Sogni di mezza estate a destra, a sinistra, al centro e sotto le cinque stelle

Titolo di Repubblica su Calenda e Renzi
Foto di qualche giorno fa

  Nel casino -scusate la parolaccia- creatosi o accentuatosi col ritiro del bacio di Carlo Calenda ad Enrico Letta, e in attesa di sapere se lo stesso Calenda e Matteo Renzi -“gli sfascisti” secondo il manifesto- riusciranno a trovare un’intesa per il famoso “terzo polo” centrista, capace di durare almeno sino al giorno delle elezioni, i più appassionati o disincantati, secondo le preferenze, si sono abbandonati ai sogni. 

Sonetto di Dante
Giuliano Ferrara sul Foglio

Giuliano Ferrara sul Foglio, per esempio,  come in una vista al cimitero anziché ai giardinetti, già deluso, preoccupato e quant’altro perché l’adesso preferito Pd di Enrico Letta non avesse compreso l’utilità di un’alleanza anche con i “grillozzi”, come li chiama lui affettuosamente, si è messo a rimpiangere quei “tre liberali realisti, influenti” rispondenti ai nomi “del democristiano Alcide De Gasperi, del comunista Giorgio Amendola e del socialista Bettino Craxi”. Sembrava di leggere il più divino Dante in quel sonetto famosissimo che dice: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler nostro e mio”. 

Alessandro Sallusti su Libero

Alessandro Sallusti su Libero ha sognato il suo centrodestra in “silenzio stampa, modello Bearzot ai mondiali di Spagna 1982, che tanto portò bene”. Egli teme che a furia di sparare numeri come stanno facendo Silvio Berlusconi e Matteo Salvini con la flat tax al 23 o al 15 per cento, da venditori di pentole al mercato, sfuggirà  alla sua parte politica il successo dato per scontato persino dagli avversari. “Ma perdindina -ha scritto il direttore di Libero, sempre a proposito di Berlusconi e Salvini- non potrebbero telefonarsi e stabilire una cifra comune, visto che da fuori non è bello sentire dare i numeri?”. “Va bè, sono dettagli ma occhio a non esagerare ché poi magari qualcuno se ne accorge e iniziano i guai”, ha ammonito l’amico, estimatore e quant’altro del Cavaliere e del Capitano.

In una conclusione dichiaratamente “fantapolitica” del suo solito, abbondante editoriale di giornata Marco Travaglio ha immaginato dimissionari, “come Diaz dopo Caporetto”, il segretario del Pd Enrico Letta e “i vicedisastri Franceschini, Guerini&C”, sostituiti come “reggente” da Pier Luigi Bersani, “l’unico leader che ancora scaldi il cuore del fu elettorato di sinistra”. 

La vignetta del Fatto Quotidiano del 7 agosto
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Che ti fa il buon Bersani nella testa di Travaglio? “Consegna l’Agenda Draghi al cartolaio sotto casa” -che è già preferibile al cesso dove l’altro ieri il vignettista Riccardo Mannelli l’aveva collocata, sempre sul Fatto Quotidiano, con alcune pagine già strappate e usate da qualcuno per pulirsi il sedere- “si scusa per le calunnie del Pd al M5S, chiama Conte, scrive con lui 10 punti di programma sociale in politica interna e multilaterale in politica estera, e costruisce un’alleanza progressista che riprenda il discorso interrotto col governo Conte 2, per provare a vincere le elezioni, o almeno a perderle con onore”. Ma neppure Conte mostra di condividere questo sogno dall’aldilà dove lo stesso Travaglio lo aveva mandato l’anno scorso col giallo scritto dopo la perdita di Palazzo Chigi e titolato “Conticidio”. 

Un bel casino, ripeto rinnovando la richiesta di scuse.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it 

Il solito catenaccio alla ingiallita Costituzione “più bella del mondo”

Carlo Calenda
Titolo del Dubbio

Anche se non lo ha detto, o non ancora in modo esplicito, limitandosi a lamentare “la scelta riformista” abbandonata o tradita da Enrico Letta per accordarsi anche con i rossoverdi nella partita elettorale contro il centrodestra, deve avere contribuito alla rottura, “strappo” e quant’altro di Carlo Calenda la blindatura della Costituzione uscita proprio dall’intesa fra il segretario del Pd, i rossi di Nicola Fratoianni e i verdi di Angelo Bonelli. Una Costituzione -hanno avvertito costoro- minacciata dal progetto del presidenzialismo riproposto da Giorgia Meloni ormai lanciata verso Palazzo Chigi.  Alla quale Silvio Berlusconi, una volta tanto deludendo forse quel Matteo Salvini cui aveva concesso troppo secondo i “traditori” appena usciti da Forza Italia, ha riconosciuto -in una intervista alla Verità- di avere un “coraggio” pari al suo. 

