Può darsi che, nonostante le diffuse diffidenze e gli annunci già levatisi di un rifiuto quasi di principio a ricorrervi, abbia davvero ragione il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a considerare necessaria “l’App immuni” appena varata dal Consiglio dei Ministri. Essa dovrebbe consentire il più largo tracciamento possibile degli incontri personali attraverso i telefonini
ed evitare, o quanto meno, limitare il contagio virale che ha messo in ginocchio non solo l’Italia ma il mondo. Può darsi, ripeto. Il telefonino ha fatto miracoli, salvo qualche
inconveniente, nell’evoluzione dei rapporti sociali. Sarebbe un affare se ne facesse anche nella lotta al coronavirus, come già sperimentato in Corea del Sud, hanno assicurato gli esperti. Incrociamo pure le dita e fidiamoci della promessa che i dati raccolti elettronicamente sui nostri incontri vengano davvero cancellati entro fine anno. E non finiscano invece per essere utilizzati chissà come e chissà da chi per ricattare il coniuge infedele, presunti corruttori e via immaginando in un Paese dove peraltro le carceri sovraffollate, spesso di detenuti in attesa di giudizio, sembrano più piacere che dispiacere o allarmare.
Sul piano politico e personale, tuttavia, il povero Conte -al netto degli errori già commessi e di quelli che tutto lascia ritenere che commetterà ancora, visto che ha appena detto che rifarebbe tutto quello che ha fatto se potesse tornare indietro, e non solo sulla strada della lotta al Covid 19- avrebbe bisogno di un’altra applicazione, questa volta ai telefonini dei tanti politici di tutti gli schieramenti all’opera sotto traccia, oltre che in superficie, con incontri, soffiate, promesse, minacce e quant’altro, per rimuoverlo il prima possibile. E passare ad un altro governo e ad un’altra maggioranza.
Federico Geremicca ha scritto sulla Stampa del “caos calmo” attorno al presidente del Consiglio, e
Marcello Sorgi, sempre sulla Stampa,
delle “troppe turbolenze in vista per il premier”. Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa – l’elefantino e la ciliegina- ha appena cercato di raccontare e spiegare “perché anche il Pd”, che pure è il partito più solido della maggioranza giallorossa, essendo il movimento grillino allo stato liquido
o gassoso, nonostante la sua forte consistenza parlamentare, “non vede più Conte come un affetto troppo stabile”. E’ un’ironia un po’ cercatasi dal presidente del Consiglio cercando di individuare meglio i “congiunti” ai quali sarà possibile fare visita nella nuova fase dell’emergenza virale: un’ironia che Nico Pillinini ha tradotto sulla Gazzetta del Mezzogiorno addirittura in una vignetta acrobatica. Dove Conte ha preso assai scomodamente il posto del ponte del 1° maggio saltato con la fase 1 dell’emergenza.
Avrà di che lamentarsi Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano, come ha già cominciato facendo le pulci velenose a Maurizio Molinari e Stefano Folli di Repubblica, contro il vero o presunto anticontismo della grande stampa, ora posseduta dal nipote del compianto Gianni Agnelli, e dei quotidiani minori che le vanno appresso. Il problema della ormai precarietà politica del presidente del Consiglio è sul tappeto, sbattutovi anche dall’agenzia internazionale di rating Ficht, che ha appena
declassato l’Italia per motivi più politici, appunto, che economici. C’è poco da consolarsi, come ha fatto proprio Travaglio attribuendo
a Conte il merito di avere “messo a cuccia le regioni” che contestano il governo, dal Nord al Sud, per ragioni opposte ma convergenti, si diceva ai tempi della cosiddetta prima Repubblica quando si respirava aria di crisi.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
favore. E non è un fronte secondario, specie in un Paese come l’Italia, trattandosi della Chiesa per le proteste levatesi dai vescovi italiani e dai loro sostenitori laici. Fra i quali ha voluto distinguersi il deputato “sempre radicale”, oltre che renziano, Roberto Giachetti, messosi a leggere pubblicamente il Vangelo contro il perdurante divieto delle messe con la partecipazione pubblica.
