Colpo basso a Salvini dal Foglio, e dagli eurodeputati della Lega

            In attesa ancora fiduciosa di una smentita, precisazione o quant’altro del ministro degli affari europei Vincenzo Amendola, che già con quel cognome mi mette un po’ di simpatica soggezione per l’omonimia con lo storico esponente liberale ucciso a bastonate dai fascisti, mi ha colpito il modo in cui al Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa hanno contrapposto alcune sue parole alla svolta annunciata, adombrata, propostasi -come preferite- da Matteo Salvini. Che, forte dei consigli già ricevuti da Marcello Pera, tentato dalla scommessa sull’evoluzione della Lega dopo le delusioni procurategli da Forza Italia, ha condiviso “la necessità di una rivoluzione liberale”.

            Le parole di Vincenzo Amendola sono queste: “Noi vogliamo che il Parlamento si esprima sulle linee guida per il piano nazionale di ripresa. E certo speriamo che anche le opposizioni partecipino costruttivamente, fin dalla prossima settimana”, anche perché il forzista Renato Brunetta -ha riferito Il Foglio forse sentendolo direttamente- ha riconosciuto che “si è oggettivamente lavorato bene” nelle commissioni competenti. Tanto bene -ha aggiunto il giornale riportando tra virgolette le parole del responsabile economico del partito di Silvio Berlusconi- che “stiamo ragionando coi colleghi” sulla possibilità di una convergenza in aula, quando il documento sarà discusso e votato, prima alla Camera e poi al Senato, in vista del Consiglio Europeo del 15 e 16 ottobre.

            Le “linee guida per il piano nazionale di ripresa” sono propedeutiche all’uso dei 209 miliardi dei fondi europei destinati all’Italia se questa saprà presentare progetti credibili per lo sviluppo di fronte alla crisi aggravata dalla pandemia virale. Ebbene, anche se nell’articolo non si trovano parole di Amendola specificamente riferite alle posizioni neo-liberali di Salvini e del suo partito, l’auspicio del ministro per ampie convergenze parlamentari sul documento predisposto dal governo è stato contrapposto dal Foglio ad “una nota critica sul Revocery fund” diffusa il 7 ottobre dal gruppo leghista del Parlamento Europeo. Nelle cui “conclusioni” si sostiene che “ci sarà grazie al Recovery un vincolo esterno smile alla Troika per modalità ricattatorie (ti concedo di spendere i tuoi soldi e forse una mancia se fai quello che ti dico io)”.

            “Il governo giallorosso -continua la nota leghista virgolettata dal Foglio- ha quindi vincolato ulteriormente il nostro paese alle decisioni prese in sede Ue e ora cercano di vendere questo ennesimo tradimento della patria come un grande successo e come se l’Ue ci regalerà un sacco di soldi”.

            Certo, su posizioni come queste, non so se destinate ad essere discusse nell’incontro che Salvini e Giancarlo Giorgetti hanno promosso a Roma nei prossimi giorni con gli europarlamentari del Carroccio, di “rivoluzione liberale” e di nuovo approccio leghista all’Europa sarà difficile continuare a parlare con una certa credibilità. Più che a Pera, o al governatore della Banca d’Italia appena espostosi sul Corriere della Sera con un invito a tutti a “cambiare passo”, Salvini rischia di apparire sensibile alla filosofia dell’amico sovranista Paolo Del Debbio. Che sulla Verità ha dato del “matto” a chi “spera nei soldi europei”.

 

 

 

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Ma quanta fretta di radiare Luca Palamara dalla magistratura

            Non so se davvero, e dove, Carlo Nordio abbia definito “stalinista”, come molte cronache gli hanno attribuito, il processo che la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha fatto a Luca Palamara in una decina di udienze, radiandolo alla fine dall’ordine giudiziario per il traffico di nomine, chiamiamolo così, fatto in veste di sindacalista e di consigliere dello stesso Csm. O, più figurativamente, denudandolo della toga, come lo ha rappresentato Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera.

          Nell’editoriale dedicato alla vicenda sui giornali di cui è autorevole collaboratore combinando dottrina giuridica, esperienza di magistrato e conoscenza della storia Nordio ha scritto che di stalinista il processo avrebbe avuto lo stampo se l’imputato, come appunto avveniva nell’Unione Sovietica ai tempi dello spietato dittatore, si fosse dichiarato colpevole assumendosi per intero le responsabilità e facendo quindi il gioco dell’accusa, nella speranza della clemenza per sé, familiari, compagni e quant’altri. E’ ciò che si è rifiutato di fare Palamara, propostosi anzi di ricorrere contro la radiazione in ogni sede, italiana ed europea, e di svolgere azione politica, e moralizzatrice della magistratura, nelle file del Partito Radicale. Dove -ha subito gridato e deplorato  Il Fatto Quotidiano in prima pagina- “s’è visto pure di peggio”. Non a caso, del resto, hanno cercato di tacitarne la radio i grillini, così cari al giornale di Marco Travaglio, sia pure distinguendoli da qualche giorno fra “governisti” buoni e antigovernisti cattivi, o dementi, tipo l’Alessandro Di Battista scoperto e compensato come reporter dallo stesso Fatto Quotidiano.

