Spuntano dall’emergenza virale i ministri della Santità e dell’ingiustizia

            Tra maschere e mascherine di questa maledetta emergenza virale -sia quelle che non si trovano neppure al mercato nero, e a prezzi da strozzini, sia quelle che medici e infermieri appendono alle bacheche dei loro ospedali, alla fine dei turni, intestandosele per evitare scambi incresciosi e persino furti- almeno due ministri, peraltro quasi coetanei, hanno perso per strada i nomi dei loro dicasteri guadagnandone di migliori, ma anche peggiori.

             Uno è Roberto Speranza, dei “liberi e uguali” di Pietro Grasso, Pier Luigi Bersani e compagni, l’altro è il grillinissimo Alfonso Bonafede, diventato anche capo della delegazione pentastellata al governo dopo la sostanziale rimozione -non avendovi mai rinunciato spontaneamente- dell’ex capo formale e politico del movimento Luigi Di Maio, più o meno felicemente regnante adesso solo alla Farnesina.

            Speranza, forte già di suo con Roberto Speranza.jpegquel cognome che è tutto un programma, da ministro della Sanità, o Salute, è diventato ministro della Santità per tenuta di nervi, nel marasma dell’emergenza. E anche per la sorprendente prova di competenza che ha dimostrato, peraltro al suo esordio governativo, non avendo mai fatto prima neppure il sottosegretario. Giù il cappello, come si dice in queste occasioni anche dalle sue parti, in Basilicata.

            Alfonso Bonafede, siciliano d’origine ma toscano di studi superiori, scopritore all’Università di Firenze di quel talento che viene cAlfonso Bonafede.jpegonsiderato Giuseppe Conte tra i grillini, tanto da saltare in un attimo, dopo le elezioni del 2018, dal posto di ministro della Funzione Pubblica, assegnatogli in una  lista potenziale trasmessa persino al Quirinale, a quello addirittura di presidente del Consiglio; Bonafede, dicevo, sta davvero rischiando di trasformarsi da ministro della Giustizia in ministro dell’ingiustizia, doverosamente al minuscolo.

            Sopravvissuto politicamente in modo più o meno fortunoso, grazie alla situazione di emergenza creatasi con la pandemia virale, al rischio di sfiducia “individuale” reclamata a più riprese, all’interno della stessa maggioranza, da Matteo Renzi e amici per la gestione a dir poco avventurosa della prescrizione quasi zero, prima ancora di una riforma del processo penale in linea con la “ragionevole durata” garantita dalla Costituzione, Bonafede sta politicamente affogando in quello che si può ben definire lo scandalo delle carceri. Dove ai morti per recente rivolta se n’è appena aggiunto uno da coronavirus. Si tratta di Vincenzo Sucato, 76 anni di età portati abbastanza male tra varie patologie, imputato di mafia in attesa di giudizio, infettatosi in carcere e trasferito in detenzione ospedaliera a Bologna troppo tardi, giusto per morirvi, dopo il solito traffico burocratico e giudiziario di istanze, perizie, rapporti e quant’altro.

            Bonafede, in linea col cognome che porta, potrebbe difendersi dicendo che non toccava a lui personalmente gestire quelle pratiche, ma è dai giorni della già ricordata e funesta rivolta ch’egli è alle prese col più generale e drammatico problema delle carceri sovraffollate, e perciò ancora più a rischio di contagio per chi vi si trova come detenuto o guardia. Ma lui ha affrontato la questione in modo da gareggiare per intransigenza o insensibilità detentiva, contro tutte le proposte e richieste di sfoltimento delle celle, con il suo ex alleato e collega di governo Matteo Salvini. Il quale peraltro nella sua gara con Bonafede, su questo fronte penitenziario, si è procurato una tirata d’orecchie anche da un estimatore politico della Lega come Vittorio Feltri su Libero.

 

 

 

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Conte e Draghi destinati a stare insieme, con le buone o le cattive

Sopraffatte mediaticamente dalla conferenza stampa a Palazzo Chigi, sono passate inosservate alcune considerazioni fatte dal presidente del Consiglio in un’intervista televisiva a un canale privato non dico minore, per carità, ma non certo fra i più seguiti. In cui l’informazione è generalmente affidata ai giornalisti di una testata fra le più rispettose verso Giuseppe Conte, regalato secondo loro al Paese quasi dalla Divina Provvidenza.

