La politica si riscatta davanti alla morte improvvisa di Jole Santelli

            Per una volta, a sorpresa, dopo decenni di barbarie, di parole e gesti fuori senno, la politica è stata all’altezza dell’umanità che dovrebbe invece ispirarla e caratterizzarla sempre. La costernazione è stata davvero tanta, e di ogni parte politica, per la morte improvvisa, a 52 anni neppure compiuti, di Jole Santelli. Che meno di dieci mesi fa era stata eletta presidente della sua regione, la Calabria, vincendo la penultima battaglia della sua vita, breve ma intensa, e da anni segnata da una malattia che lei aveva saputo affrontare con la solita energia, e fiducia. Se n’è andata una politica e persona davvero perbene, leale e generosa.

            Di origini socialiste, sempre partecipe di tutte le occasioni e iniziative di ricordo e celebrazione di Giacomo Mancini, poco più che ventenne vide nella Forza Italia fondata da Silvio Berlusconi il rifugio politico ed elettorale migliore per gli orfani del partito del cuore travolto dalla tempesta giudiziaria e politica del 1992/93: il Psi. E rimase fedele a Berlusconi nella buona e nella cattiva sorte politica, negli anni del governo e in quelli di opposizione, nei successi e nelle sconfitte, nelle iniziative felici e negli errori, che non sono certamente mancati riducendo Forza Italia alle attuali dimensioni. Che non impedirono tuttavia a Jole Santelli il successo nelle elezioni regionali dello scorso mese di gennaio, in una regione -la sua- dove  il partito di Berlusconi riuscì direttamente o indirettamente, con liste collegate, ad avvicinarsi al 30 per cento dei voti.

            Più volte parlamentare e sottosegretaria nei governi dello stesso Berlusconi e di Enrico Letta, la Santelli conquistò nelle elezioni regionali calabresi a capo della coalizione di centrodestra quasi 450 mila voti, pari al 55,29 per cento, distanziando di 25 punti il più diretto concorrente: Filippo Callipo, del centrosinistra. 

Il governo Conte si è salvato al Senato per il rotto della cuffia

            Si può comprendere e persino condividere, viste le condizioni di emergenza virale in cui ci troviamo, col rischio del coprifuoco da importare dalla Francia e del confinamento natalizio, il sospiro di sollievo del governo e della maggioranza per la scampata sconfitta al Senato nella votazione sul cosiddetto scostamento di bilancio per via di ulteriori 22 miliardi di euro di deficit. Occorrevano almeno 161 voti, equivalenti alla maggioranza assoluta dell’assemblea, e il governo ne ha ottenuti 165: “addirittura” quattro in più. Giustamente il ministro (grillino) dei rapporti col Parlamento Federico d’Incà al banco del governo, al posto del presidente del Consiglio Giuseppe Conte impegnato a Capri, ha applaudito alla proclamazione del risultato.

            Poi Conte, tornato da Capri, e altri ministri hanno potuto serenamente partecipare all’ormai tradizionale incontro conviviale al Quirinale con un rinfrancato -pure lui- presidente della Repubblica in vista del Consiglio Europeo. Cui il presidente del Consiglio è in grado di partecipare senza l’inconveniente, diciamo così, di una sconfitta parlamentare dimostrativa della crisi latente in cui da tempo vive una maggioranza assai composita. Il cui principale partito o movimento, quello delle 5 Stelle, è diviso tra governisti e antigovernisti, sull’orlo di una scissione.

            Se è comprensibile e -ripeto- persino condivisibile il sollievo, non lo è per nulla il tono enfatico del presidente del Consiglio. Che da Capri e poi anche a Roma ha parlato persino di “ampio riscontro della tenuta della maggioranza”, pur nell’abituale, cronica ristrettezza dei numeri del Senato. Quell’”ampio” stona di fronte ai quattro voti in più ottenuti rispetto al minimo necessario. Dei quali due provenienti dai senatori a vita Mario Monti ed Elena Cattaneo. Che hanno per carità, tutti i diritti degli altri regolarmente eletti e non nominati dal presidente della Repubblica per avere “illustrato la Patria”, come dice l’articolo 59 della Costituzione. Ma di solito anche in altissimo loco, cioè al Quirinale, quando vengono formati i governi e se ne valuta la maggioranza autosufficiente non si tiene conto né dei senatori di diritto, in quanto ex capi dello Stato, com’è in questa legislatura Giorgio Napolitano, né dei senatori di nomina presidenziale.  Altri tre voti, mancando i quali il governo si sarebbe salvato solo per due, fermandosi a quota 162, sono arrivati da ex forzisti del gruppo misto che si considerano ancora all’opposizione, o quanto meno estranei alla maggioranza: Sandra Lonardo Mastella, Raffaele Fantetti e Gaetano Quagliariello.

