane col Pd sancita pochi giorni fa col rito delle primarie comuni. 

Titolo del manifesto

Niente quindi da fare neppure nell’isola dove Enrico Letta, sentitosi ora “tradito”, sperava con la candidata alla presidenza Caterina Chinnici, figlia di un grande magistrato vittima della mafia e magistrata anch’essa, di poter giocare una partita non perduta in partenza contro un centrodestra malandato sì, affollato come di polli di manzoniana memoria, ma ancora in grado di correre unito, questa volta al seguito dell’ex presidente forzista del Senato Renato Schifani. Che avrà pure problemi inquirenti  prontamente cavalcati dagli avversari nel nome dell’antimafia ma non lo si può onestamente vestire col berretto nero e il fucile a tracolla, anche se siamo d’estate e il caldo sta resistendo pure ai temporali. 

Io sono macho, ha insomma gridato Conte ad Enrico Letta, che intanto stava cercando di fare il macho, a sua volta, con Giorgia Meloni per via di non ricordo più quale “indecenza” commessa in una campagna elettorale dove lo stesso segretario del Pd più o meno furbescamente ha voluto fare della giovane leader della destra la sua principale controparte. Accadde tanti anni fa da candidato sindaco di Napoli anche al comunistissimo e simpatico Antonio Bassolino con la destrissima, e anch’essa simpatica, Alessandra Mussolini: sì, proprio lei, la nipote del Duce buonanima, con la maiuscola. Poco mancò che i soliti, velenosi retroscenisti li rappresentassero come in una tresca truccata da scontro. 

Vedremo, ormai fra un mesetto soltanto, chi dei due macho -Conte e Letta, in ordine alfabetico- uscirà meglio, o peggio, dalle urne: il primo con quella mano sempre puntata contro l’altro mentre ne parla e il secondo con le dita sulle labbra, come per volersi trattenere chissà da quale sproloquio.

Titolo del Foglio

Potrebbe essere di qualche consolazione per il segretario del Pd la costanza, direi, progressiva con la quale è schierato con lui in questa difficile campagna elettorale quel monumento alla polemica e all’imprevedibilità che è meritatamente il fondatore del Foglio Giuliano Ferrara. Il quale anche oggi, come ieri difendendolo dall’avversario Marcello Pera, ha voluto proteggere il Pd dalle insidie di questa terribile estate eccezionalmente elettorale. In particolare, ne ha elogiato le liste appena presentate nelle Corti d’Appello d’Italia vedendovi altro che gli “impresentabili” lamentati da Conte per le liste regionali siciliane. 

Giuliano Ferrara sul Foglio

“Il Pd -ha scritto o testimoniato Ferrara- ha i suoi bravi costituzionalisti, i suoi professionisti del Parlamento, i suoi sindaci (manca all’appello un capo di gabinetto, ma pazienza), i suoi presidenti di regione e assessori, che nel Lazio mi hanno inoculato tre volte che manco a Zurigo (per la quarta aspetto e spero nuovi ritrovati d’autunno), le sue donne compresa la petulante ma non antipatica “Alice” Serracchiani, e spero i suoi boss e capicorrente. Che volete di più- ha continuato Giuliano scherzando ma non troppo- dalla vita di una piccola oligarchia che ha condiviso la responsabilità del Rosatellum con la Lega e i grillozzi e ora me paga tutto il pegno? Un giorno troveranno il modo di dirci chi sono. Intanto meritano il voto di alcuni, pochi, di noi, per ciò che non sono. E per le liste niente male, il Fratoianni inoffensivo compreso”.

Leggevo Giuliano e mi ricordavo la buonanima di Giulio Andreotti quando mi chiedeva, sornione, perché Indro Montanelli per aiutare la Dc ne scrivesse e parlasse così male, sino a turarsi il naso. E’ nella sua natura, cercavo di spiegargli.

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Paghiamo da 30 anni i danni dell’infatuazione contro i voti di preferenza

Per fortuna quando leggerete questo articolo sarà scaduto il termine per la presentazione delle liste elettorali. Di cui nessuno ha chiesto una proroga – in questo Paese dove i rinvii sono facili come le onorificenze- perché a nessuno, proprio a nessuno dei protagonisti e degli attori conveniva allungare questa avventura, tanto è  costata di fatica, di imbarazzo e -penso- spesso anche di vergogna per le promesse non mantenute, le bugie dette e persino scritte agli esclusi o ai delusi, i torti inferti, le troppo vistose generosità cortigiane o familistiche e tante altre cose sulle quali il buon Sabino Cassese sul Corriere della Sera ha cercato di volare alto auspicando che la democrazia approdi, o torni, prima o dopo nei partiti. Ma perché, professore, se ciò dovesse e potesse davvero accadere, ci sarebbe un sistema davvero capace di fare rispettare le regole? Ci sarebbe una classe politica disponibile dopo trent’anni di sostanziale sospensione non dico della legge -perché tutto è stato fatto applicando quella via via di turno- ma, più semplicemente e scandalosamente, del buon senso. 