            Nordio, che stimo moltissimo anche grazie agli insulti che gli riservano proprio sul Fatto ogni volta che hanno l’occasione di contestarne le opinioni, ha scritto di più e di peggio dello “stalinista” a proposito dei sei consiglieri superiori della magistratura che hanno processato Palamara e deciso la sua radiazione in due ore e mezza di camera di consiglio. Li ha paragonati alla Corte Marziale nazista convocata in tutta fretta nel 1944 dal generale Friedrich Fromm per far condannare e fucilare i due ufficiali autori del fallito attentato ad Hitler. Dei cui preparativi lo stesso Fromm era quanto meno al corrente, cioè complice. E ne pagò le conseguenze venendo poi fucilato pure lui, come a quel punto era giusto, e non solo naturale, che accadesse. 

            Certo, una prospettiva del genere per i sei consiglieri del Palazzo dei Marescialli – cinque più il presidente del collegio, o sezione- che hanno appena “denudato” Palamara, stando all’immagine di Giannelli, è giustamente, sacrosantamente irrealistica. Non muoio dalla voglia di vedere messo al muro nessuno per essere crivellato di colpi, o farlo salire su una botola per vederlo appeso a una forca, o ghilgliottinato come capitò a Robespierre, anche lui evocato da Nordio. Mi basterebbe e avanzerebbe, nonostante la poca fiducia che questo strumento si è meritato per l’uso fattone in precedenza, quella commissione parlamentare d’inchiesta reclamata anche dal partito radicale, compreso Palamara che vi si è appena iscritto e potrebbe fornirle notizie utili, sul verminaio giudiziario e politico che non è certamente cominciato con o solo per colpa dell’ormai ex magistrato, salvo sorprese delle sezioni unite della Corte di Cassazione. Che si occuperanno comunque della radiazione.

 

 

 

 

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Di Maio scavalca Conte e strizza l’occhio al presidente di Confindustria

            Con la complicità -credo involontaria- del Sole 24 Ore, il giornale ancòra della Confindustria, Luigi Di Maio ha compiuto un altro salto nella scalata, o riscalata, che sta tentando al vertice politico del MoVimento 5 Stelle. O almeno di quella parte “governista” se non dovesse spegnersi la miccia della scissione accesa, volente o nolente, dalla coppia Davide Casaleggio-Alessandro Di Battista. Che si è formata, tra interviste e messaggi elettronici, contro la trasformazione poltronistica, diciamo così, dei grillini intenzionati a continuare ad ogni costo l’alleanza col Pd, estendendola a livello locale. E smaniosi di liberarsi dal limite statutario dei due mandati parlamentari, dopo i quali essi dovrebbero tornare a casa per lasciare il posto ad altri, in un continuo ricambio che sarebbe la garanzia contro il professionismo politico alimentato dai partiti tradizionali.

            Ospite, sia pure da remoto, come si conviene in tempi di epidemia virale, del convegno organizzato dal giornale della Confindustria e dall’ancor più autorevole Financial Times su “Made in Italy: The Restart”, il ministro degli Esteri ha auspicato un patto tra imprese e istituzioni per “camminare insieme” fronteggiando l’epidemia e costruendo il futuro della ripresa e dell’innovazione.

            Tutta roba banale e un po’ trumpista, dirà qualcuno ricordando la recente intervista nella quale il titolare della Farnesina ha tenuto a sottolineare, in piena campagna elettorale oltre Oceano, quanto lui si sia trovato bene con l’amministrazione uscente, sensibilissima agli interessi, cioè agli utili delle imprese. Ma Di Maio si è spinto ancora più avanti infilandosi nelle polemiche interne alla maggioranza di governo, oltre che al suo movimento, per riconoscere al nuovo presidente della Confindustria Carlo Bonomi ciò che gli contesta invece sotto voce il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e a voce altissima il giornale che più raccoglie e spesso addirittura anticipa gli umori di Palazzo Chigi: Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio.

             In particolare, come ha tenuto a sottolineare il giornale della Confindustria nel richiamo di prima pagina del suo intervento, Di Maio “ha spiegato che nel discorso del presidente di Confindustria durante l’assemblea” recente degli imprenditori, cui il ministro degli Esteri ha voluto essere presente insieme a Giuseppe Conte e ad altri esponenti del governo, “ha visto tutti gli ingredienti e la road map per evitare tensioni tra mondo produttivo e mondo istituzionale”. Eppure Bonomi aveva pizzicato, diciamo così, il presidente del Consiglio sulla tentazione, secondo lui, di gestire solitariamente, o quasi, la partita dei fondi europei per la ripresa, o la nuova generazione. Di cui sarebbe un peccato se si facesse uso più per fare assistenza, o “debito cattivo”, come lo chiama l’ex presidente della Banca Europea Mario Draghi, che per promuovere sviluppo e ammodernamento.

