
Spero che il prototipo della classe dirigente di cui Giorgia Meloni ha assicurato di disporre per guidare il governo del Paese -se il centrodestra dovesse vincere le elezioni, nonostante la confusione in cui si trova, e i fratelli d’Italia sorpassassero gli alleati- non sia il pur navigato Adolfo Urso. Che è stato deputato della destra nelle sue varie formulazioni per una ventina d’anni, due volte sottosegretario nei governi di Silvio Berlusconi, ed ora è senatore e presidente di una commissione fra le più delicate, se non la più delicata in assoluto delle Camere: il Copasir. Che sta per Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, come si chiama dal 2007, portando prima il nome di Comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti: controllo peraltro che esso continua ad esercitare, anche se non così esplicitamente. In Italia, si sa, le cose semplici e chiare non hanno diritto di cittadinanza. Debbono essere avvolte, prima o poi, in qualche involucro tanto altisonante quanto nebbioso.
Non ho nulla di personale contro questo senatore che per salire così in alto ha fatto ingaggiare da Giorgia Meloni l’anno scorso una lotta durissima nel centrodestra, non volendo la Lega di Matteo Salvini mollare la presidenza del Copasir in questa legislatura anche dopo essere tornata al governo con Mario Draghi, e spettando invece per legge quella postazione istituzionale ad un gruppo parlamentare di opposizione, quale appunto è sempre stato dal 2018 quello della Meloni. E ciò anche se -a dire il vero, altra particolarità delle cose italiane- in tema di politica estera e ora di guerra in Ucraina la Meloni è schierata con Draghi più chiaramente di Salvini, oltre che dei pentastellati guidati dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Non ho nulla di personale, dicevo, contro Urso anche perché è un giornalista iscritto all’albo dei professionisti, quindi un mio collega. Ma proprio in quanto giornalista trovo ancora più sorprendente che in veste di presidente del Copasir abbia deciso di partecipare alla campagna improvvisata purtroppo anche da Mario Draghi e politici di una certa esperienza come il segretario del Pd Enrico Letta, marito peraltro di una giornalista, contro l’intervista al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov realizzata da Giuseppe Brindisi e trasmessa domenica sera da Rete 4 nella sua trasmissione “Zona bianca”.
Sarebbe stata, secondo questa campagna, una somma di false notizie, utili alla propaganda del Cremlino. Ma -da che giornalismo è giornalismo- possono essere false le notizie che dà l’intervistato, non un’intervista. Il cui autore non è responsabile di quello che l’intervistato dice, anche se omette di contestargliele per evitare che l’intervista svanisca subito in un vaffanculo -scusate la schiettezza- dell’intervistato non comune.

Se l’obiettivo del conduttore di “Zona bianca” era quello, doveroso per un giornalista, di far conoscere le opinioni del ministro degli Esteri russo, e presumibilmente dello stesso Putin, sulla guerra scatenata in Ucraina, e che ha preso -presumo- una piega e una dimensione assai diverse da quelle imprudentemente calcolate al Cremlino, esso è stato pienamente raggiunto. Lo dimostrano proprio le proteste anche internazionali, come quella di Israele, che ha provocato per le fesserie e persino oscenità dette dal ministro degli Esteri russo. Oscenità, a mio modesto avviso, che aggravano la già compromessa posizione e credibilità di Putin dopo una ventina d’anni di messinscena, esse sì.


Da Urso giornalista, e politico, mi aspettavo che dicesse questo, non le parole di censura pronunciate contro le “modalità” dell’iniziativa e la diffusione dell’intervista del successore -non dimentichiamolo- dei sovietici Molotov e Gromyco. Che ne sarebbero orgogliosi se vivessero ancora.
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