Pino Pisicchio sulla Gazzetta del Mezzogiorno di ieri

Trent’anni -quanti dalla dichiarazione congiunta di Eltsin e Bush sulla fine della minaccia nucleare russa agli Stati Uniti, pensate un pò- sono quelli trascorsi nei calcoli del mio amico Pino Pisicchio dall’ultima volta in cui gli italiani hanno potuto votare per il Parlamento col voto di preferenza: uno solo rispetto ai quattro e a volte anche cinque permessi alla Camera sino alle elezioni precedenti, del 1987. 

Sabino Cassese
Massimo Teodori oggi sul Riformista

Dopo le votazioni del 1992, le ultime col sistema proporzionale picconato con i referendum da una coppia politica inedita come fu quella di Marco Pannella e Mario Segni, ci sono state ben quattro leggi elettorali, tante da “far girare la testa”, senza mai riuscire -ha scritto Pisicchio sulla Gazzetta del Mezzogiorno- a “ridare al popolo la possibilità di scegliere”. Anzi, stando bene attenti a non ridargliela. “Eppure, vivaddio, al Comune -ha giustamente osservato Pisicchio, già parlamentare di lungo corso, di provenienza democristiana in un certo senso sopravvissuta a tutte le ospitalità successive, una addirittura di Antonio Di Pietro -si vota con la preferenza, alla Regione pure e persino al Parlamento Europeo. Al parlamento nazionale però no. Perché?”, si è chiesto Pino invocando la celebre canzone di Jannacci ma non accorgendosi di avere risposto lui stesso con quelle minuscole applicate al Parlamento una volta con la maiuscola. Esso ha progressivamente perduto la propria rappresentatività proprio per il voto di preferenza sepolto dai partiti decisi a nominarselo di fatto da sé il Parlamento, col meccanismo doppio delle liste bloccate e dei collegi uninominali. Sono gli stessi partiti dei quali Sabino Cassese alla sua venerabile età-  quasi 87anni- aspetta ancora la democratizzazione. 

Eccovi spiegate, amici miei, le ragioni del poco edificante spettacolo dato da un pò tutte le formazioni politiche nella formazione e persino nel deposito delle liste, trasferite  vignettisticamente da un ufficio all’altro di notte per evitare incidenti dolosi, diciamo così. E pensare che i dirigenti della tanto disprezzata prima Repubblica- dal disciplinatissimo Pci di Palmiro Togliatti alla meno disciplinata Democrazia Cristiana di Mariano Rumor- quando si trovavano in imbarazzo fra troppe ambizioni se la cavavano, o potevano cavarsela, mettendole alla prova con i voti di preferenza. Bei tempi davvero, purtroppo scambiati anche dal mio amico Mariotto (Segni) per anni di scontata corruzione.

L’ex presidente del Senato Marcello Pera

Adesso mi è capitato di vedere non l’ultimo arrivato ma persone degnissime, di provata sapienza e capacità, come l’ex presidente del Senato Marcello Pera,  tanto per fare un nome, attraversare le cronache politiche come birilli, pedine spostate sullo scacchiere, opportunisti dell’ultima ora fra e all’interno degli schieramenti contrapposti o concorrenti, non so se più costretti o usati per via della legge elettorale, l’ultima di turno. Mi è toccato vedere proprio Pera, accomunato peraltro a Giulio Tremonti, trattato con ruvidezza immeritata dal Foglio: un giornale -mi permetto di ricordare- che deve sostanzialmente all’ex presidente del Senato una buona fonte di sostentamento più ancora di quello originario e cessato di Berlusconi. 

Giuliano Ferrara ieri sul Foglio a proposito di Marcello Pera e Giulio Tremonti
Titolo del Foglio di ieri

Fu per Pera, e Marco Boato, promotori di un movimento ad hoc sulla giustizia, che Il Foglio fu ammesso ad un finanziamento pubblico che gli ha garantito nell’ultimo esercizio 933.228,29 euro. Grazie ai quali il pur prestigioso quotidiano con la sigla dell’elefantino rosso del suo fondatore Ferrara ha potuto attribuire all’ex presidente del Senato e a Tremonti, candidati ora dai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni anziché dalla Forza Italia di una volta, una “funzione turiferaria”, e lamentare “la loro tempestività esornativa sospetta“. E il tutto sotto un titolo contro gli “insospettabili parvenu del fascismo liberale”. Dio mio, Giuliano, anche con quel finale da dichiarato “sconcerto”, che hai lasciato fuori dal titolo per ragioni di spazio, contro “la loro incapacità di essere felici restando solo nella propria stanza: scelta che ad una certa età dovrebbe essere predisposta ex lege”. 

Pubblicato sul Dubbio

E’ provato: le idee di Giuseppe Conte durano mezz’ora, all’incirca

Dal blog di Beppe Grillo
Titolo del blog di Beppe Grillo

Va bene che Beppe Grillo, come testimonia il suo blog, sta studiando con la solita allegria “una rivoluzione silenziosa” come quella che lui chiama del “Planet local”, basata sul fatto che finalmente “è stata messa in discussione la cruda narrativa del “più grande é meglio”. Ma ho paura -per lui- che Giuseppe Conte lo stia prendendo questa volta troppo sul serio. 