            A Di Maio, forse anche a causa di questa sortita in campo confindustriale, un esponente autorevole del Pd come Luigi Zanda ha riconosciuto, in una intervista al Foglio, che “sta lavorando per conquistare una maturità politica, mentre mi sembra -ha detto- che Di Battista vada veloce verso forme maggiori di infantilismo politico”. Tuttavia Zanda ha anche avvertito che, dopo avere “aspettato troppo per le modifiche dei decreti Salvini” su immigrazione e sicurezza, “ora il Pd sta aspettando troppo per Mes, Ilva, Autostrade, e per capire che cosa fanno i navigator” della mancata gestione produttiva, e non solo assistenziale, del cosiddetto reddito di cittadinanza.

 

 

 

 

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La staffetta liberale di massa con Berlusconi che sogna Salvini

In verità, non lo ha mai chiamato per nome in un’intervista appena concessa al Corriere della Sera, ma penso che Matteo Salvini abbia in testa anche lui per il futuro del suo movimento quel “partito liberale di massa” immaginato da Silvio Berlusconi per la sua Forza Italia, ed esplicitato per primo dal professore Giuliano Urbani. Dal quale il Cavaliere di Arcore si lasciò consigliare con altri professori come Antonio Martino e Carlo Scognamiglio Pasini, cui altri poi si sarebbero aggiunti, da Marcello Pera a Lucio Colletti, da Saverio Vertone a Piero Melograni, preparando la sua “discesa in campo” politico, mentre la cosiddetta prima Repubblica tirava le cuoia nelle astanterie giudiziarie.

Richiesto se l’ex presidente del Senato Marcello Pera, da tempo staccatosi da Forza Italia, sia pure con quel misto di garbo e franchezza che lo distingue, sia già diventato suo “consigliere”, il leader leghista ha risposto: “L’ho incontrato più volte insieme ad altre teste pensanti. Abbiamo bisogno di cervelli per ragionare sul futuro, come fece a suo tempo Berlusconi. Le idee di Pera sono stimolanti”.

Una delle idee di Pera -lo posso testimoniare per averne raccolto qualche volta gli sfoghi- è che Berlusconi abbia mancato l’obiettivo della “rivoluzione liberale” che si era proposto. E che Salvini, nonostante le delusioni procurategli dall’ultimo turno delle elezioni regionali e soprattutto comunali, non solo al Sud ma anche nella “sua” Lombardia, o proprio a causa di queste delusioni, sembra deciso a proporsi. Il Corriere glielo ha messo in bocca con tanto di virgolette giuste nei titoli dell’intervista seguita ad una “bella chiacchierata” avuta nel suo ufficio al Senato con l’ex sottosegretario alla Presidenza e attuale responsabile dell’ufficio esteri del partito Giancarlo Giorgetti. Di questo incontro è stato riferito da molti giornali con diverse interpretazioni, fra il chiarimento, la tregua e una persistente divergenza di vedute anche o soprattutto sui rapporti della Lega con gli altri partiti europei.

“Condivido -ha detto testualmente Salvini- l’idea della necessità di una rivoluzione liberale. Abbiamo bisogno di liberare energie, di sfruttare le potenzialità degli italiani. Sto lavorando anche con Forza Italia”, dove tuttavia molti più che amarlo lo temono. E non gli perdonano di avere elettoralmente sorpassato il partito del Cavaliere strappandogli la “trazione” del centrodestra. Essi non riescono neppure a consolarsi per la concorrenza che, sempre all’interno della coalizione gli sta facendo Giorgia Meloni con i suoi Fratelli d’Italia.  Nemmeno la Meloni gode di molta popolarità fra i berlusconiani, che non più tardi di quattro anni fa nelle elezioni comunali di Roma ne contrastarono la candidatura a sindaco, preferendole Alfio Marchini eliminato al primo turno. Nel ballottaggio, per ritorsione sospettando che Berlusconi sotto sotto sperasse nel successo del radicale e piddino Roberto Giachetti, meloniani e un po’ anche leghisti votarono per la grillina Virginia Raggi, aiutandola a conquistare il Campidoglio. Sembra fantascienza, è invece cronaca un po’ stagionata.

Ma torniamo a Salvini e alla staffetta della rivoluzione liberale ch’egli vorrebbe un po’ raccogliere e un po’ strappare al politicamente esangue Berlusconi, riconoscendogli il merito di averla comunque progettata prima di lui. A completamento dell’impressione che in fondo alle riflessioni di Salvini ci sia quel partito liberale di massa anch’esso mancato a Forza Italia c’è il proposito da lui dichiarato, come “punto di partenza” del suo aggiornamento politico, di “allargare i confini del nostro perimetro coinvolgendo imprenditori e professionisti”, come  “il capitano” ritiene di essere riuscito a fare nelle Marche diventando il primo partito e strappando la regione al Pd, ma con un candidato dei Fratelli d’Italia -va ricordato- alla presidenza.

Bel progetto, bel proposito quello di un partito liberale di massa, non c’è che dire. Nella storia della Repubblica, lasciando quindi perdere i lontanissimi e irripetibili tempi di Giovanni Giolitti, non riuscì neppure a sfiorare le masse quel mastino di Giovanni Malagodi. Che al massimo, cavalcando la paura della destra liberale per la scelta democristiana del centro-sinistra sotto la guida di Aldo Moro, riuscì nelle elezioni politiche del 1963 a portare il Pli dal 3,82 per cento conquistato nel 1948 da Luigi Einaudi, prima di diventare presidente della Repubblica, al 6,97 per cento alla Camera e 7,52 al Senato.

