Non foss’altro per ragioni di calendario, dovendo il governo rispettare le scadenze comunitarie, le “grandi manovre” in corso sono state indicate dal manifesto in quelle del presidente del Consiglio alle prese con i documenti di bilancio.
Si chiama non a caso proprio “manovra” quella finanziaria di più di 20 miliardi di euro che Mario Draghi e il suo ministro di fiducia dell’Economia, Daniele Franco, hanno impostato, peraltro in un clima politico apparentemente teso, tra le esigenze identitarie, chiamiamole così, dei leghisti e dei pentastellati, ma in realtà garantito dalle debolezza degli uni e degli altri, confermate dai risultati delle elezioni amministrative. Né Matteo Salvini sul terreno pensionistico né Giuseppe Conte su quello del reddito di cittadinanza cui stringere le maglie, visti tutti i costosi abusi compiuti, sono oggettivamente in grado di rompere e di fare uscite i loro ministri dal governo per soddisfare le attese, rispettivamente, di Giorgia Meloni e di Alessandro Di Battista.
Le chiavi della partita del bilancio sono insomma e per fortuna saldamente nelle mani di Draghi, competente abbastanza in campo finanziario -per ammissione persino di Marco Travaglio- per non compromettere le prospettive di sviluppo apertesi nonostante la pandemia.

Ma altri preferiscono a quelle finanziarie un diverso tipo di grandi manovre. Il Giornale della famiglia Berlusconi -diretto ora da un collega conoscitore come pochi dei palazzi della politica, Augusto Minzolini- ha suonato la sveglia al centrodestra appena uscito da una sconfitta elettorale procuratasi da solo più che inflittagli dagli avversari, richiamandolo alla “prova del nove” costituita dalla partita del Quirinale. Che non è imminente come quella del bilancio ma di certo politicamente più importante per gli effetti che deriveranno dalla successione a Sergio Mattarella, fra meno di tre mesi,

Minzo, come Augusto è chiamato dagli amici, ha praticamente esortato Matteo Salvini e Giorgia Meloni a non ripetere nella campagna del Quirinale gli errori divisi e i pasticci della campagna elettorale, e a non lasciarsi scappare l’occasione probabilmente irripetibile -per come si sono messe le cose- di disporre nelle attuali Camere, fra parlamentari e delegati regionali, di una massa decisiva di voti per la scelta del nuovo presidente della Repubblica. Senza la cui “fiducia personale”- ha ricordato Minzolini- “l’incarico di formare un governo te le puoi scordare”.


Come candidato del centrodestra al vertice dello Stato -ha scritto il direttore del Giornale– “Silvio Berlusconi sarebbe l’identikit perfetto” perché “per natura garantirebbe loro” a livello europeo, cioè Matteo Salvini e Giorgia Meloni, entrambi aspiranti a Palazzo Chigi, “ma anche un candidato premier di sinistra”. “Magari può essere considerata un’operazione complicata, di difficile riuscita -ha ammesso Minzolini- ma non provarci, o dissimulare, non dare cioè l’immagine di un centrodestra unito, sarebbe un grave errore. Forse non riusciranno ad eleggere una personalità così (e non è detto), ma sicuramente nell’interno ridaranno vita ad una coalizione”. Che però, a mio modestissimo avviso, non ha bisogno di un candidato “di bandiera”, o su cui scommettere come alla roulette. Essa ha bisogno di un candidato soprattutto a prova -ahimè- di scrutinio segreto, cioè di “franchi tiratori”. Delle cui vittime è piena la storia delle corse al Quirinale.
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