            Quest’ultimo, già “presidente vicario” dei senatori di Forza Italia, come si legge su Wikipedia, ha tenuto a precisare, in una intervista al Dubbio, il carattere di “eccezione” del “nostro sì al governo”, accordato per supplire alle assenze di colleghi della maggioranza impediti dal virus. E per i quali bisognerebbe decidersi  a ricorrere al “voto a distanza”, cioè telematico, ha detto il senatore, peraltro costretto a votare ieri “in uno sgabuzzino” collegato al sistema elettronico per le condizioni in cui si lavora a Palazzo Madama,  rispettando le distanze imposte dal rischio di contagio.

            Sul merito dell’azione di governo Quagliariello ha denunciato l’assenza di “una strategia in questa contingenza” e “un ritardo pazzesco”, perché “il problema non è soltanto quello di fare la caccia al miliardo, ma avere progetti concreti e credibili”. Senza i quali -ha avvertito il senatore e professore- rischiamo di “perdere soldi o farli arrivare in ritardo” dall’Europa.

 

 

 

 

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Marcello Pera rilancia il progetto di una Lega liberale e scommette su Salvini

Temevo di avere forzato il pensiero non se più a Matteo Salvini o a Marcello Pera traducendo la settimana scorsa in “Partito liberale di massa” la “rivoluzione liberale” che il leader leghista, compiaciuto in una intervista al Corriere della Sera, aveva raccontato di essersi sentito indicare e raccomandare come obiettivo dal professore Marcello Pera: l’ex presidente del Senato tra i fondatori e/o ispiratori di Forza Italia, da tempo deluso dai risultati dell’azione politica di Silvio Berlusconi. Cui, pur continuando a stimarlo e volergli anche bene, e concedendogli tutte le attenuanti del caso, a capo di una coalizione composita e in un sistema istituzionale ingessato da decenni di abusi, ritardi e quant’altro, rimprovera di essersi fatto prendere anche lui la mano da pratiche non proprio o non interamente liberali.

Ho visto con piacere, leggendo una bella intervista strappata a Pera con un caffè da Antonio Polito, sempre per il Corriere della Sera, che non gli avevo forzato il pensiero per niente. La formula della “rivoluzione liberale” è considerata da lui, filosofo finissimo, “assai ambigua, un po’ leninista, come ambiguo era il pensiero di Gobetti”. “La mia formula -ha detto-  è partito liberale di massa”, al minuscolo, almeno come glielo ha attribuito l’intervistatore. E’ una formula uguale a “vent’anni fa”, quando “noi avevamo un’agenda per il governo dell’Italia” – ha detto Pera alludendo anche agli altri professori dei quali Berlusconi si circondò per “scendere in politica”. Così annunciò con linguaggio sportivo mentre i vecchi partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica venivano decimati dalle Procure e il principale dell’opposizione usciva solo con qualche ammaccatura dalla tempesta giudiziaria chiamata “Mani pulite”.

Fra quei professori, con Antonio Martino, Carlo Scognamiglio e poi Giorgio Rebuffa, Lucio Colletti e Piero Melograni, c’era anche Giuliano Urbani, il primo anzi a correre ad Arcore a dare consigli e spinte ad un Berlusconi tentato ma non ancora deciso a sposare la politica, trattenuto da familiari, amici e dipendenti che temevano contraccolpi sulle sue aziende, a cominciare da quelle televisive. E ciò per via dei suoi notissimi rapporti con la preda maggiormente inseguita dalle Procure e dai loro coristi: Bettino Craxi. Di cui addirittura si favoleggiava che si fosse fatto portare una fontana di Milano, strappata al panorama del Castello Sforzesco, nella sua villa di Hammamet, in Tunisia. Erano gli anni terribili in cui sfilavano cortei a Milano e altrove inneggianti ad Antonio Di Pietro e ad altri magistrati. Ai quali si chiedeva di realizzare “il sogno” di arrestare tanti politici da doverli portare in qualche stadio, non bastando le patrie galere.