Cinque anni dopo, nel 1968, con Moro che aveva saputo abituare gli italiani al centro-sinistra, o rasserenarli, il Pli malagodiano scese al 5,82 per cento e nel 1972 al 3,89, come nel 1948. Qualche anno dopo, quando Indro Montanelli invitò a votare Dc “turandosi il naso”, pur di  non farla sorpassare dal Pci di Enrico Berlinguer, i liberali arrivarono a percentuali da prefisso telefonico, o quasi.

Curiosamemente più è cresciuta la sensazione di essere liberali, per la forza evidentemente del seme liberale, appunto, più si è spento il partito che ne portava il nome. E’ un po’ quello che è accaduto ai socialisti a sinistra, dove tutti si sentono e si dichiarano socialisti, appunto, ma ricorrono ad ogni nome fuorché al socialismo per chiamare i partiti succedutisi alla caduta del comunismo, che ne fu il tradimento e la disgrazia.

I vedovi politici, diciamo così, del liberalismo e del socialismo possono consolarsi vedendo, anzi ammirando l’abbondanza che si fa sul piano culturale del liberalsocialismo predicato nel secolo scorso da Carlo Rosselli, fatto ammazzare dai fascisti in Francia nel 1937.

Vorrei tuttavia passare dal piano culturale e politico a quello più pratico per osservare, a proposito della strada scelta o indicata da Salvini per cercare di trasformare la sua Lega in un partito liberale di massa con l’aiuto dei professori, che i politici di solito su questo terreno toppano rovinosamente. E finiscono per far diventare la creatura che immaginano, o cui contano di approdare,  quell’araba fenice di Metastasio: “che ci sia, ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Lo si può dire anche del fantomatico partito di centro, attorno al quale sono in tanti a lavorare e giocare in ogni stagione politica, soprattutto quando non hanno i numeri elettorali e parlamentari per essere  davvero e stabilmente al centro, e non solo di centro.

Purtroppo politici riescono difficilmente a stare al passo con i professori. A volte persino il professore che diventa o fa il politico – e  ce ne sono stati di importantissimi, già prima di Giuseppe Conte-  finisce per dissociarsi, rinunciando o all’una o all’altra delle sue vocazioni. Pure il politico più disponibile, pronto -come ha più volte detto, per esempio, Berlusconi- a farsi convesso o concavo secondo le circostanze e le opportunità, abbandona o è abbandonato dal professore adottato come ispiratore.

Temo che il professore Pera sia destinato a rimanere deluso da Salvini non meno di quanto lo sia stato da Berlusconi. E propendo personalmente a dare in questi tipi di delusione o sconfitta più colpa al politico che al professore.

So di certo – l’interessato può smentirlo, se vuole o lo ritiene opportuno- che il buon Giuliano Urbani con la sua idea del partito liberale di massa, dell’associazione del buon governo ed altro ancora, fu indirizzato a Berlusconi negli anni Novanta da Gianni Agnelli. Che rimase affascinato dalle sue idee ma non aveva alcuna intenzione di cambiare mestiere e di scendere o salire in politica, forse contento di condizionarla standone a distanza.

Per quanto portato anche al governo dal Cavaliere, il professore Urbani alla fine ha buttato la spugna. Non migliore è stata la convivenza politica di altri professori con Berlusconi, come i già citati ma compianti Colletti, Vertone e Melograni: tutti, in verità, staccatisi senza fare scenate.

Ho particolare ammirazione personale e culturale per il professore Antonio Martino, un liberale a 24 carati come il padre Gaetano. Oltre che co-fondatore di Forza Italia, egli è stato ministro degli Esteri e della Difesa nei governi di Berlusconi, ma pure lui, senza mai profferire critiche e tanto meno attacchi, è andato via via appartandosi, sino a rinunciare volontariamente ad una rielezione alla Camera, non so se più pago o stanco dei 24 anni di deputato, dal 1994 al 2018. Una volta, con la confidenza e la franchezza che solo lui poteva permettersi, scrisse un biglietto al Cavaliere per lamentarsi del fatto ch’egli frequentasse “donne con molto seno e poco senno”.

Eh, i professori sono spesso molto più esigenti e tosti di quanto non pensino i politici che se ne lasciano affiancare, o li cercano. Ricordo ancora le delusioni procurate dall’Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini al professore Domenico Fisichella, che pure gli aveva dato una mano -e che mano- nella evoluzione della destra missina: importante sul piano culturale quanto il cosiddetto e conseguente sdoganamento politico effettuato da Berlusconi.

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da www.startmag.it l’11-10-2020

Lo “scandalo” sgonfiato della Camera assenteista, vigliacca e quant’altro…

            Due parole, quasi due, sullo “scandalo” della Camera assenteista, codarda e quant’altro  denunciato con particolare spreco di invettive e insulti su Libero da Vittorio Feltri dopo le due votazioni a vuoto, per mancanza del cosiddetto numero legale, sulla proroga dello stato di emergenza virale sino al 31 gennaio. Che era stata preannunciata e motivata a nome del governo dal ministro della Salute Roberto Speranza.

