Stimolato -lo confesso-anche dall’ironia con la quale ne ha parlato Marco Taradash nella rassegna “Stampa e regime” che gli capita di turno il sabato su Radio Radicale, sono andato a rileggermi l’editoriale che ha dedicato oggi sulla Stampa l’ex direttore Marcello Sorgi al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Le cui difficoltà di fronte alla ripresa della pandemia virale -già sufficiente da sola a sfiancare anche il più collaudato professionista della politica, e tanto più quindi un capo “anomalo” di governo come lui, che lo stesso presidente del Consiglio Mattarella confessò pubblicamente più di due anni fa di avere nominato con qualche apprensione per la sua inesperienza- sarebbero aumentate per “l’invidia” procurata ai suoi stessi alleati dalla popolarità guadagnatasi nella prima ondata della pandemia.
Eppure, se fosse solo o principalmente un problema di invidia, e quindi di ritorsione o di paura che cresca troppo, sino a fare il bingo del Quirinale -chessò- alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, i perfidi alleati o concorrenti di Conte dovrebbero allentare l’assedio che gli stanno praticando con sollecitazioni a fare di più e richieste di verifiche, perché il presidente del Consiglio ha cominciato a perdere punti nei sondaggi. A meno che, proprio per questo, i falsi amici non vogliano dargli il colpo di grazia, diciamo così, incuranti della convinzione di Sorgi che il professore prestato alla politica dai grillini, e subìto l’anno scorso dal Pd come nel 2018 dalla Lega di Matteo Salvini, sia addirittura “l’unica via di salvezza” di cui disponga oggi l’Italia.
Va bene che il mio amico Marcello Sorgi è figlio di un compianto avvocato celebre e validissimo di Palermo, e ne ha probabilmente ereditato la passione, e non solo l’astuzia professionale, nell’arte della difesa, ma temo che questa volta si sia fatta prendere un po’ troppo la mano, pur riconoscendo ogni tanto anche gli “errori” commessi da Conte e i suoi tentativi di rimediarvi.
Ma soprattutto temo che Marcello, lanciando un po’ il cuore oltre l’ostacolo di fronte alla fretta che mettono a Conte il segretario del Pd Nicola Zingaretti e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, convinto forse di essere il migliore o il più furbo dei grillini sempre più divisi, anzi lacerati, abbia finito per consigliare al presidente del Consiglio la vecchia e tanto bistrattata filosofia andreottiana del meglio “tirare a campare che tirare le cuoia”.
Da una parte l’ex direttore della Stampa ha invitato gli impazienti a lasciare lavorare in pace il povero capo del governo, fotografato qualche volta in una posa diciamo così del “mazzo” che si fa ogni giorno, o che vorrebbe fare agli altri, come potrebbero sospettare gli avversari, e dall’altra ha esortato Conte a non “darsi pensiero di chiarimenti politici, pur necessari, ma dagli esiti imprevedibili, dei quali non è affatto questa l’occasione”. Bertoldo, si sa, non riusciva mai a trovare l’albero al quale si era dichiarato disposto a farsi volontariamente appendere da chi gli voleva fare la pelle.