
Se non fa come Penelope, che per sottrarsi ai corteggiatori e simili disfaceva di giorno la tela che aveva tessuto di notte, Paolo Gentiloni ha un bel da fare per seguire e partecipare a suo modo, con un misto di discrezione, di interesse e al tempo stesso di disincanto, alla corsa al Quirinale per la successione a Sergio Mattarella.
A leggere la particolareggiata e documentata corrispondenza di ieri da Bruxelles di Claudio Tito sulla Repubblica, in una decina di giorni fra il 9 e il 18 novembre Gentiloni ha incontrato, tra l’abitazione privata e il suo ufficio di commissario europeo agli affari economici, Matteo Renzi, il segretario del Pd Enrico Letta, il presidente e potente collega di partito della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e la ministra forzista Mara Carfagna.

L’incontro che ha fatto più notizia è stato naturalmente quello con Renzi, conviviale e lungo, dopo anni di sostanziale incomunicabilità fra i due, che pure sembravano legati a filo doppio quando Renzi era a Palazzo Chigi. Fu l’allora segretario del Pd a designare Gentiloni alla Presidenza del Consiglio, facendolo traslocare dalla Farnesina, dopo avere perduto il referendum sulla riforma costituzionale.
La rottura si consumò per essersi poi Gentiloni schierato con Mattarella contro la richiesta delle elezioni anticipate avanzata da Renzi. Il quale, a torto o a ragione, ma forse più a ragione che a torto, riteneva che la sconfitta referendaria, pur costatagli Palazzo Chigi, fosse politicamente recuperabile per il 40 per cento dei sì comunque raccolti, più omogenei o compatti di quel 60 per cento dei no esteso da Berlusconi a Massino D’Alema, Pier Luigi Bersani e Beppe Grillo: un’Armata allora davvero Brancaleone.
Pur enfaticamente annunciato su Repubblica come “la pace di Bruxelles”, l’incontro tra Gentiloni e Renzi è ancora più significativo considerando il fatto che è avvenuto prima del raduno annuale dei renziani alla stazione fiorentina della Leopolda. Al quale il leader della pur minuscola Italia Viva, sotto il 2 per cento nei sondaggi ma con una quarantina e più di parlamentari ancora a disposizione fra Senato e Camera, si è presentato con l’ambizione di svolgere un ruolo importante nella successione a Mattarella, a favore di un presidente- ha detto- di provato “europeismo” e “antisovranismo”. Come appunto potrebbe ben essere Gentiloni, sul quale peraltro erano giù circolate voci di una certa attenzione anche da parte di Enrico Letta, non a caso visto a Bruxelles dal commissario europeo proprio dopo l’incontro con Renzi. Che -benedett’uomo- sembra avere immaginato sull’attuale segretario del Pd, pur attaccandolo continuamente per i rapporti troppo stretti attribuitigli con i grillini, un futuro addirittura da segretario generale della Nato. Che peraltro era la destinazione immaginata sino a qualche tempo fa proprio per Renzi, prima che lasciasse il Pd. Il povero Enrico Letta, insomma, non sta mai nel posto giusto dal punto di vista di Renzi, che alla fine del 2013 piuttosto che lasciarlo a Palazzo Chigi, parlandone al telefono con un generale della Guardia di Finanza inconsapevolmente intercettato, disse che sarebbe stato meglio prenotargli il Quirinale. Dove però era stato da poco confermato Giorgio Napolitano. Seguì solo un pur volontario esilio a Parigi.
Fondate o non che siano, le aspirazioni di o su Gentiloni alla Presidenza della Repubblica per uno scioglimento ordinario del nodo quirinalizio, senza trattenere Mattarella né spostare Draghi da Palazzo Chigi, hanno allarmato soprattutto chi ancora è convinto che possa giocarsi la partita del Quirinale anche Berlusconi. Del cui Giornale di famiglia conviene seguire in questi tempi con particolare attenzione cronache e commenti, specie ora -peraltro- che è diretto da un conoscitore esperto dei palazzi della politica come il mio carissimo amico Augusto Minzolini. Che non ha avuto tutti i torti ieri a paragonare Renzi a Bettino Craxi, pure lui spesosi sino alla dannazione ai suoi tempi per modernizzare la sinistra. La cui parte più massimalista o radicale gli si rivoltò come una belva ferita. E lo mise fuori gioco con l’aiuto della magistratura più politicizzata.

Proprio nel paragonarlo a Craxi e allo sfortunato epilogo della sua carriera politica il direttore del Giornale con grande astuzia politica, considerando interessi, ambizioni e quant’altro del suo editore, ha ammonito Renzi a non ripetere l’errore compiuto da Craxi nelle elezioni presidenziali del 1992, quando già il clima politico era intossicato dal mix di cronaca politica e giudiziaria sull’inchiesta della Procura di Milano, e simili, contro il finanziamento illegale dei partiti e la presunta ma non sempre provata corruzione.

Allora il leader socialista preferì la candidatura del presidente democristiano della Camera Oscar Luigi Scalfaro a quella del presidente repubblicano del Senato Giovanni Spadolini come soluzione “istituzionale” e d’emergenza della successione a Francesco Cossiga dopo il boato spaventoso, in tutti i sensi, della strage mafiosa di Capaci, compiuta in piena sessione parlamentare per l’elezione del capo dello Stato.
Di quella scelta, maturata appezzando la lealtà mostratagli da Scalfaro quando era stato il suo ministro dell’Interno, fra il 1983 e il 1987, Craxi si sarebbe poi pubblicamente pentito. Da lui non ebbe una mano o un dito d’aiuto, ma l’ultima pedata nello scontro con la sinistra massimalista e le artiglierie giudiziarie. Sono passati quasi 30 anni, ma sembrano molti di meno per il vivido ricordo che se ne ha ancora.
Pubblicato sul Dubbio
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