Il presidenzialismo, del resto, è sempre stato nelle corde di Berlusconi, come lo fu in quelle dell’amico Bettino Craxi. Che si procurò per questo negli anni Settanta su Repubblica le vignette in posa mussoliniana di un Giorgio Forattini pur non generoso con i comunisti. Ai quali il leader socialista era tanto indigesto da meritarsi nei menù alle feste dell’Unità l’intestazione della trippa. 

All’improvviso, con questa storia del presidenzialismo in salsa meloniana, che un centrodestra vittorioso nelle urne del 25 settembre potrebbe introdurre con una maggioranza tanto larga da non correre neppure il rischio di un referendum confermativo, la Costituzione è tornata ad essere a sinistra la più bella del mondo, come ai tempi di Pier Luigi Bersani e della scuola del Pd affidata all’alta autorità, diciamo così, del presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Che era tornato alla politica militante, dopo i sette anni trascorsi al Quirinale, per condurre e vincere il referendum costituzionale targato Berlusconi e Bossi. 

La Costituzione, dicevo, è tornata ad essere la più bella del mondo, quindi intoccabile, anche nel titolo quinto -sui rapporti fra Stato e regioni- modificato a stretta maggioranza in tempi d’Ulivo per inseguire inutilmente i leghisti e alla fine riconosciuto dalla stessa sinistra come un maledetto incidente. Al quale non fu possibile rimediare neppure con la riforma costituzionale voluta dall’allora segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio Matteo Renzi nel 2016: bocciata, come si ricorderà, a prescindere dal suo contenuto, giusto per colpire e poi affondare la nave renziana. Dalla quale era sceso anche Silvio Berlusconi per la corsa al Quirinale del 2015, fatta vincere a Sergio Mattarella da Renzi, sempre nella doppia veste di capo del suo partito e del governo. 

Proprio a proposito di quell’infortunio del titolo quinto, riconosciuto ben prima che l’emergenza pandemica ne rendesse ancora più evidenti i danni, Massimo D’Alema si distinse nell’opposizione alla riforma costituzionale di Renzi dicendo che “in pochi mesi” se ne sarebbe potuta approvare un’altra. Sono passati sei anni e siamo ad un’altra campagna di intangibilità costituzionale per nuovi, sopraggiunti pericoli di una destra ritenuta sostanzialmente eversiva. Che vorrebbe introdurre sistemi istituzionali ai quali l’Italia non sarebbe adatta, matura e quant’altro. 

Gustavo Zagrebelsky a Reoubblica
Il titolo dell’intervista di Gustavo Zagrebelsky a Repubblica

E’ appena intervenuto l’emerito professore e presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky per spiegarci in una intervista alla Repubblica di carta come e perché non ci meritiamo un presidente della Repubblica vera eletto direttamente dagli “italiani”, peraltro indicati nella riforma Meloni come sostantivo e non aggettivo, senza la qualifica di “cittadini, come sta scritto nella Costituzione del 1948”. “E’ una sfumatura, ma significativa”, ha avvertito il professore aggiungendo misteriosamente che “anche la scelta delle parole restituisce una diversa idea della democrazia e dell’inclusione”. Già, perché fra gli inconvenienti dell’elezione diretta del presidente della Repubblica ci sarebbe quello di avere ogni volta un vincitore e uno o più sconfitti, ossia esclusi, come i “sudditi” – anziché “cittadini”- negli “altri regimi”. 

Ancora Gustavo Zagrebelsky a Repubblica

Noi italiani, anche quelli nati e cresciuti dopo il fascismo, abbiamo secondo Zagrebelsky una specie di gobba, ancora più accentuata del compianto Giulio Andreotti, che non ci permette di indossare l’abito del presidenzialismo. Scomodando addirittura il Tacito degli Annali Zagrebelsky ci ha accusati di “rudere in servitium”, cioè di “propensione di accorrere al servizio” dell’imperatore di turno. “Esiste -ha insistito il professore- una nostra attitudine a servire il potente che è ampiamente dimostrata dal consenso plebiscitario a Mussolini sotto il fascismo. Un affrettarsi sul carro del vincitore che può rovesciarsi anche nel suo contrario, ossia nell’abbandonarlo precipitosamente ai primi segni di debolezza”. 

Con questi argomenti non politici, non filosofici ma addirittura antropologici, e un  pò anche razzisti, diciamo la verità, dovremmo quindi difendere tutti l’intangibilità della Costituzione, a dispetto dell’articolo 138 che ne disciplina la “revisione”, testuale, fatta eccezione per la “forma repubblicana”, precisa l’articolo successivo. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 15 agosto

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