Per quanto spalleggiato, a volte addirittura preceduto come in una missione di perlustrazione da un ritrovato Matteo Salvini, di cui si era liberato come vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno nell’estate del 2019, Giuseppe Conte riesce ad occultare sempre di meno l’ansia da abbandono o sconfitta. Pare ch’egli abbia preso molto male, per esempio, la notizia appena arrivatagli di un Salvini, appunto, fattosi convincere a Palazzo Chigi da Mario Draghi a non tirare troppo la corda del dissenso, veto e quant’altro contro nuovi aiuti militari all’Ucraina per paura di compromettere trattative segrete e non con Putin e chiudere una guerra che si sta sempre più ritorcendo contro la Russia. Che è circondata ormai sempre di più e non di meno da paesi in fila per aderire alla Nato e sfuggire così agli appetiti del Cremlino.

Salvini dissente dalle spedizioni di altre armi a Zelensky ma non fino al punto di reclamare una votazione parlamentare, reclamata invece da Conte per complicare la vita al governo: non si sa peraltro se più al presidente del Consiglio Draghi o al ministro grillino degli Esteri Luigi di Maio, col quale la competizione dell’avvocato per il controllo del MoVimento 5 Stelle e delle sue truppe parlamentari è ormai cronica. E’un controllo obiettivamente difficile, come ha dimostrato una proiezione elettorale di cui ha dato notizia Repubblica in prima pagina, secondo cui tra riduzione dei seggi voluta dagli stessi grillini con una riforma costituzionale imposta a tutti gli alleati di turno in questa tormentata legislatura e perdite di voti registrate in ogni tipo di elezione svoltasi dopo quelle politiche del 2018, “rischiano il posto -ha titolato il giornale diretto da Maurizio Molinari- 8 onorevoli su 10”: onorevoli deputati e senatori, naturalmente.

In questa ormai tonnara, come mi è già capitato di chiamare l’intero Parlamento in questo scorcio di legislatura, quando persino la presidente forzista del Senato Maria Elisabetta Casellati -a leggere Il Fatto Quotidiano- sarebbe tentata dal passaggio alla destra di Giorgia Meloni pur di tornare a Palazzo Madama nella nuova legislatura, e magari anche essere confermata nella sua alta posizione istituzionale, Conte deve sentirsi fra i parlamentari del suo movimento come un asino in mezzo ai suoni. Il suo non è più un problema politico ma sociale, come una volta Aldo Moro disse ironicamente a Giulio Andreotti facendo nel 1966 il suo terzo governo “organico” di centrosinistra.
L’aumentato potere contrattuale dei socialdemocratici nella maggioranza derivato dall’elezione di Saragat al Quirinale, alla fine del 1964, e le sempre mutevoli esigenze di equilibrio interno nella Dc avevano posto a Moro il problema di spostare Andreotti, appunto, dal Ministero della Difesa, cui aspirava proprio Saragat per l’amico di partito Roberto Tremelloni, al Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato, come si chiamava allora l’odierno dicastero dello Sviluppo Economico, in via Veneto.
Al povero Andreotti che, senza metterla in politica, cioè senza sollevare problemi di chissà quali e quanti rapporti internazionali in gioco, gli aveva confidato di non sapere come sistemare la numerosa segreteria -di varie decime di persone- costituita al Ministero della Difesa, Moro rispose disarmandolo: “Ma questo non è un problema politico. E un problema sociale”. Che Andreotti risolse sistemando gradualmente i suoi troppi collaboratori altrove. Ma un altrove per Conte alle prese con quegli otto onorevoli su dieci -ripeto- in pericolo sotto le cinque stelle è francamente difficile immaginare.
Rispondi