L’assemblea annuale della Confindustria, svoltasi quest’anno in ritardo per via del Covid, ha offerto davanti e dietro le quinte un siparietto significativo dei curiosi tempi politici in cui viviamo, a posizioni assai variabili.
Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria, appunto, ha pizzicato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in prima fila tra gli invitati con le distanze dovute, per un’affermazione sfuggitagli di recente a proposito dell’utilizzo dei fondi europei della ripresa. “Se sbaglio, mandatemi a casa”, aveva detto il professore tradendo la volontà, il proposito, il tentativo -chiamatelo come volete- di fare non dico tutto da solo, ma quasi, in compagnia di un pugno di ministri e più o meno esperti di sua fiducia. D’altronde, è proprio la possibilità di gestire quei duecento e rotti miliardi di euro messi a disposizione dell’Italia dall’Unione Europea, fra crediti e finanziamenti a fondo perduto, l’argomento sbandierato anche pubblicamente, tra sfida e monito, tra strizzatine d’occhio e minacce, dai sostenitori degli attuali equilibri politici, chiamiamoli così, contro chi lavora, o mostra di lavorare per una crisi, fuori ma anche dentro la maggioranza.
Bonomi ha avvertito Conte che a rischiare nell’uso dei fondi europei non è solo lui o il suo governo, ma l’intero
Paese, col sottinteso invito pertanto a non fare tutto da solo -o quasi, ripeto- ma a coinvolgere il più possibile le categorie produttive, le regioni, i sindacati -perché no?- e l’opposizione parlamentare. Alla quale nel Senato, peraltro, manca davvero poco per diventare maggioranza, se già non lo è considerando i tormenti fra i grillini, o le alterne impazienze dei renziani.
Nel discorso pronunciato quando gli è toccato il turno il presidente del Consiglio ha mostrato di avere raccolto il segnale, se non lo vogliamo chiamare richiamo, Ed ha parlato al plurale dicendo con la solita enfasi, come quel “Vincere” di mussolinana memoria visto da ragazzo sugli edifici scampati ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, che “siamo obbligati a vincere” appunto “la sfida della ripresa”. Nel plurale si poteva scorgere con un pò di buona volontà un certo ravvedimento, o disponibilità a collaborare con gli altri.
Pressato all’uscita dai soliti, fastidiosi giornalisti in cerca di parole su cui lavorare, Conte ha mostrato di non gradire l’immagine di uno che ha dovuto un po’ subire la pressione di Bonomi e ha parlato di “un confronto positivo, diciamo” appena avvenuto davanti alla platea degli imprenditori. Ma poi, cedendo alla tentazione di rovesciare la realtà, ha sussurrato all’orecchio di qualcuno, come sembra avesse fatto con Bonomi in persona nel commiato, di avere praticamente già parlato al plurale nell’occasione contestagli dal presidente della Confindustria. In particolare, egli avrebbe già allora adombrato “il fallimento del Paese”, e non solo suo o del suo governo, in caso di mancato o cattivo uso delle risorse europee per la ripresa. Ma, francamente, le frasi testuali di Conte, prima e durante l’assemblea di Confindustria, dicono il contrario.
Il presidente del Consiglio, comunque, ancora una volta ha fatto testo, anche con le cose sussurrate all’orecchio, nella
redazione dell’adorante Fatto Quotidiano. Dove in un richiamino di prima pagina è stato così riassunto il siparietto dell’assemblea confindustriale e dintorni: “Bonomi abbassa le penne e cerca la pace con Conte”, chissà se ottenendola o no.
dopo le elezioni del 2018, per prepararsi in un altro agriturismo alla legislatura rivelatasi così generosa di seggi per loro, e le auto di questo autunno eufemisticamente chiamate “di servizio” da qualcuno abituato invece a scambiarle, sino a quando ad usarle erano altri, per privilegi dipinti di blu: un colore rimosso dai dignitari pentastellati facendo acquistare dalle loro amministrazioni macchine rigorosamente e anonimamente grigie.
la sinistra più o meno raccolta sotto l’Ulivo di Romano Prodi soleva incontrarsi per difendersi da quell’intruso che era considerato Silvio Berlusconi. Che nel 1994 aveva guastato la festa annunciata da Achille Occhetto alla testa della “gioiosa macchina da guerra” per chiudere coerentemente con le premesse e le attese delle Botteghe Oscure la stagione giudiziaria di “Mani pulite”.