            La terza votazione, svoltasi ieri mattina, si è risolta con 253 sì, 3 no e 17 astensioni, nuovamente assenti le opposizioni per protesta. A numeri sostanzialmente invariati rispetto alle precedenti, e disertata per protesta dalle opposizioni come nelle precedenti, la votazione è stata considerata valida perché, grazie ad un parere appositamente espresso dalla giunta del regolamento, sono stati considerati in missione, comunque giustificati, gli assenti della maggioranza per ragioni sanitarie, essendo in quarantena per contagio o relativi accertamenti. Tutto insomma si è risolto nella classica bolla di sapone. Di cui Libero non ha ritenuto di riferire in prima pagina ai lettori neppure con un rigo, dopo la indignata denuncia, sempre in prima pagina, del giorno prima. E’ come aprire il giornale con l’arresto di qualcuno e ignorarne poi la scarcerazione o l’assoluzione.

            Non scrivo altro per carità professionale, a dir poco. Lasciatemi comunque deplorare l’antiparlamentarismo, politico come quello grillino o d’accatto che sia.

Piccoli Trump crescono anche sotto le stelle senza strisce

            Col permesso della buonanima addirittura di Virgilio- che nelle Georgiche paragonava il lavorìo delle api e dei Ciclopi, “si parva licet componere magnis”- lasciatemi abbinare il Luigi Di Maio rinfrancato in Italia dall’esito dei ballottaggi comunali, a cominciare dalla  sua Pomigliano d’Arco con l’elezione del proprio candidato a sindaco appoggiato dal Pd locale, al presidente americano Donald Trump. Che, a leggere il buon Federico Rampini su Repubblica, si sente “rinato” nella campagna elettorale per la Casa Bianca dal contagio virale subìto e al tempo stesso sfidato. In verità, i sondaggi danno ancora in testa lo sfidante democratico Joe Biden. Ma i sondaggi, si sa, fanno a Trump i baffi che non ha.

            Una certa sintonia, sotto sotto, tra il “piccolo” pentastellato Di Maio e il “grande” a stelle e strisce  Trump, per dimensioni fisiche proprie e dei Paesi di appartenenza, è sfuggita al nostro stesso ministro degli Esteri nel passaggio conclusivo di una sua recente intervista alla Stampa inneggiante al presunto successo nel ballottaggi municipali di domenica e lunedì scorsi, secondo lui compensativi del fiasco grillino, l’ennesimo, nelle elezioni regionali del 20 e 21 settembre.

            Ministro, Trump o Biden?, gli ha chiesto l’intervistatore. E lui: “Gli Stati Uniti innanzitutto. Poi per esperienza personale posso dirle che con l’amministrazione Trump si lavora molto bene e con Mike Pompeo”, il Segretario di Stato americano venuto recentemente a Roma e accolto anche alla Farnesina, “si è instaurato un legame di amicizia”.

            Pensate un po’ come sarebbe uscito meglio dalla risposta in veste di pur sempre ministro degli Esteri della Repubblica d’Italia se Di Maio si fosse fermato agli iniziali “Stati Uniti innanzitutto”, risparmiandosi il resto. Che espone non solo lui personalmente ma l’intero governo di cui fa parte al rischio di dovere o potere avere a che fare fra qualche mese con l’ex vice presidente di Obama alla Casa Bianca. Ma così vanno le cose anche nella nostra diplomazia sotto le…cinque stelle italiane, immagino con quali riflessioni e grattamenti di viso e di capelli di Sergio Mattarella al Quirinale. Ormai Di Maio contende a Conte, pur mandato e poi inchiodato a Palazzo Chigi dal suo movimento, anche la cordialità e i sottintesi di quel “Giuseppi” lanciato l’anno scorso come un salvagente dalla Casa Bianca al presidente del Consiglio italiano che rischiava di essere travolto dalla crisi di governo aperta da Matteo Salvini.

            Non so se Di Maio sia astemio o no, pur se in qualche foto l’ho visto con amici a tavola tra bicchieri e bottiglie anche di vino. Ma temo che un po’ di ebbrezza gliel’abbiano procurata i ballottaggi di cui si è inorgoglito  se a “quella manciata di piccoli Comuni” impietosamente ricordatagli dall’intervistatore egli ha risposto: “Mi basta che in tutti i Comuni dove ci siamo presentati in coalizione abbiamo vinto: da Pomigliano d’Arco a Matera, passando per Giugliano e Caivano”, dove -si è vantato- “sono andato a sostenere i nostri candidati perché sono persone in carne ed ossa, pulite, con la schiena dritta, con dei valori, a dimostrazione del fatto che il movimento 5 Stelle non rinuncia affatto ai suoi”.

          Peccato, per il nostro ministro degli Esteri alle prese con l’atlante italiano fra la Basilicata e la Campania, che quei Comuni conquistati dai suoi uomini “in carne e ossa”, non fantasmi, abbiano una popolazione complessiva di soli 261 mila abitanti su più di 60 milioni di italiani.  