L’ex presidente del Consiglio, ora presidente solo del MoVimento 5 Stelle proiettato sul 2050, come precisa anche il simbolo depositato al Viminale per le elezioni del 25 settembre di questo 2022, non ha soltanto rinunciato all’obbiettivo d’altronde impossibile di ripetere nelle urne il successo ottenuto -pensate un pò- da Luigi Di Maio nel 2018 col quasi 33 per cento dei voti. Egli sembra essersi proposto, un pò con le liste e un pò, o ancor più, con i suoi ondivaghi orientamenti politici di portare i pentastellati anche sotto il poco più del 10 per cento accreditato dai sondaggi. Più piccolo è meglio ancora, si potrebbe dire parafrasando Grillo. 

E’ ormai accertato, con l’ultimo infortunio avuto facendosi intervistare da Lucia Annunziata, che le idee di Conte non durano più dello spazio di tempo in cui vengono espresse: diciamo pure mezz’ora, per stare al titolo della fortunata trasmissione televisiva che l’ha ospitato ieri pomeriggio su Rai3. 

Parola di Conte

Con una foto di Enrico Letta che incombeva su di lui sino a farne un tapino Conte ha risposto così ad una domanda sul futuro, solitario o non, del suo MoVimento dopo aver fatto maggioranza con tutti nella legislatura scorsa ed essersi ritirato, o essere stato escluso dal cosiddetto “campo largo” col Pd per avere negato la fiducia al governo di Mario Draghi: “In politica pensare di governare da soli, anche se io me lo auguro, è improbabile. Una prospettiva di lavorare domani con altre forze politiche come il Pd ci può stare”.

Parola di Conte mezz’ora dopo
Roberto Speranza e Giuseppe Conte nello studio televisivo di Lucia Annunziata

Tuttavia, uscito dallo studio televisivo dell’Annunziata, dove peraltro aveva ricevuto un incoraggiante, compiaciuto e quant’altro “in bocca al lupo” dal ministro Roberto Speranza, l’ex presidente del Consiglio ha così twittato il suo ripensamento: “Mi spiace deludere qualche titolista, qualche giornale, ma credo che il mio pensiero sia stato forzato e travisato. Nelle condizioni attuali con i vertici nazionali del Pd folgorati dall’agenda Draghi non potremmo nemmeno sederci al tavolo”. O solo al tavolino di un bar per prendere un caffè, come nel lontano 1995 l’allora segretario del Movimento Sociale- Alleanza Nazionale Gianfranco Fini disse parlando di Umberto Bossi dopo che questi aveva fatto cadere il primo governo di centrodestra di Silvio Berlusconi. Poi -giusto per rincuorare il ministro Speranza, tornato a candidarsi col Pd, se traumatizzato dalla seconda dichiarazione di Conte- Fini e Bossi presero insieme ben più di un caffè.

La parte, diciamo così, più esilarante e politicamente costosa della seconda dichiarazione di Conte è naturalmente quella della presunta forzatura, del presunto travisamento della dichiarazione precedente. L’uomo, anzi il professore, l’avvocato ha fatto tutto da sé, come al solito. Gli altri, compresi noi giornalisti, perfidi, distratti e quant’altro, non ci abbiamo messo di nostro proprio nulla. Il merito o demerito di questa gag elettorale, che dà la misura dell’attendibilità di Conte e della confusione esistente nell’ex movimento di maggioranza, attorno alla cui crisi si è sviluppata quasi per intero una legislatura, è tutto suo. E allevia un pò le altre forze politiche -tutte, chi più e chi meno- dallo spettacolo poco edificante dato nella preparazione delle liste, come in una giostra o in una porta girevole d’albergo, con le spalle sempre rivolte a un elettorato  a dir poco sgomento, e non a caso sempre più astensionista. 

Ripreso da http://www.startmag.it 

Basta con la Meloni puntata come Mussolini. E’ persino controproducente

Titolo del manifesto

Forte, vi confesso, è la tentazione di seguire il manifesto nella caccia ironica agli “spostati” che a loro insaputa, o quasi, stanno agitando le ultime ore di preparazione delle liste elettorali, sorpresi dalle destinazioni loro assegnate dall’alto, spesso in territori che non hanno mai visto ma che dovranno  rassegnarsi, nel migliore dei casi, a rappresentare fra le proteste di molti dei loro stessi elettori. Che ne subiscono l’arrivo come di intrusi, o intruse, per quanto di alta statura istituzionale. E’ il caso della presidente veneta del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, che stavolta deve cercare di farsi eleggere in Basilicata. D’altronde, neppure fra i grillini, che fra le poche cose buone delle loro regole interne avevano l’obbligo di candidarsi nei luoghi di residenza, o al massimo di origine, sono stati capaci di resistere alla pratica disinvolta degli altri partiti. Che evidentemente li hanno contaminati anche in questo, come in molti lamentano prendendosela con Giuseppe Conte. 