concordare modifiche al suo cronoprogramma dell’uscita dai blocchi, è stato addirittura il Papa in persona. Che, certamente al corrente della mezza rivolta dell’episcopato, ha colto l’occasione della sua messa mattutina e privata nella residenza di Santa Marta, trasmessa tuttavia in diretta televisiva, per invitare prelati e fedeli in ascolto da casa a coltivare
“la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni” adottate dalle autorità preposte a contrastare l’evenienza che “torni la pandemia”. Come se questa fosse davvero terminata, nonostante i bollettini quotidiani dei contagiati e dei morti, che continuano ad essere tanti, nonostante a volte in calo. I vescovi non debbono avere gradito molto. Giustamente Emilio Giannelli li ha immaginati sulla prima pagina del Corriere della Sera rivolti al Papa per ricordargli “il no di Conte non al Mes ma alle messe”. Il Mes è naturalmente il controverso fondo europeo salva-Stati.
completamento del nuovo ponte a Genova, cui aveva voluto assistere, egli ha ecceduto un po’ in sicurezza respingendo le critiche di una interlocutrice ai suoi decreti sfidandola -se eletta, come se lui lo fosse mai stato- a scriverne di migliori. Eppure -a parte
il monito appena arrivato dalla presidente Marta Cartabia in una intervista al Corriere della Sera che “le questioni di attualità” virale “potrebbero tutte arrivare al vaglio della Corte Costituzionale”- a criticare i decreti di Conte, se vogliamo buttare nel cestino dei pregiudizi e delle incompetenze le reazioni dei politici, di opposizione e di maggioranza, sono giuristi della consistenza e autorità come il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese. Che per i suoi rilievi si è recentemente procurato un editoriale particolarmente abrasivo, e ai limiti della diffamazione, del giornale più decisamente schierato a favore del presidente del Consiglio. Mi riferisco naturalmente al Fatto Quotidiano.
giornale di Marco Travaglio sul “giorno nero dei nemici di Conte”, il capo del governo rimane “sotto assedio”, come
presidenziale sulla cosiddetta ripartenza, sfidando Conte su Repubblica a trasformarlo
in un decreto legge per consentire alle Camere di cambiarglielo nel processo di conversione, e che aspetta praticamente di uscire dalla maggioranza dopo che gli italiani potranno tornare ad uscire davvero da casa; oltre al “solito” Renzi, dicevo, ha fatto sentire i suoi rilievi e le sue preoccupazioni anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti.
così, nel “tanto lontano” mese di giugno, come già contestato in Consiglio dei Ministri dalla titolare renziana del dicastero dell’Agricoltura Teresa Bellanova.
in cui Zingaretti ha “auspicato” che si formino “le condizioni” -dipendenti ovviamente anche dal presidente del Consiglio, che in questo campo ha notoriamente deluso pure il capo dello Stato- di “un coinvolgimento sull’emergenza anche maggiore delle opposizioni”.
una spina nel fianco di Conte anche il malumore, a dir poco, dei vescovi per le messe ancora chiuse al pubblico: malumore che il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno” Nino Pillinini ha rappresentato sarcasticamente trasformando il presidente del Consiglio da “avvocato del popolo” in “avvocato del diavolo”.