 

 

 

 

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Quell’intimazione di sfratto a mezzo stampa alla seconda carica dello Stato

            Oddio, che ha combinato la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, oltre ad avere quel nome troppo lungo per certi gusti e ad avere indetto una gara d’appalto “da casta” sulla distribuzione della posta del Senato con “pony express in giacca e cravatta”, per guadagnarsi un’intimazione di sfratto addirittura dal mio amico Antonio Padellaro? Che nella redazione del giornale da lui stesso fondato può ben ritenersi un mite rispetto agli altri.

            La signora in una intervista al Corriere della Sera ha soltanto osato, e non per la prima volta, dolersi delle condizioni costrittive, diciamo così, in cui si trova il Parlamento per i tantissimi decreti legge e decreti presidenziali del governo e per lo stato di incertezza e di confusione che grava sul Paese. Che è così stato tanto avvertito nella stessa maggioranza governativa che si sprecano inviti e proposte di “nuova fase”, “verifica”, “rimpasto”, “tavolo” negoziale, “contratto” e via discorrendo. E ciò per non parlare della crisi del maggiore movimento della coalizione governativa, sull’orlo di una scissione da possibili percorsi giudiziari, addirittura. O per non parlare, ancora, dei moniti alla concretezza e pacificazione che si levano continuamente dal Quirinale. Dove Padellaro teme che una come la Casellati possa arrivare un giorno o solo recarvisi come supplente in caso di impedimento momentaneo del presidente della Repubblica.               

              Via, Antonio, calmati.

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Se a soffiare l’antiparlamentarismo sono anche gli anti-grillini

            Vittorio Feltri ha confermato su Libero, di cui è direttore editoriale lasciando al direttore responsabile la scomodità delle querele e accessori, ha dimostrato che un moderato -se lo si può considerare tale sia nella versione originale sia nella imitazione che ne fa Maurizio Crozza- quando s’infuria riesce a fare e a farsi più danni di un pazzo, nel senso iperbolico della parola.

            Di fronte alla mancanza del cosiddetto numero legale verificatosi per due volte consecutive alla Camera, votando su un documento proposto dalla maggioranza giallorossa e propedeutico alla nuova proroga dello stato di emergenza virale in arrivo dal governo col solito decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, il giornalista principe di una testata libera naturalmente anche di sbagliare ha liquidato all’ingrosso i circa 100 assenti, di cui una quarantina giustificati tra missioni e preavvisi motivati, come “codardi indegni”, “disertori”, “incapaci di essere all’altezza del ruolo ricoperto” ed altro ancora. E li ha contrapposti ai medici, infermieri e altri dipendenti ospedalieri che, anche a costo di morire, come purtroppo è accaduto davvero, hanno fatto il loro mestiere in questi tempi pericolosi di epidemia virale. Che si è affacciata pure in Parlamento, nonostante le misure cautelative adottate e la destinazione, per esempio, dello storico “transatlantico” di Montecitorio ad appendice dell’aula, per cui giornalisti e deputati interessati a interloquire, diciamo così, debbono distribuirsi fra i corridoi del palazzo e il cortile, solitamente associato per immagine agli animali domestici.

            Non è minimamente saltata in mente ad un giornalista pur dell’esperienza di Vittorio Feltri che a motivare le assenze, quanto meno quelle ingiustificate, possano essere state legittime, ordinarissime, conosciutissime e antichissime ragioni politiche, per dissenso o protesta contro la gestione dei lavori d’aula, troppo spesso condizionata dalle pressioni, dagli errori, dalle imprudenze del governo. Che in questa occasione, per esempio, avrebbe dovuto risparmiarsi la fretta che mi risulta essere stata “suggerita” a ripetere dopo un’ora, nell’applicazione letterale del regolamento, la votazione fallita in condizioni difficilmente rimediabili in poco tempo, anche se nella seconda votazione -va detto pure questo- sono mancati solo otto deputati per garantire le presenze necessarie alla legittimità del risultato. Tanto strumentali possono essere state le assenze quanto strumentali gli applausi delle opposizioni all’accaduto.

            E’ curioso, maledettamente curioso che proprio mentre matura la crisi del movimento più demagogico e anti-parlamentarista del mercato politico, il cui fondatore, garante e quant’altro ha appena rilanciato l’idea di sorteggiare e non più eleggere deputati e senatori, peraltro già ridotti da 945 a 600 dalla prossima legislatura in poi; proprio nel momento, dicevo, in cui questo quasi partito perde carrettate di voti e rischia la scissione per scongiurare la quale anticipa al prossimo mese l’apertura a Roma del complesso percorso congressuale dei cosiddetti Stati Generali, e “fisici”, come ha precisato il “reggente” Vito Crimi, comunque destinati a sfociare nella solita soluzione digitale gestita dalla sempre più controversa “piattaforma” privata di Davide Casaleggio, venga rilanciato l’anti-parlamentarismo da un dichiarato avversario o comunque contestatore del grillismo.