“la politica deve continuare ad essere fatta dai partiti, non attraverso movimenti tardosessantotteschi”. Non immaginava, poveretto, quanto avrebbe anticipato i tempi della paura, a dir poco, avvertita in questi tempi per il protagonismo, il peso politico e quant’altro di un movimento come quello grillino. Che ora più si dibatte nella crisi d’identità subentrata all’emorragia elettorale in corso dalla primavera del 2019 e più vi si sprofonda. Più insegue i suoi “Stati Generali”, come vengono troppo enfaticamente chiamati quelli che una volta erano i congressi, e più essi appaiono “generici” addirittura al direttore in persona del giornale meglio disposto verso i grillini. Che naturalmente è Il Fatto Quotidiano.
del Consiglio, e Francesco Rutelli per la camdidatura a Palazzo Chigi nelle elezioni ordinarie dell’anno dopo. Prevalse la visione dell’Italia “a rotelle”, come si lasciò scappare il solitamente contenuto “dottor Sottile” dei tempi di Bettino Craxi. E le elezioni furono vinte da Berlusconi, riuscito poi a governare per l’’intera legislatura.
della guerra intestina che le farebbero quelli del Pd. Ma a rotelle, francamente, sono più generalmente ridotti il movimento 5Stelle e una legislatura che sembra costretta dalla rassegnazione, più che dalla paura di chissà quale Annibale alle porte, a proseguire comunque sino al suo epilogo ordinario, costi quel che costi. Spero, francamente, il meno possibile all’Italia.
e dello stesso Conte all’”altolà” dei grillini, Angelo Panebianco ha spiegato nel suo editoriale che “i numeri” -non le pietre “vendute” sul suo blog da quel burlone di Beppe Grillo in persona
per “pulire, grattare e smerigliare il cervello della stupidità umana”- giocano in Parlamento a loro favore. “I 5 Stelle, spaccati al loro interno quanto si vuole, restano
farsi sentire sul Foglio lamentando “alibi per stare fermi”, visti i rischi di una crisi, e non escludendo, cioè insistendo per “il rimpasto”. Che invece viene ostinatamente escluso dal presidente del Consiglio perché non gliel’avrebbe chiesto nessun partito della maggioranza, e sarebbe previsto solo dall’”agenda dei giornalisti”.
nei riguardi dei grillini. “Ho il massimo rispetto -aveva detto Bonaccini- per le fibrillazioni di tutti, ma siamo qui per risolvere i problemi del Paese, non delle singole forze politiche”. E già era una concessione ai grillini accomunarli generalmente ad altri partiti, di maggioranza e persino di opposizione, visto che neppure nel centrodestra mancano disagi capaci di ripercuotersi sull’intero Paese.
che i 5Stelle abbiano fatto molti passi avanti. Certo, se nasci come movimento anti-sistema e poi ti trovi di colpo al governo, passando da una coalizione con la lega ad una col Pd, è normale che hai degli sbandamenti”, ha osservato con comprensione Franceschini. Che si è mostrato perciò fiducioso, senza neppure bisogno di dare loro dei “consigli”, che i grillini sapranno rinunciare da soli anche agli “slogan anti-Palazzo”, ora che vi stanno dentro. E non si lasciano scappare occasione -aggiungerei- per starvi sempre di più, vista la puntualità e a volte persino la smania con la quale partecipano alle nomine ed altre pratiche del sottogoverno.
alla destra con 200 miliardi di euro da spendere”, quelli dei fondi europei per la ripresa, ”e un presidente della Repubblica da eleggere” nel 2022. Magari mandando
al Quirinale Conte, o facendo andare come garante proprio lui, Franceschini. Che ha però liquidato il sospetto di una sua partecipazione alla corsa al Colle come “gioco di società piuttosto sciocco”, bastandogli ed avanzandogli -ha assicurato- “l’aspirazione a fare bene il ministro della Cultura e del Turismo”. Spero a questo punto, per lui, che grillini e quant’altri non lo prendano in parola.