L’ex ministra Marianna Madia

Persino Enrico Letta, da Pisa dove è nato, ha studiato, è cresciuto e si è fatto eleggere di recente alla Camera, e da Roma dove risiede e lavora ha preferito candidarsi a Vicenza e altrove. Forse di Roma non si fida, visto che più di un segretario nazionale o locale di partito qui contano personaggi da suburra come quelli immortalati da un video horror che ha appena provocato le dimissioni del potentissimo capo di gabinetto del Campidoglio e la rinuncia di un candidato che pretendeva a giugno di “comprarlo” in un ristorante della Ciociaria.  Aveva ragione pochi anni fa l’allora ministra Marianna Madia, per niente Alice nel paese delle meraviglie con la sua bellezza botticelliana, a dire: “A livello nazionale nel Pd ho visto piccole e mediocri filiere di potere. A livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie ho visto delle vere e proprie associazioni a delinquere”. 

La tentazione, dicevo, di seguire la caccia del manifesto agli “spostati” è forte. Ma ancor più forte, scusatemi, è diventato alla fine il fastidio procuratomi dalla prima pagina di Repubblica con quel richiamo dell’ennesima puntata di una “inchiesta su M.”. M.come Mussolini, naturalmente, pur trattandosi più modestamente, per fortuna, di Meloni. Giorgia Meloni, così preoccupante per “la rete nera in Europa” che la sosterrebbe da meritarsi il lavoro d’indagine e di scrittura di ben sei giornalisti: Berizzi, Bonini, Lopapa, Mastrogiacomo, Pertici e Tonacci, nello stesso ordine alfabetico proposto dal loro quotidiano. 

Titolo del Tempo

Premetto che non ho mai pensato di votare per Giorgia Meloni e i suoi “fratelli d’Italia”, neppure ora che godono dell’attenzione, della simpatia, dei consigli e quant’altro di un professore ed ex presidente del Senato che stimo moltissimo come Marcello Pera, giustamente stancatosi di attendere l’evoluzione promessagli da Matteo Salvini sgranando rosari e baciando medagliette e immagini di Madonne. Neppure ora che il vento sembra soffiare forte sulle vele dell’ex ministra di Silvio Berlusconi, arresosi pure lui col riconoscimento, appena ribadito al Tempo, di avere la necessaria “autorevolezza per fare il premier”. E -aggiungo- neppure dopo avere appreso dagli inquirenti di Repubblica sulla infanzia e sull’adolescenza della Meloni cose che mi hanno suscitato più tenerezza che scandalo o paura.

Gabriele Albertini al Quotidiano Nazonale

Io- ripeto- non voto la Meloni, per quanto   l’amico ma neppure lui votante Gabriele Albertini abbia appena detto di aspettarsi da lei la nomina dell’eccellente Carlo Nordio a Guardasigilli, ma trovo francamente inaccettabile il ruolo di strega  politica che, volente o nolente, le affibbia con tanto spreco di firme e di carta un giornale che, come Giuseppe Conte agli occhi di Goffredo Bettini sino a qualche mese fa, o tuttora, si ritiene il punto di riferimento più alto dei progressisti, intesi stavolta come lettori e non elettori. 

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Miserie e nobiltà del Pd romano fra le carezze e gli scoop velenosi del Foglio

Il sindaco di Roma Gualtieri con l’ormai ex capo di Gabinetto Ruberti

Si racconta con verosimile malizia nei corridoi della politica romana inusualmente frequentati in questo agosto di campagna elettorale  che il segretario del Pd Enrico Letta fosse tanto preso dall’inglese nel quale, intervistato da una tv americana, cercava di spiegare i pericoli di un’Italia governata da Giorgia Meloni, che avesse continuato a parlare in inglese al sindaco di Roma, l’amico e collega di partito Roberto Gualtieri, fatto chiamare per chiedergli la testa del capo di gabinetto Albino Ruberti. Immediatamente accordata, insieme al ritiro di un candidato alle elezioni politiche coinvolto in una storiaccia d’osteria e dintorni ripresa in video a giugno  nel Frusinate, o nella più nota Ciociaria. Dove il braccio destro di Gualtieri, fortunatamente disarmato ma ugualmente trattenuto da una commensale, voleva uccidere chi aveva alluso ad una sua pratica di affari o clientelismo elettorale. 

Titolo del Messaggero
Titolo del Corriere della Sera

Ridotta ad una colonna, come si dice in gergo tecnico, sulle prime pagine del milanese Corriere della Sera e del romanissimo Messaggero, la vicenda è approdata più vistosamente su altri giornali poco o meno inclini a sconti o piaceri al Pd e al suo segretario. 