            Almeno a messa si dice ad un certo punto “mistero della fede”. Qui non so proprio di che mistero si tratti.

 

 

 

 

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Assalto alla Casellati per avere osato criticare Sua Maestà il governo Conte

            “Ora deve andarsene”, ha scritto e titolato sul Fatto Quotidiano il fondatore Antonio Padellaro della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, indicata ironicamente anche con l’acronimo MEAC, per avere rilasciato al Corriere della Sera un’intervista molto preoccupata sulla situazione del Paese e sulle insufficienze, quanto meno, di un governo che alimenta la confusione e l’incertezza anziché ridurle in una crisi, anzi in un’emergenza che è insieme sanitaria, sociale, economica e politica.

             “Non vi sono precedenti nella storia dei rapporti fra le istituzioni e la politica”, ha scritto ancora Padellaro sorvolando sui presidenti delle Camere ormai abitualmente partecipi del dibattito e della lotta politica, come il Gianfranco Fini che dal vertice di Montecitorio cercò nel 2010 di rovesciare il governo in carica di Silvio Berlusconi, e dimenticando il clamoroso Cesare Merzagora del 1960. Che dalla presidenza del Senato, alla quale fu confermato dopo le dimissioni seguite alle polemiche che aveva suscitato, insorse contro il disordine persino sanguinoso provocato dal governo di Fernando Tambroni sostenuto dall’estrema destra.

            Pur senza spingersi sino alle dimissioni reclamate dal giornale più vicino, diciamo cosi, al partito o movimento di maggioranza relativa e al presidente del Consiglio, il capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci ha accusato la presidente dell’assembla di avere “abbandonato il suo ruolo di garanzia”. Ma già nei mesi scorsi l’aveva attaccata per avere ostacolato la tattica dilatoria della maggioranza di governo nella procedura di autorizzazione a precedere per sequestro di immigrati  sulla nave Gregoretti contro l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Che peraltro è difeso in questa paradossale vicenda giudiziaria dalla pubblica accusa. “Fuori luogo”, si è limitato a dire contro la presidente Casellati il capogruppo dei senatori pentastellati Gianluca Perilli, forse consapevole che fra i suoi colleghi ce ne sono non pochi tanto insoddisfatti del governo Conte da morire dalla voglia di votargli contro.

            Visto che c’erano, al Fatto Quotidiano hanno contestato alla Casellati, diventata ironicamente “Sua Presidenza”, anche il mezzo scandalo da “Casta” di una gara d’appalto indetta per il servizio di distribuzione della posta del Senato con tanto di pony express, pensate un po’,”in giacca e cravatta”. Ah, benedetta signora Presidente.

            Chissà se potrà bastare alla povera Casellati farsi perdonare la franchezza usata nel parlare del governo -e dello stato un po’ sofferente, diciamo così, in cu esso ha ridotto il Parlamento con la frequenza dei suoi decreti legge e decreti presidenziali-  una partecipazione alle feste in corso di Luigi Di Maio e amici, a cominciare da quelli del Fatto, per la strepitosa vittoria -a sentirli- conseguita nei ballottaggi comunali appena conclusi. Che hanno consentito al candidato grillino, con l’appoggio del Pd, di diventare sindaco di Matera, dove Marco Travaglio ha subito proposto di fare svolgere gli Stati Generali, cioè congressuali, delle 5 Stelle, se non saranno preceduti da una scissione. Ma la gemma dei ballottaggi è l’elezione, sempre con l’appoggio del Pd, del grillino Gianluca Del Mastro, insegnante universitario di papirologia, a sindaco di Pomigliano d’Arco, 39 mila e rotti abitanti, alle porte di Napoli, paese di adozione di Luigi Di Maio, nato nella non troppo lontana Avellino. Il governo Conte 2 può tirare un sospiro di sollievo, togliendosi magari la mascherina.

Al tavolo di Matteo Renzi, l’eterno boy scout della politica italiana

Da eterno boy scoutcome John Elkann, presente il compianto Sergio Marchionne, lo definì  parlandone con un giornalista importante che aveva in animo di assumere fra Torino e Detroit-  Matteo Renzi ha allestito nel campeggio della maggioranza giallorossa un tavolo a quattro gambe. Non gliene ha tolta nessuna, diversamente da Goffredo Bettini. Che qualche tempo fa ridusse a tre le gambe del tavolo del governo, parlandone al Foglio, forse perché dava ormai per scontato l’assorbimento da parte del suo Pd dei liberi e uguali, o almeno di quelli che vi erano arrivati abbandonando il Nazareno nel 2017.

Pur con l’aria soltanto di proporlo, in una intervista a Repubblica uscita domenica, Renzi ha posto sul tavolo i temi di quella che, tirato per i capelli dalla interlocutrice, ha ammesso di poter chiamare “verifica”, alla vecchia maniera. E anche di poterla vedere sfociare in quello che, sempre alla vecchia maniera, potrebbe essere chiamato “rimpasto” di governo, per quanto la parola faccia inorridire, o piùsemplicemente impaurisca, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che ancora attribuisce un simile passaggio  all’”agenda” dei giornalisti, non sua, già troppo fitta di appuntamenti ed eventi.