dei grillini a questo tipo di finanziamento. “Sul Mes -ha detto- bisogna deideologizzare lo scontro. Vediamo cosa serve alla sanità, quali progetti e quante risorse servono e poi affronteremo il tema insieme al Recovery fund”, seguendo praticamente il calendario lentissimo di Luigi Di Maio. Che nei rapporti col Pd ha fretta solo di preparare insieme, con candidature comuni o simili, le elezioni comunali del prossimo anno, vista la ingloriosa fine degli accordi tentati a livello regionale.
un negoziato eventualmente fra il primo e il secondo turno. E comunque avvertendo che “ci sono dei nomi che rappresentano un impedimento
a qualsiasi accordo”. Egli ha evitato così una lite in famiglia, essendo la moglie Michela Di Biase la ex capogruppo del Pd in Campidoglio, ora alla regione Lazio, decisamente contraria alla conferma cui aspira la sindaca pentastellata di Roma Virginia Raggi. Alla quale, in una recente intervista, la signora Franceschini ha fatto capire di potersi anche contrapporre proponendosi alle primarie del partito.
l coraggio di dire davvero come stanno le cose. Parlo naturalmente di Stefano Bonaccini. Il quale, intervistato da Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera sui condizionamenti, ritardi e quant’altro che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte subisce per la crisi interna del movimento che lo portò a Palazzo Chigi nel 2018, e ne impose la conferma l’anno dopo al Pd subentrato alla Lega di Matteo Salvini, ha detto testualmente: “Ho il massimo rispetto per le fibrillazioni di tutti, ma siamo qui per risolvere i problemi del Paese, non delle singole forze politiche”.
capitano di fregata
noto per la sfuriata contro il comandante della nave Concordia Francesco Stecchino naufragata nel 2012 all’isola del Giglio, ha conosciuto bene da senatore il movimento grillino. Della cui “morte lenta, lentissima” ha appena parlato al Corriere dicendo che il Paese è diventato “ostaggio di questa agonia”.
il pentastellato presidente dell’Antimafia
Nicola Morra, insegnante consapevole -credo- del significato delle parole che usa: “Il movimento 5 Stelle è un qualcosa di liquido, che dinamicamente deve evolvere senza snaturarsi”. Qualcosa di liquido, o persino di gassoso, da cui pure partono esibizioni di forza e minacce come quelle del capogruppo della Camera Davide Crippa.
Che ha appena ricordato sul Corriere della Sera che “qualsiasi cosa si voglia fare, si deve
passare da noi”. E al presidente del Consiglio espostosi ad accennare a restrizioni necessarie anche al cosiddetto e abusato reddito di cittadinanza ha risposto: “Conte sa benissimo che il Movimento è la forza più leale che ha in Parlamento e che non può prescindere da noi”.
a dir poco anacronistico, per non parlare della “guerra fra bande” lamentata dal presidente grillino della Camera Roberto Fico parlando degli imminenti Stati Generali del movimento, o “generici”, come ha dovuto ammettere il solitamente adorante direttore del Fatto Quotidiano.
conferma dell’infimo stato di ipocrisia e doppiezza in cui è stata ridotta la politica italiana. E ciò solo per inseguire sotto l’arco del Tito di turno- prima Umberto Bossi, a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica, e poi Beppe Grillo- le farfalle della demagogia e del moralismo.
compenso meno basso di quelli riservati ai dirigenti che lo affiancano, o dovrebbero affiancarlo, non mi fa ridere ma indignare. Altrettanto dico della pausa di riflessione e informazione che si è preso non solo Di Maio, proveniente dalle scalinate dello stadio di Napoli con birre e simili a tracolla da vendere agli spettatori, ma anche l’avvocato civilista e professore di diritto Giuseppe Conte.
in vantaggio “con ogni legge elettorale”, come dice impietosamente un titolo in prima pagina. “Con il sistema elettorale attuale o con il Germanicum” -su cui Zingaretti sta trattando con i grillini fra un rinvio e l’altro dell’approdo della riforma nell’aula della Camera per il suo primo passaggio parlamentare- ”non importa: il risultato non cambia. Il centrodestra avrebbe sempre la maggioranza”.