Titolo di Libero

“Il caso Ruberti scuote il Pd”, ha titolato al centro pagina la Repubblica. In apertura invece Libero quasi con la pistola in mano che non aveva sul posto il povero Ruberti ha gridato: Ecco il metodo del Pd “In ginocchio o ti sparo”. Alla faccia  della “famosa superiorità morale” vantata dalla sinistra, e forse per questo stampata in rosso in mezzo a tanto nero.

Titolo del Giornale

Neppure il Giornale della famiglia Berlusconi ci è andato leggero. Oltre alla “superiorità (im)morale” stampata anch’essa in rosso per dileggio, esso ha fatto un pò di miscela con le cronache di giornata per annunciare che “a sinistra piacciono antisemiti e violenti”. 

Ma il bello, il curioso, il paradossale di questa storiaccia ve la devo ancora raccontare. Ed è semplicemente, banalmente questo: a diffondere per primo la notizia, a fare insomma lo scoop, possedendo e diffondendo il video della serata di osteria è stato Il Foglio. Sì, proprio il giornale diretto da Claudio Cerasa e fondato da Giuliano Ferrara, che personalmente non si fa scappare l’occasione di ripetere che questa volta voterà per il Pd di Enrico Letta.

Titolo del Foglio

Spiritosi come riescono spesso ad essere, pur non una certa tendenza alla spocchia, come dicono a Roma, al Foglio hanno rivendicato lo scoop con un titolo in blu che in qualche modo ha aggravato la vicenda dicendo: “In ginocchio o vi sparo” è la cosa meno grave. E sotto tre articoli, diciamo così, di approfondimento, spiegazione e quant’altro. 

Dalla prima pagina del Foglio
Dalla prima pagina del Foglio

Nel primo si racconta di “polizze, derby e preferenze” il cui conto non tornerebbe. Nel secondo si certifica in qualche modo “l’eternità di foresta del Pd romano”, dove parlano e ragionano come una ghenga irredimibile. Nel terzo, scritto personalmente da Giuliano Ferrara, c’è la solita, generosa, familiare assoluzione che rimette tutto a posto: il voto per il Pd di Enrico Letta e le vesti strappate. 

Giuliano Ferrara in persona
Dalla prima pagina del Foglio

Giuliano non me ne vorrà se riporto quasi integralmente le sue conclusioni, con un punto forse sottinteso di polemica col direttore sbarazzino dello scoop: “Sarei meno severo con tutte le trasgressioni che sono tanto più innocenti quanto più roboanti, inginocchiati, t’ammazzo, ma verrebbe preso come un comportamento cinico. Sotto elezioni, poi, l’impeccabilità è di rigore. Si sollecita grinta, ma in altro senso, per impiegarla in ben altre risse. Qualcuno dovrà pur domare l’Ama e i contatti contro l’inceneritore, e se vengono a mancare gli amministratori guappi, bè, saranno sostituiti da gente in polpe…….Per evitare di apparire corrivi, facciamo dunque i ginevrini, comportiamoci bene, anzi benissimo, e vedrete che i bus passeranno ogni tre minuti, sui marciapiedi si potrà fare il picnic, la corruttela sarà solo un ricordo, le nuove maniere l’eterno presente della città eterna”. Amen.

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Mario Draghi se la ride, giustamente, sotto i baffi che non ha….

Titolo del Dubbio

Di questo Dmitrij Medvedev ancora al servizio di Vladimir Putin, che non sa più quali altri incarichi fargli ricoprire in Russia dopo averlo portato in alto come lui, non mi ha colpito tanto l’invito scontato dal suo punto di vista agli elettori “europei”, per non dire direttamente italiani, già chiamati alle urne per il 25 settembre, a battere i loro governi stupidi, idioti e quant’altro. Mi ha colpito di più l’arretratezza della società alla quale egli è abituato, e dalla quale lui stesso e i suoi amici non hanno saputo farla uscire, quando ci ha minacciati di lasciarci in inverno con “le stufe spente e i frigoriferi vuoti” a furia di negarci  i rifornimenti  energetici. 

Dmitrij Medvedev

Da tempo in Italia, caro il signor Medvedev, non ci scaldiamo più davanti alle vecchie, antiquate stufe. E i frigoriferi abbiamo imparato a spegnerli, risparmiando, se vuoti. A meno che Medvedev non volesse riferirsi alla capacità che hanno i russi, come hanno dimostrato in Ucraina bloccandone a lungo le esportazioni di grano, di affamare il prossimo. Tanto, la fame in Russia è sopravvissuta a tutti i regimi che si sono alternati, con o senza la falce, con o senza il martello., al di là naturalmente delle mura del Cremlino e delle dacie della nomenclatura di turno.

