

Né i 43 anni passati dalla tragedia di Aldo Moro né i 20 anni appena trascorsi dalla morte di Giovanni Leone -l’amico di Moro e presidente della Repubblica che, dissentendo dalla cosiddetta linea della fermezza, aveva disperatamente tentato di evitarne la fine, sino a predisporre la grazia per una terrorista inclusa nell’elenco dei tredici “prigionieri” con i quali gli aguzzini avevano proposto di scambiare il presidente della Dc sequestrato fra il sangue della sua scorta- sono dunque bastati a restituire tutto ciò che spetta alla memoria di quel cristianissimo capo dello Stato. Che Sergio Mattarella ha commemorato in presenza dei familiari, a cominciare dalla vedova Vittoria, invecchiata con tutto il suo permanente dolore, solo per cogliere -temo- l’opportunità politica di riproporre un tema legatissimo alla cosiddetta corsa al Quirinale.
In particolare, Mattarella ha voluto ricordare la contrarietà di Leone alla immediata rieleggibilità del capo dello Stato, espressa in un messaggio alle Camere, per ribadire la propria indisponibilità ad una conferma, sia pure implicitamente a termine, come quella già praticata al predecessore Giorgio Napolitano nel 2013, che molti auspicano per le circostanze eccezionali in cui sta maturando la sua successione. Che avviene in un Parlamento prossimo anch’esso alla scadenza, nel 2023, e destinato ad essere sostituito da Camere assai diverse per consistenza -ridotte di un terzo dei seggi- e per rapporti politici, essendo i grillini passati dalla maggioranza relativa del 2028 a poco più del 15 per cento dei voti.
C’è anche chi ha visto in questo richiamo di Mattarella a Leone una mezza disponibilità a rivedere il rifiuto di una conferma purché serva a definire nell’anno residuo della legislatura una risolutiva modifica della Costituzione per sancire da una parte la ineleggibilità immediata del capo dello Stato e dall’altra l’abolizione -come volevano Leone ma anche Antonio Segni- del cosiddetto semestre bianco. Che attualmente impedisce al presidente nell’ultima parte del proprio mandato di sciogliere le Camere, nel timore di procurarsene altre favorevoli alla sua conferma.
Se così fosse, cioè se si potesse arrivare ad una breve conferma di Mattarella per sciogliere finalmente anche questo nodo costituzionale, consentendo al tempo stesso la prosecuzione del governo di emergenza in carica presieduto dal benemerito Mario Draghi, senza coinvolgere quindi anche lui nella corsa al Quirinale, come si sta cercando di fare con le più diverse e anche contrastanti finalità, sarebbe davvero un affare.

Ma torniamo a Leone. Capisco l’opportunità contingente di richiamarsi a lui per una migliore definizione costituzionale dell’elezione del presidente della Repubblica. Capisco meno, anzi per niente, l’opportunità scartata, o non avvertita, da Mattarella di restituire a Leone il riconoscimento di avere subìto non solo una odiosa campagna diffamatoria e moraleggiante, purtroppo sfociata nelle dimissioni, anticipate di sei mesi rispetto alla scadenza, ma anche l’infame strumentalizzazione fattane dalla politica dominante di quei tempi, contrassegnata dalle convergenze fra la Dc e il Pci, per fargli pagare la “colpa” di non essersi attenuto alla cosiddetta linea della fermezza sul sequestro Moro. Se ne volle l’allontanamento dal Quirinale per togliergli o ridurne la credibilità morale semmai avesse voluto manifestare più chiaramente e clamorosamente il suo dissenso dalla gestione di quella che resta la più grave e misteriosa tragedia della Repubblica italiana.
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