una consolazione per modo di dire perché il Pd sarebbe comunque destinato a tornare all’opposizione dopo avere aiutato i grillini, col cambio di maggioranza l’anno scorso, ad evitare elezioni tanto anticipate quanto distruttive per il movimento 5 Stelle, dimezzato nelle urne per il rinnovo del Parlamento europeo da Salvini dopo meno di dodici mesi di governo insieme.
della Lega. Dove “Zaia rimedia agli errori di Salvini”, in tandem -aggiungo io- con Giancarlo Giorgetti. Che non avrà i voti dell’ora governatorissimo leghista del Veneto ma i rapporti giusti con l’Europa sì, dove d’altronde il primo governo Conte, quello gialloverde, stava per mandarlo l’anno scorso, prima della crisi, per rappresentare l’Italia nella nuova Commissione di Bruxelles. E se lo stesso Giorgetti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, si tirò indietro parlandone col capo dello Stato, lo fece diffidando non tanto di Salvini e della comune Lega ma dei grillini, da lui considerati sotto sotto, nonostante l’appoggio poi fornito ad Ursula Von der Leyen per l’elezione a presidente di quella Commissione, più sovranisti ed euroscettici del “capitano”.
niente naturalmente al Fatto Quotidiano, sulla cui prima pagina Vauro Senesi ha espresso bene i sogni di Marco Travaglio rappresentando Salvini in galera, impegnato a dare spallate alla porta della cella. Gratta gratta, è sempre lì, fra le sbarre o in manette nel passaggio da un tribunale all’altro, che Travaglio vorrebbe quelli che non gli stanno simpatici, prima o dopo -magari- anche qualcuno fra i grillini resistenti ai suoi consigli. Il lupo, dice un vecchio proverbio, perde il pelo ma non il vizio. E il lupo è già più nobile, diciamo così, dello sciacallo.
di coinvolgerlo nelle polemiche interne, tenendo anzi a riconoscere
al “capitano” il merito di avere raccolto “un cadavere eccellente” per riportalo “nell’Olimpo”, ha detto che “una persona”, per quanto molto votata in un certo momento, non basta per vincere se le manca -si presume, come adesso- “un consolidato programma politico”. Che il governatorissimo ha paragonato a “un palo”, inteso come “supporto per continuare a crescere”.
a quelle dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti pronunciate nel contesto di un’intervista a Repubblica centrata sul problema di una nuova legge elettorale questa volta interamente proporzionale, in linea di massima concordata fra Pd e Movimento 5 Stelle con una incertezza per ora riguardante solo o soprattutto la cosiddetta soglia di accesso per partecipare alla distribuzione dei seggi parlamentari. E’ una soglia che Giorgetti sospetta sia destinata a scendere via via sotto il 5 per cento originariamente previsto, allo scopo di soddisfare i partiti minori dell’attuale coalizione di governo, a cominciare dall’Italia dei Valori di Matteo Renzi. Che Alessandra Ghisleri ha appena valutato sulla Stampa, in base ai risultati delle elezioni in cui il nuovo partito si è misurato domenica e lunedì scorso, attorno al 3,7 per cento, contro il 5,1 attribuitosi dall’ex presidente del Consiglio.
propone all’Italia”. “Di questo -ha precisato- abbiamo discusso con Matteo Salvini. E’ chiaro che il lockdown e il cambiamento che si è avuto nella società impone una riflessione. Dobbiamo preparare una proposta per le politiche….Dobbiamo essere inclusivi e aprirci a mondi che ci guardano ancora con diffidenza e sospetto. E, se abbiamo fatto degli errori, li dobbiamo correggere”.