Dio mio, quanta fatica è stata sprecata nelle ore successive alla sortita di Medvedev nei palazzi della politica italiana per indignarsi delle sue parole, o fingere l’indignazione e sollecitare quella degli avversari o concorrenti, come hanno fatto, per esempio, il segretario del Pd parlando del centrodestra e il centrodestra parlando della sinistra alla quale Enrico Letta non ha saputo rinunciare, o il ministro degli Esteri Luigi Di Maio del suo ex partito. Che da qualche settimana lui chiama “il partito di Conte”: l’ex presidente del Consiglio che alla fine ha capito di non potersi sottrarre concedendo due aggettivi alla “intromissione” russa nella campagna elettorale italiana: “inopportuna” e “pericolosa”. Mamma mia, che paura debbono aver fatto non dico a Medvedevd, se mai gliene arriverà un’eco, ma ai solerti funzionari dell’ambasciata russa in Italia: magari quegli stessi che, secondo rivelazioni fatte da Di Maio, erano stati consultati nei mesi scorsi su una risoluzione  parlamentare progettata dai senatori pentastellati per marcare le distanze dal governo, quindi dallo stesso Di Maio in quanto titolare della Farnesina, sulla guerra in Ucraina e sugli aiuti militari a Kiev. Una compromissione persino peggiore di quella giustamente contestata, per carità, a Matteo Salvini per quella smania di volare a Mosca con un biglietto aereo acquistato direttamente dall’ambasciata russa, per quanto rimborsato -di nuovo, per carità- dopo la rinuncia al progetto in cosiddetta zona Cesarini.

Dalla prima pagina di Repubblica

Vogliamo dire la verità davvero in questa storia delle intromissioni, interferenze e quant’altro della Russia nella campagna elettorale italiana senza partecipare alla fiera delle ovvietà e attendersi chissà che cosa dal Copasir, il comitato parlamentare della sicurezza della Repubblica automobilitatosi con una dichiarazione del presidente di destra Adolfo Urso? Io francamente tutto questo scandalo non lo vedo nelle imprecazioni di Medvedev. E’ il minimo che ci si possa aspettare da uno come lui in questo passaggio indubbiamente difficile per tutti noi europei, e più in generale occidentali, ma ancor più drammatico -credo- per i russi a causa della imprudenza con la quale  il loro governo, o regime, ha buttato giù la maschera di una politica internazionale aggressiva. Che nella migliore delle ipotesi, per loro, li porterà  a rimorchio dei cinesi. Nei cui riguardi i sovietici erano un pò più prudenti di Putin, e Medvedev. 

La vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

Ogni parola, ogni gesto russo contro Draghi non può che giovare al presidente ancora in carica del Consiglio dei Ministri, sia pure per i cosiddetti affari correnti di un tempo di emergenze. Un presidente del Consiglio che ha voluto tenersi estraneo alla campagna elettorale sino a diffidare, praticamente, il Ministero dell’Interno dall’ammettere un simbolo depositato a sua insaputa per rappresentare gli “Italiani con Draghi”. Ma egli continua ad essere il convitato o persino protagonista di pietra di questa eccezionale campagna elettorale anche per stagione e durata. Per la sua conferma, a dispetto di tutti i sondaggi favorevoli alla prima donna nella storia d’Italia che è arrivata realisticamente ad aspirare a Palazzo Chigi, cioè Giorgia Meloni, si batte ormai sempre più a visto aperto l’unica, vera novità di questa corsa, peraltro anticipata, alle urne: il cosiddetto terzo polo, che ha già compiuto il miracolo di mettere o rimettere insieme Carlo Calenda e Matteo Renzi. 

“Il nostro obiettivo -ha appena dichiarato Calenda- è chiaro e semplice. Uno: andare avanti con l’agenda Draghi. Due: andare avanti con il metodo Draghi, quello del buon senso e del buon governo. E la capacità di dire dei sì e dei no in modo netto. E possibilmente avere Draghi come presidente del Consiglio”. A dispetto anche di Medvedev, oltre che di quanti in Italia o non gli hanno mai dato la fiducia in Parlamento o gliel’hanno ritirata. 

Pubblicato sul Dubbio

Draghi si risparmia i ringraziamenti a Mevdev, Putin e compagni

Titolo della Stampa
Titolo di Repubblica

Scusatemi ma fra “l’ingerenza russa” e “il ricatto russo” gridati, rispettivamente, da Repubblica e dalla Stampa sulle loro prime pagine, in una unità editoriale ritrovata dopo le diverse valutazioni sul terzo polo elettorale di Carlo Calenda e Matteo Renzi, trovo un pò troppo ingenerosa la reazione dei principali giornali italiani al solito Dmitri Medvedev. Che da Mosca, fingendo di parlare a tutti gli europei ma in realtà pensando solo o soprattutto agli italiani, non foss’altro perché più vicini di tutti alle urne, li ha esortati a votare contro i loro governi “idioti” e simili. Tanto idioti, nel caso di quello ancora presieduto in Italia da Mario Draghi, da avere partecipato alle sanzioni contro la Russia per l’aggressione all’Ucraina e da fornire a quel mezzo nazista che sarebbe Zelensky aiuti militari non proprio sprecati, come tutti gli altri, visto che la guerra non si è per niente chiusa nei tempi e con gli effetti programmati a Mosca. 