Definiti i punti del programma oscuri, o accantonati o superati dagli avvenimenti, o dai contrasti successivi all’accordo un po’ troppo improvvisato l’anno scorso, nell’”emergenza” derivata dalla paura che Matteo Salvini vincesse le elezioni anticipate reclamate provocando la crisi del governo gialloverde, la nuova intesa di maggioranza potrebbe tradursi secondo Renzi anche in un “contratto”, come era stato definito nel 2018 quello stipulato fra grillini e leghisti. Potrebbero risultare utili, a questo proposto, le segnalazioni delle urgenze appena giunte da un’intervista allarmata, di vera e propria denuncia dei rischi di paralisi e confusione anche istituzionale in cui viviamo, della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati al Corriere della Sera.

Sarebbe un contratto di fine legislatura, destinato cioè a portare davvero a termine regolarmente, e in un clima finalmente pacificato nella maggioranza, il mandato delle Camere elette più di due anni e mezzo fa. E dovrebbe naturalmente includere anche un accordo, per quanto di massima, forse per un pò di riguardo verso il presidente della Repubblica in carica, sull’elezione del nuovo capo dello Stato nel 2022: un europeista, naturalmente, di sicura fede.

Messa così la questione quirinalizia, par di capire che Renzi non creda molto all’”auspicio” recentemente espresso da Conte di una rielezione di Mattarella, magari silenziosamente, implicitamente a termine, con riserva di rinuncia dopo l’elezione delle nuove Camere nel 2023, per lasciare scegliere a loro, ridotte di 345 seggi, il presidente destinato a durare sino al 2030.

Per dare al contratto,  o in qualsiasi altro modo si vorrà chiamarlo, una solidità maggiore Renzi ha proposto di fare entrare nel governo a rappresentare il Pd il segretario Nicola Zingaretti o il suo vice Andrea Orlando, lasciando a Dario Franceschini, attuale capo della delegazione, solo il Ministero dei Beni Culturali e del Turismo, o assegnandogliene uno più importante: tuttavia non il Viminale, che sarebbe appannaggio quasi naturale dell’ancora riluttante Zingaretti, se questi accettasse di entrare nel Consiglio dei Ministri, anziché farsene raccontare le riunioni da altri. A meno che Renzi, magari in un corso accelerato di storia della cosiddetta prima Repubblica, non abbia riscoperto il fascino della vecchia, e sostanzialmente inevasa, proposta di Ugo La Malfa di rafforzare i governi di seconda generazione del centrosinistra, dopo quelli presieduti da Aldo Moro, istituendo un “direttorio” di ministri senza portafoglio nelle persone dei segretari dei partiti della coalizione.

Mi sembra tuttavia difficile praticare una soluzione del genere nel marasma esistente fra i grillini, che costituiscono pur sempre il maggiore partito del governo giallorosso e sono addirittura sull’orlo della scissione, dopo che Alessandro Di Battista, appoggiato ormai da Davide Casaleggio, si è proposto alla guida del movimento per rivitalizzarlo e sottrarlo alla “morte nera” della collaborazione col Pd.

Evidentemente Renzi esorcizza la crisi del MoVimento 5 Stelle minimizzandola, e comunque scommettendo personalmente sul pur ex capo e ora “soltanto” ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Che lui considera il parigrado del segretario del Pd nella coalizione essendosi intestata la vittoria del sì referendario alle Camere sforbiciate dai grillini, così come a Zingaretti, nonostante le proteste del solitario e solito guastafeste Massimo Cacciari, è stata attribuita la vittoria nelle elezioni regionali del 20 e 21 settembre avendo perduto solo le Marche, e non pure le Puglie ma soprattutto la Toscana.

Renzi nella sua intervista a Repubblica, letta da Conte non so se con più sorpresa o timore, viste anche le ricorrenti voci di patti più o meno segreti fra lo stesso Renzi e Zingaretti sugli sviluppi di questa obiettivamente accidentata legislatura, ha liquidato da par suo -cioè con la solita baldanza, gonfiando il petto per l’ennesima volta nella stessa giornata- l’obbiezione della intervistatrice Annalisa Cuzzocrea  su una certa sproporzione che potrebbe apparire agli occhi del pubblico tra le ambizioni, l’attivismo e quant’altro del suo partito Italia Viva e i voti raccolti nelle prime elezioni nelle quali ha voluto o potuto misurarsi.

“Abbiamo preso -ha detto Renzi, incurante dei calcoli di Alessandra Ghisleri, fermatisi attorno al 3 per cento- il doppio di quello che davano i sondaggi: il 5% anziché il 2,5. Un buon inizio. Ma già dalle amministrative del 2021 vogliamo fare meglio dei 5 Stelle e diventare il secondo partito della coalizione”, dopo il Pd, bontà sua. Il solito boy scout, avrà commentato il nuovo editore di Repubblica, chissà se anche a proposito della ipotesi, ritenuta da Renzi soltanto poco attuale, di una sua nomina a segretario generale della Nato “nel novembre 2022”, con un presidente degli Stati Uniti diverso naturalmente da Donald Trump.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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