In questa intervista, già pensando forse alla “fase 2” poi accennata in conferenza stampa in riferimento però agli sviluppi dell’emergenza, quando questa diminuirà d’intensità ma ci obbligherà lo stesso a “convivere” col coronavirus, Conte ha detto -bontà sua- di non ritenere di “dover rimanere seduto su questa poltrona vita natural durante”. Gli basta “l’orizzonte di una legislatura”: questa uscita dalle urne del 2018 e ormai a rischio sempre più decrescente di fine prematura. In questi tempi di possibili contagi in fila davanti alle urne, si tende più a rinviare che ad anticipare le elezioni. Per adesso è già toccato al referendum confermativo sulla riduzione dei seggi parlamentari, spostato dal 29 marzo a data ancora da stabilire. Ma potrebbe accadere anche per il rinnovo dei consigli regionali in scadenza in questa primavera.

L’orizzonte della legislatura in corso non è cosa di poco conto per una maggioranza così composita, a dir poco, come quella improvvisata nella scorsa estate fra grillini e sinistra pur di evitare, con le elezioni anticipate reclamate dall’allora ministro uscente dell’Interno, una vittoria del centrodestra a trazione leghista data per scontata da tutti. E’ una maggioranza non sufficientemente o sinceramente aperta all’opposizione, come reclamato invece dal capo dello Stato nelle condizioni di emergenza sanitaria, economica e sociale in cui è finito il Paese, e viziata da tensioni che sfuggono ogni tanto allo sforzo di Conte di contenerle o nasconderle.

E’ appena accaduto, per esempio, che il pur non più capo del maggiore partito della coalizione Luigi Di Maio, e neppure capo della relativa delegazione al governo, ha trovato il tempo, la voglia, il bisogno di bollare pubblicamente come “indecente” -ripeto, indecente- il rifinanziamento pubblico di Radioradicale appena passato in Parlamento  per iniziativa del Pd e con l’appoggio del centrodestra. Il segretario piddino Nicola Zingaretti, Dario Franceschini, Roberto Gualtieri, lo stesso Conte hanno fatto finta di non sentire e non capire, ma l’insulto è rimasto agli atti mediatici.

Non parliamo poi della spina nel fianco rappresentato nella maggioranza dalla ostilità di principio dei grillini al cosiddetto fondo europeo salva-Stati, in sintonia col sovranismo degli ex alleati leghisti e dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, convinta -come ha recentemente gridato alla Camera- che quel meccanismo finanziario serva solo a tedeschi e affini ad approfittare dell’emergenza virale per “rovistare fra le macerie e fregarsi la nostra argenteria”.

Nel momento in cui si gioca su questo terreno il futuro non solo dell’Italia ma di tutta l’Unione Europea, la cui bandiera è per fortuna rimasta sullo sfondo delle conferenze stampa a Palazzo Chigi anche dopo che Conte in video-vertice con i suoi omologhi continentali ha minacciato come un sovranista qualsiasi di “poter fare anche da solo”, non mi sembra francamente che l’attuale governo sia il più adatto a gestire un passaggio che può ben definirsi Roberto D'Alimonte.jpegdrammatico. E ciò non solo perché,  come ha scritto qualche giorno fa Roberto D’Alimonte sul Sole-24 Ore, “non si può chiedere unità e solidarietà a livello europeo e rifiutare di unirsi a livello nazionale per condividere la responsabilità e i rischi legati alle difficili decisioni che prima o poi dovranno essere presi”:  ben al di là dei passeggini, passeggiate e altro delle ordinanze che vengono scritte al Viminale a quattro mani dal ministro dell’Interno e dal capo della Polizia, fra gli sberleffi dei vignettisti sui giornali.

Per confrontarsi, a dir poco, con la Merkel e i falchi più o meno baltici, convincendoli o addirittura rompendo, l’autorevolezza di Conte -lo dico sul piano naturalmente politico, con quel partito che lo ha designato a Palazzo Chigi perdendo in meno di due anni metà del proprio elettorato-  impallidisce di fronte a quella, per esempio, dell’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che in un “governissimo”, come si è soliti chiamarne uno di vera e propria unità nazionale, simile a quelli realizzati da Alcide De Gasperi in Italia dopo e davanti alle macerie della seconda guerra mondiale, Conte potrebbe ben figurare come ministro degli Esteri, mettendo a frutto le relazioni internazionali che ha saputo coltivare da Palazzo Chigi, meglio certamente di Di Maio dalla Farnesina. Al Quirinale credo proprio che non ne vedano l’ora.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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