Vignetta del Foglio

Tutti o quasi furenti quindi in Italia per la gamba tesa o la lingua rapace di questo Medvedev col quale ha voluto un pò scherzare solo il vignettista del Foglio, Makkox, attribuendogli l’inciso di “voi che potete” votare, diversamente dai russi  che solo a definire guerra quella in Ucraina finiscono in carcere. Noi non possiamo, è rimasto in gola allo sprovveduto. Che nel mio piccolo, anzi piccolissimo, come un granello di sabbia, vorrei ringraziare per l’inconsapevole aiuto che ogni sua sortita fornisce a Draghi. Il quale, per quanto non disponga di un partito suo e non si sia candidato alle elezioni del 25 settembre, è un protagonista, se non addirittura il protagonista della campagna elettorale.

Il Ministero dell’Interno, come largamente previsto, specie dopo la nota di Palazzo Chigi opposta alla sua presentazione per mancanza del consenso dell’interessato, e quindi della trasparenza  richiesta , ha inserito fra i 13 bocciati dei cento e più simboli depositati per le elezioni quello degli “Italiani con Draghi” per un “rinascimento” del Paese. 

Calenda in conferenza stampa
Carlo Calenda

Contemporaneamente, tuttavia, il leader del terzo polo Calenda, affiancato dalle ministre ex forziste Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, dichiarava in una conferenza stampa: “Il nostro obiettivo è chiaro e semplice: Uno. andare avanti con l’agenda Draghi. Due: andare avanti con il metodo Draghi: quello del buon senso e del buon governo. E la capacità di dire dei sì e dei no in modo netto. E possibilmente avere Draghi come presidente del Consiglio” anche nella nuova legislatura, per quanto scontata appaia al centrodestra la propria vittoria elettorale e il conseguente approdo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi come prima donna nella storia d’Italia. O per quanti sforzi faccia il segretario del Pd Enrico Letta di immaginarsi di nuovo presidente del Consiglio, con l’aiutino magari dello stesso Draghi, dopo la brutta esperienza del 2014, quando l’appena eletto segretario del suo partito Matteo Renzi gli disse di “stare sereno” mentre si preparava a scalzarlo alla guida del governo. 

La cosa migliore che potrebbe fare per Draghi un uomo come Medvedev, e alle spalle uno come Putin, è proprio quello che stanno facendo con la solita solerzia: sparargli contro, per fortuna solo parole e non anche missili. Di nuovo grazie, cari compagni di una quasi ritrovata Unione Sovietica, da voi già servita del resto in altre vesti, o uniformi. 

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Bibì e Bobò dividono molto allegramente i giornali degli Agnelli

La vignetta di Ferragosto su Repubblica

Non si è dovuto aspettare molto per valutare il mistero di quella vignetta demolitrice del terzo polo elettorale comparsa sull’edizione di Ferragosto della Repubblica di carta. In cui Altan,  ispirandosi al Bibì  e al Bobò di una famosa striscia comica americana di fine Ottocento, aveva praticamente deriso il proposito di Carlo Calenda e di Matteo Renzi di contestare “il bipopulismo” del centrodestra e del centrosinistra. O -se preferite metterla più sul personale- di Giorgia Meloni e Matteo Salvini nel centrodestra non più controllato ormai da Silvio Berlusconi, e di Enrico Letta in un centrosinistra che non ha potuto fare a meno dei rossoverdi orgogliosi di non avere mai votato la fiducia a Mario Draghi e, tanto meno alla sua “agenda”.

Giuseppe Conte

Vi sarebbe, in verità, anche un terzo populismo, rappresentato da Beppe Grillo col suo originario MoVimento 5 Stelle e aggiornato da Giuseppe Conte in questa campagna elettorale promettendo anche lui cose dell’altro mondo e praticando, nella preparazione delle liste, un familismo davvero sorprendente per chi era politicamente cresciuto disprezzando gli avversari anche per l’abitudine di portarsi appresso in politica fratelli, mogli, amanti, cognati, cugini e via domesticando. Ma ormai in discesa elettorale come sono, e dalla quale sarà ben difficile che Conte riuscirà a risollevarli con la “squadra” dei 15 apostoli imposti anche al garante silente del MoVimento, i pentastellati non fanno più tanta paura, forse. E Altan ha potuto anche sbattersene prendendo in giro i Bibì e Bobò in comica lotta contro il “bipopulismo”, appunto.

Mi chiedevo, davanti alla vignetta di Repubblica, se fosse un segnale ai naviganti del gruppo editoriale della famiglia Agnelli. Dove ormai il mio amico di una volta Luca di Montezemolo non conta più niente e non può pertanto spendersi, per esempio, per Carlo Calenda, suo collaboratore ai tempi della presidenza di Confindustria 

La reazione oggi di Goffredo Bettini
Il titolo dell’articolo di Massimo Recalcati ieri sulla Stampa

Ma alla Stampa, quella di Torino diretta da Massimo Giannini, del Bibì e Bobò dell’ammiraglia del gruppo se ne sono bellamente e per me lodevolmente sbattuti pubblicando ieri a favore delle vittime di Altan un lungo e argomentato articolo del professore, psicanalista, saggista e quant’altro Massimo Recalcati. Che guarda con fiducia al terzo polo per i voti che potrà sottrarre non tanto e non solo al centrodestra, quanto al polo di Enrico Letta. Dove Recalcati lamenta, fra l’altro, procurandosene una pronta reazione, la presenza e l’influenza di Goffredo Bettini, nostalgico dei tempi d’amore e d’accordo con Conte, scambiato per il punto di riferimento più alto dei progressisti. 