Oltre ad essere il primo a correre ad Arcore, mandatovi -come vi ho già raccontato la settimana scorsa- da Gianni Agnelli, il professore Urbani fu anche il primo ad auspicare, almeno, che Forza Italia diventasse un “Partito liberale di massa”, con la maiuscola. E i numeri elettorali per un bel po’ sembrarono dargli anche ragione, se solo si pensa ai quasi dieci punti che il movimento del Cavaliere guadagnò nelle urne in pochi mesi nel 1994, passando dal 21 per cento dei voti nelle elezioni politiche italiane al 30,6 nelle elezioni, sempre italiane, per il rinnovo del Parlamento Europeo, tra marzo e giugno.

“Ho detto a Salvini -ha raccontato Pera a Polito- che quella eredità”, cioè l’agenda per il governo dell’Italia con un partito liberale di massa, sempre al minuscolo, “è lì e va ripresa. Tanto, le cose in Italia stanno sempre come allora”, nonostante alla cosiddetta prima Repubblica ne siano seguite altre due, almeno nell’immaginario collettivo, tra poche modifiche apportate alla Costituzione, giusto per aumentare i poteri della magistratura con la drastica riduzione delle immunità parlamentari, e con la bocciatura referendaria invece delle riforme organiche tentate sia dal centrodestra sia dal centrosinistra. Della seconda, intestata a Matteo Renzi, l’ex presidente del Senato è ancora contento di essere stato un sostenitore, per quanto sconfitto, dispiaciuto di non avere convinto Berlusconi a seguirlo neppure quella volta.

Invitato da Polito ad una realistica riflessione sulla capacità del “liberalismo di portare voti” in quantità tale da poter parlare di massa e non di nicchie, Pera ha onestamente risposto: “Purtroppo l’Italia ha un retaggio storico per cui tra assistenza/sicurezza e libertà tende a scegliere sempre la prima opzione”. Ma, a dire il vero, nel referendum del lontano 1985 sui tagli alla scala mobile dei salari fatti da Craxi in chiave anti-inflazionistica gli italiani si rivelarono in massa liberali.

“Il liberalismo -ha spiegato Pera come da una cattedra- vuol dire prendere rischi”, cioè correrne, “e da noi nessuno vuol prenderli, neanche gli imprenditori. Ma resta una profonda domanda insoddisfatta. Possiamo interpretarla. Penso che la Confindustria di Bonomi sia un’importante novità. Salvini dovrebbe diventarne l’interlocutore politico”, tra una visita e l’altra alle capitali europee appena annunciate in un tour di riassetto o ricollocazione, diciamo così, della Lega. E con i tempi di cui ha bisogno perché -ha spiegato ancora Pera a un Polito un po’ insofferente o scettico- non si può chiedere a Salvini una inversione a U in pochi mesi”, ridefinendo peraltro il cosiddetto sovranismo. Che -gli ha insegnato il professore- “non è autarchia o, peggio ancora, nazionalismo, non deve basarsi sul rifiuto di cedere sovranità all’Europa (anche la Costituzione lo prevede), ma deve accettare di cederla solo a istituzioni democratiche”, per cui “l’Europa di  oggi va cambiata”.

Essa appunto “sta cambiando”, ha appena detto Salvini agli eurodeputati leghisti che ha voluto incontrare a Roma prima di andare al Senato ad astenersi, con tutto il centrodestra, sulla risoluzione della maggioranza per l’uso dei fondi europei della ripresa. La Lega insomma si muove, salvo sorprese che deluderebbero Pera quanto e forse più ancora di Forza Italia, visto che il professore vi ha così tanto e clamorosamente “scommesso” dicendo a Polito che Salvini “sa ascoltare, è intelligente, consapevole del problema che ha davanti il centrodestra” per “costruire una nuova cultura di governo”.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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