Maurizio Molinari. Che a sua volta ha ceduto la direzione della Stampa, lo storico giornale della Fiat, a Massimo Giannini, tornato da Repubblica a Torino. Dove era stato accolto di persona dall’”avvocato”, che gli parlò del suo come di “un giornale perbene”. Lo ha voluto ricordare lo stesso Giannini nell’editoriale di insediamento, tanto per far capire bene con lodevole franchezza chi conduce le danze nel nuovo gruppo editoriale.
testata comunista dell’Unità per ristamparla come organo non più del Pci, ormai defunto, ma di una forma di socialismo liberale. Dove potrebbero
approdare, all’occorrenza, lettori e giornalisti delusi della Repubblica del nuovo corso: non so, francamente, se a cominciare davvero da Eugenio Scalfari. Col quale l’”ingegnere” ebbe qualche mese fa uno sgradevole e, temo, irreversibile scontro a distanza nel salotto televisivo di Lilli Gruber rinfacciandogli la “carrettata” di soldi pagatagli a suo tempo in un cambio di proprietà e dandogli praticamente dello svanito per i 96 anni allora neppure compiuti.
l’allora guardasigilli si offrì pubblicamente a “restituire l’onore” al Psi, che evidentemente lo
aveva perduto. Ma, non avendo di certo i soldi di De Benedetti, le ambizioni di Martelli sono assai modeste: una riedizione assai ridotta dell’Avanti!: una al mese da qui a giugno e poi chissà, forse una ogni quindici giorni, come Il Borghese di prima maniera di Leo Longanesi.
vigilare perché il suo “fiore” di carta non appassisca prima dei “cento anni”: quelli non dalla nascita dello stesso Scalfari, che vi è quasi arrivato, ma della testata. Che esordì nel 1976, cioè 44 anni fa, per cui gliene resterebbero nella serra, o addirittura all’occhiello della giacca immaginata dal fondatore, almeno altri 56.
e poi addirittura imposto
a Palazzo Chigi dai grillini -imposto, in particolare, nella scorsa estate in un improvviso cambio di maggioranza a un Pd che reclamava “discontinuità” nel passaggio da una coalizione gialloverde ad una giallorossa- è diventato nell’editoriale di Scalfari di domenica scorsa “vicino” al partito guidato da Nicola Zingaretti.
a Matteo Salvini, che dall’ultimo sondaggio di Nando Pagnoncelli risulta avere perduto quasi 9 punti rispetto al 34,3 per cento guadagnato nelle elezioni europee del 26 maggio dell’anno scorso. I grillini invece hanno recuperato con un “balzo” un punto e mezzo assestandosi al 18,6 per cento il 23 aprile di questo 2020 pur maledettamente virale.
lo ha fatto “vicino al Pd”. E, in più, lo ha incoronato leader di un “liberalsocialismo” che dovrebbe procurare l’orticaria a quella componente non piccola, e neppure sprovveduta, del Pd proveniente in prevalenza dalla sinistra democristiana. Che solo a sentir parlare di liberalsocialismo ai tempi del povero Bettino Craxi fremeva dalla rabbia e dalla paura, impersonate quasi fisicamente dall’allora segretario scudocrociato Ciriaco De Mita. Che non a caso si guadagnò le simpatie dell’ancòra direttore, oltre che fondatore, di Repubblica.
naturalmente a trarre qualche vantaggio da una crisi del giornale La Repubblica, ma Eugenio Scalfari ha reagito con molta prudenza e con un’apertura pur minacciosa di fiducia al nuovo corso del quotidiano da lui fondato nel 1976. Egli ha
confidato ai lettori, nel solito appuntamento domenicale, di avere già avuto un confronto, diciamo così, col direttore Maurizio Molinari, appena subentrato al pur caro Carlo Verdelli per volontà dell’editore John Elkann, il nipote ed erede di Gianni Agnelli, e di averne praticamente raccolto la promessa che Repubblica continuerà a muoversi nel solco del “liberal-socialismo” rivendicato dallo stesso Scalfari. Che evidentemente deve avere dimenticato -alla bella età che ha di 96 anni- quella protesta levata nel 1978 contro il segretario socialista Bettino Craxi per essersi permesso di “tagliare la barba a Marx” con le forbici fornitegli da Luciano Pellicani, l’autore del “Vangelo socialista” affidato all’Espresso.
del suo giornale, pronto -se si troverà di fronte ad un altro soggetto o oggetto- ad avvertirli per primo e a “trarne personalmente e collegialmente, se possibile, le conseguenze”.
presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, guarda caso, il nuovo direttore si è affrettato a intervistare di persona, reduce da una visita alle Fosse Ardeatine.
il massimo del liberal-socialismo, e condiviso forse l’odore per un “fiore”, come quello della “sua” Repubblica, che “non appassisce”, almeno sino ai “100 anni”. Che non sono quelli dello stesso Scalfari, arrivatovi ormai vicino, ma della testata, che ne ha “solo” 44: tutti scrollatisi di dosso dall’interessato riproponendo la foto emblematica della nascita di Repubblica in tipografia, quando Scalfari aveva solo 52 anni e faceva le prove di stampa, attorniato da una squadra ambiziosa quanto lui.
questi giorni in cui si canta gioiosamente Bella ciao, che pure lo evoca per la tomba del partigiano, non farà certamente a Scalfari il brutto scherzo di appassire anzitempo. Auguri, don Eugenio, come avrebbero chiamato Scalfari ai tempi di Benedetto Croce.
per partecipare alla festa del 25 aprile, gli è forse simbolicamente servita anche a proteggersi dalla brutta aria politica che si respira nel Paese, oltre che a fare da esempio ai cittadini che dovrebbero coprirsi naso e bocca sempre per strada per evitare il rischio di contagiarsi del coronavirus e di contagiare.
Italia, risultanti dalla mia ultima verifica elettronica prima di mettermi a scrivere queste riflessioni, mi sembravano insopportabili da ignorare, o archiviare, di fronte alle riduzioni dei contagiati o all’aumento dei guariti, peraltro con tutto il beneficio d’inventario imposto dagli stessi esperti, analisti e quant’altri, tutti concordi nel diffidare dell’attendibilità dei numeri da loro stessi forniti.
letto delle
richieste pervenute a tante, troppe famiglie di versare alle amministrazioni di turno, o di competenza, le spese d’incenerimento ed altro dei loro cari, morti nella solitudine, chiusi nelle bare caricate per sovraffollamento dei cimiteri o chiese locali su autocarri militari e portati chissà dove per essere cremati e finire in urne qualche volta persino smarrite, o consegnate alle persone sbagliate.
giornale fondato nel 1976 da Eugenio Scalfari. Che a 96 anni appena compiuti ha dovuto incassare un’altra cocente delusione, dopo quella procuratagli dal penultimo editore della “sua” Repubblica, Carlo De Benedetti, quando nominò direttore Mario Calabresi per la successione a Ezio Mauro, senza neppure consultarlo. Allora Scalfari minacciò di diradare o addirittura interrompere la sua collaborazione con gli editoriali domenicali ed altri interventi.
editore di Repubblica è notoriamente e sostanzialmente la ex Fiat – o, se preferite, per semplicità, il nipote della buonanima di Gianni Agnelli, John Elkann- con un cambiamento di proprietà
che Carlo De Benedetti ha cercato inutilmente di impedire, anche a costo di scontrarsi con i figli e dar loro, senza mezzi termini, degli inadatti all’impresa ricevuta in donazione dal padre.
del direttore uscente, Carlo Verdelli, appena lanciata sulla stessa Repubblica da Francesco Merlo a causa delle minacce di morte piovutegli addosso e procurategli, fra l’altro, una protezione di primo livello da parte delle forze dell’ordine. Lo spostamento del pur ottimo Massimo Giannini dall’interno della Repubblica alla direzione della Stampa fa un po’ assomigliare i due giornali a due stabilimenti industriali dello stesso imprenditore, con vertici intercambiabili a preminenza tuttavia torinese.
politica interna sulla linea di Repubblica, privilegiando notoriamente il nuovo direttore Maurizio Molinari, di formazione liberale, la politica estera per la sua consolidata esperienza fra gli Stati Uniti e Israele.
lab24.ilsole24ore.com/coronavirus. Nella tabella e nel grafico allegati rip