Recalcati sulla Stampa
Il titolo, sempre ieri sulla Stampa, dell’articolo di Gianni Oliva

Di rinforzo a Recalcati un altro collaboratore della Stampa, per giunta nello stesso numero, Gianni Oliva, ha scritto di votare per il Pd molto malvolentieri, tappandosi il naso “sempre più stretto”, come faceva e faceva fare Indro Montanelli ai suoi tempi per la Dc. E per le stesse ragioni, praticamente, di un Recalcati pur trattenutosi dall’annuncio del suo voto, ma lasciando capire che potrebbe alla fine preferire nelle urne proprio i presunti Bibì e Bobò di Altan. I quali avrebbero già avuto il merito di scoprire il gioco di un “centrosinistra” che anziché “recidere il suo populismo ideologico, nutre un’attitudine nostalgica per un passato glorioso e una identità politico-culturale solida”: glorioso e solida naturalmente nella convinzione di parte. 

Recalcati sulla Stampa

E’ una sinistra, questa presuntuosa lamentata da Recalcati, che “non riesce a pensare il nostro tempo senza ricorrere a paradigmi ideologici: gli stessi che, per fare un esempio, hanno impedito l’approvazione della riforma costituzionale del 2016”, ritrovandosi peraltro anche in quella occasione con l’estraneo Silvio Berlusconi, come nelle scorse settimane interrompendo, o lasciando interrompere il governo Draghi. 

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I 15 apostoli di Giuseppe Conte, più i familiari degli incandidabili

Roberto Scarpinato
Conte al direttore della Stampa

Fra i dodici apostoli di Gesù Cristo riuscì notoriamente a infilarsi, o infiltrarsi, Giuda Iscariota, che lo tradì per trenta denari. Giuseppe Conte -non chiamatemi blasfemo, per favore- è stato più coraggioso con la sua “piccola squadra di quindici persone”, come lui stesso l’ha chiamata parlandone col direttore della Stampa Massimo Giannini. Quindici persone blindate nelle liste bloccate “che potrebbero garantirci -ha detto- l’efficacia della nostra azione come Cafiero De Rhao, Roberto Scarpinato, Sergio Costa, Livio De Santoli”. Sono i quattro preferiti, par di capire, due dei quali  -i primi da lui citati, non credo a caso- assunti in politica, diciamo così, alla fine della loro carriera giudiziaria. Che essi potranno continuare -temo- in altro modo condizionando sui temi della giustizia le scelte di ciò che resterà dopo le elezioni del 25 settembre del MoVimento 5 Stelle, uscito dalle urne del 2018 addirittura come il più votato e rappresentato in Parlamento. 

Le prospettive, anche per la giustizia come piace ai grillini, sono per fortuna alquanto diverse questa volta: forse ancora a due cifre, come lo stesso Conte ha detto nella sua intervista a Giannini, ma ben lontane da quel 33 per cento irripetibilmente conquistato quasi cinque anni fa. E tradottosi, fra l’altro, nel passaggio di Alfonso Bonafede al Ministero della Giustizia. 

Non credo che gioveranno alle ambizioni di Conte le candidature dei parenti -fra mogli, mariti, fratelli- dei parlamentari non ricandidati per il famoso limite dei due mandati rispettato per il rifiuto del “garante” Grillo di concedere deroghe. Un movimento che doveva rivoluzionare il Paese e aprire il Parlamento come una “scatola di tonno”, o sardine, e si riduce ad un’associazione un pò familistica non è francamente il massimo. 

Conte ancora al direttore della Stampa
Titolo del Foglio

Può darsi, per carità, che sia esagerata la rappresentazione che ne fa oggi Il Foglio in prima pagina raccontando di un “Conte pigliatutto”, che “si blinda e medita la rottura con Grillo. Che tace e non farà campagna per il movimento”. Invece, interrogato proprio sui suoi rapporti con Grillo, l’ex presidente del Consiglio ha assicurato, sempre al direttore della Stampa, che sono “molto buoni”. “In passato -ha ammesso- c’è stato un momento di vero scontro e di visioni diverse. Poi c’è stata una composizione, si è trovato un equilibrio e ora riusciamo a collaborare”. “Ci sentiamo costantemente”, ha addirittura rivelato. 

Una quiete quasi leopardiana dopo la tempesta, insomma: una quiete però durante la quale Grillo ha impedito a Conte, fra l’altro, di intestarsi il movimento mettendo il proprio nome nel simbolo. 

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