Salvini ha preferito l’alleanza con la francese Marine Le Pen piuttosto che il dialogo col Partito Popolare, facendosi peraltro sorpassare dai grillini nel passaggio parlamentare di Strasburgo in cui fu eletta Ursula von der Leyen a presidente della nuova Commissione Europea. I grillini infatti votarono a favore risultando decisivi per lo scarto di nove voti col quale l’allora ministra tedesca della Difesa fu eletta. I leghisti, tanto tentati dall’astensione da avere ottenuto “la comprensione” della Le Pen, essendo essi ancora al governo in Italia, ebbero invece all’ultimo momento l’ordine di votare contro. Errori da correggere, dice adesso Giorgetti forse pensando proprio o anche a quell’infortunio politico. E’ difficile chiamarlo diversamente.
di un Paese minacciato dal revanscismo fascista e sovranista della Lega di Salvini e perciò condannato a tenersi questa pur sofferta e sofferente maggioranza sino all’epilogo ordinario della legislatura, non potendosene prevedere costituzionalmente una proroga. A meno che Di Maio dalla Farnesina a tempo debito non dichiari la guerra alla Repubblica di San Marino per fare scattare la clausola bellica dell’articolo 60 della Costituzione per la proroga, appunto, di un Parlamento scaduto.
da liquidare sul suo Fatto Quotidiano per “Stati generici” gli “Stati Generali” sulla cui preparazione si distinguono e litigano i pentastellati non abituati alla pratica dei congressi di partito.
Stefano Rolli, i grillini sono riusciti a produrre persino “il paradosso”, lamentato sul Corriere della Sera da Massimo Franco, di disertare le loro assemblee interne quando vi partecipano i capi, capetti e simili, e di frequentarle invece in abbondanza quando quelli non ci sono e loro possono più liberamente parlarne male.
lo sfiorano sui soldi della sua formazione politica. Ora egli
è alle prese anche con una certa fronda politica interna di crescente visibilità, affacciatasi durante la campagna elettorale col no di Giancarlo Giorgetti ed altri alla conferma referendaria delle Camere sforbiciate dai grillini e sviluppatasi sino a coinvolgere in qualche modo Luca Zaia. Che non è il governatore ma il governatorissimo del Veneto, con quel 76,7 per cento bulgaro di voti che ha portato a casa superando alla grande con la sua lista praticamente personale quella del partito “per Salvini”.
quell’annuncio
che “alla Lega serve un progetto politico solido”, evidentemente mancante, o non sufficientemente chiaro e visibile. Un progetto che nel testo dell’intervista diventa “un palo”, inteso come “supporto per poter continuare a crescere” e non vanificare “il lavoro strepitoso”, per carità, compiuto da Salvini prendendo “in mano un cadavere eccellente” e portandolo “nell’Olimpo”.
dell’intervistatore di trascinarlo nelle vicende interne alla Lega, rimane la necessità e forse persino l’urgenza avvertita dalla personalità ora più popolare della Lega di dare al movimento un “progetto politico” che l’affranchi forse da quella dose eccessiva di sovranismo, o di euroscetticismo, tradottasi nell’alibi più comodo degli avversari per allearsi contro di lui e tenere in piedi con la respirazione ufficiale la legislatura in corso. Che senza lo spauracchio del “capitano” leghista smanioso di “pieni poteri” e troneggiante in un centrodestra dove solo Silvio Berlusconi si illude di poterlo ancora condizionare, sarebbe già bella che finita con lo scioglimento anticipato delle Camere.
Sarebbe altro che la “nuova fase”, più di fatti che di parole, chiesta dal Pd di Nicola Zingaretti già prima del turno elettorale di domenica e lunedì scorsi e riproposta dopo il voto nella convinzione di disporre adesso di un maggiore potere contrattuale, con i grillini superati generalmente nelle urne anche dai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Persino Vauro, sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, ha canzonato i festeggiamenti elettorali dei pentastellati, sopra e sotto il balcone.
davvero dentro casa, mica per finta. “Congresso vero, non accetto farse”, ha fatto dire La Stampa in prima pagina ad Alessandro Di Battista, che ha definito quella appena raccolta nelle urne la maggiore sconfitta del movimento grillino nella sua storia, per niente mitigata dalla vittoria del sì referendario alle Camere sforbiciate.
sadismo politico, da Beppe Grillo in persona. Che, caricato ulteriormente dalla circostanza di parlarne in collegamento col presidente del Parlamento europeo, ha riproposto il sorteggio, non l’elezione dei rappresentanti del popolo. Grillo “chiude il Parlamento”, hanno