Marco Follini, che peraltro ben lo conobbe guadagnandosene anche l’appoggio ma efficace ai vertici del partito quando fu eletto a 23 anni
segretario del Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana, nel 1977, ha ricordato da par suo Aldo Moro a 48 anni dal tragico sequestro del 16 marzo 1978: una ricorrenza penalizzata mediaticamente, come tante altre cose, dallo tsumani sanitario, sociale e politico del coronavirus.
Giustamente Follini ha sottolineato dello statista democristiano, ucciso 55 giorni dopo il rapimento avvenuto fra il sangue della scorta, l’unicità, irripetibilità e quant’altro di fronte ai tanti, ricorrenti tentativi di imitarlo o di paragonarlo agli uomini politici dei nostri tempi. L’ultimo, di questi tentativi, è stato compiuto domenica scorsa su Repubblica. Dove il fondatore
Eugenio Scalfari, elegantemente o rispettosamente ignorato da Follini, ha riproposto l’immagine di un Giuseppe Conte quasi erede politico di Moro. Che in comune col presidente del Consiglio in carica ha soltanto una parte della terra pugliese d’origine, essendo nato Moro a Maglie, in provincia di Lecce, dove gli hanno peraltro innalzato una statua con una curiosa copia dell’Unità del Pci in tasca, e non del Popolo, il quotidiano ufficiale della Dc, e Conte a Volturara Appula, in provincia di Foggia: un borgo di 400 abitanti, più che un paese.
Di Conte come erede, emulo e chissà cos’altro di Moro si sono in qualche modo invaghiti anche altri, e persino in quella che fu la Dc e poi si è sparsa in tanti rivoli o schegge. Ricordo ancora con un certo sgomento l’entusiasmo col quale qualche mese fa -in un teatro campano dove il presidente del Consiglio aveva accettato di commemorare Fiorentino Sullo su invito e alla presenza di tanti reduci dello scudocrociato, fra i quali l’ex segretario del partito Ciriaco De Mita, che peraltro al povero Sullo in vita aveva creato più problemi che altro, pur avendolo politicamente allevato- l’immaginifico Gianfranco Rotondi
iscrisse idealmente Conte alla Dc. E si scusò di non potergli consegnare materialmente la tessera perché con la fine del partito nel 1992 avevano finito di stamparne. E a Silvio Berlusconi, nelle cui file Rotondi è approdato e rimasto con licenza di fare e disfare formazioni personali sempre riconducibili a Forza Italia, non è mai venuta in mente l’idea, almeno sino a questo momento, di fare stampare in qualche tipografia amica tessere quanto meno simboliche di un partito del quale pure il Cavaliere si vanta ancora di avere affisso da ragazzo sui muri di Milano i manifesti nella storica campagna elettorale del 1948.
Eppure, grazie ai capricci del tempo, nonostante la unicità o irripetibilità -ripeto- che Follini giustamente attribuisce ad Aldo Moro, a Conte sta accadendo da qualche tempo di seguire il metodo
tutto moroteo di affrontare i passaggi politici più aggrovigliati con la formula dello “scomporre per ricomporre” le parti in gioco. Moro però lo faceva col suo stile
inconfondibile, studiato per produrre effetti a distanza, non immediati, per cui riusciva a produrre cambiamenti e consenso vero. Lo dimostrò la costruzione che egli fece, oltre che delle varie maggioranze all’interno del suo partito, delle maggioranze di governo: dal centro-sinistra alla cosiddetta solidarietà nazionale. Conte lo fa con l’immediatezza e l’improvvisazione che potrebbero prima o poi complicargli, anziché facilitargli la partita personale che sta giocando in politica, non avendo un vero e proprio partito alle spalle, o avendone dichiaratamente uno -quello delle 5 Stelle- ridotto in uno stato a dir poco confusionale.
Nella scorsa estate Conte scompose e ricompose gli schieramenti parlamentari per passare, praticamente dalla mattina alla sera, da una maggioranza gialloverde ad una maggioranza giallorossa, o rossogialla, per avere rispetto dei colori calcistici della Roma. Poi la gestì in modo così poco accorto da fare esplodere una crisi nel maggiore partito della coalizione, con le dimissioni di Luigi Di Maio da capo del Movimento e la rimozione da capo della delegazione al governo, e quasi contemporaneamente uno stato di sostanziale belligeranza di Matteo Renzi ed amici.
Ora, con la storia del decreto legge chiamato “Cura Italia” o “anti-virus”, è riuscito a scomporre l’opposizione di centrodestra, divisasi fra le contestazioni dello stesso titolo del provvedimento da parte di Giorgia Meloni, l’insufficienza subito lamentata da Matteo Salvini gustando la spesa fatta il giorno prima con la fidanzata nel centro di Roma, con tanto di scorta in quasi assembramento pro-virus, e un ringraziamento in diretta televisiva, su una rete Mediaset, del direttore
in persona del Giornale della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti. Che probabilmente ha notizie del Cavaliere più dirette e sicure dei parlamentari forzisti che dovranno poi votare nelle commissioni e nelle aule, peraltro con modalità diventate anch’esse incerte per gli inconvenienti da contagio.
Il terzo governo di Conte, anticipato come “battuta”, formalmente, dal suo portavoce Rocco Casalino, sembrava rientrato nel deposito ferroviario non so di che stazione di Roma ma potrebbe essere rimesso sui binari. se e non appena il coronavirus si deciderà a mollare il monopolio della sinistra attenzione che si è procurato.
Pubblicato sul Dubbio
su tutta la prima pagina come “un decretino” il corposo provvedimento del governo. Che, liquidato prontamente dai leghisti e contestato come “cura” dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, avrà i suoi limiti quantitativi e qualitativi, per carità,
non sarà l’”antivirus” sparato trionfalisticamente sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di un Marco Travaglio una volta tanto dalla bocca buona e dallo stomaco sazio, ma comporta pur sempre l’impiego di 25 miliardi di euro. Di cui il Giornale della
famiglia Berlusconi ha preferito spiegare sobriamente e concretamente “a chi vanno”, nel contesto peraltro di un titolo -sempre di prima pagina- impostato all’ottimismo con quel grido “Dai che rallenta” al virus che ci sta conducendo una guerra infame e insidiosa.
al governo Conte il merito di avere compiuto “un grande sforzo” e il coraggio di “avere sparato in un colpo solo tutte le munizioni che aveva a disposizione”, senza usarle gradualmente, per cui “o il nemico inizia a retrocedere velocemente oppure non ci resterà che affidarci a qualche santo”. Che non mi sembra identificabile in Salvini, a dispetto delle corone, dei crocifissi e
delle immaginette che esibisce nei comizi. Benedett’uomo, egli non si lascia scappare occasione per procurarsi polemiche a dir poco fastidiose, come quelle tiratesi addosso con una vera o presunta corsa alla spesa con la fidanzata Francesca Verdini e scorta nel centro di Roma. E ciò, per somma sfortuna del leader leghista, nella stessa domenica in cui il Papa se ne andava a piedi per chiese a pregare.
prima alla Madonna, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, e poi al Crocifisso venerato dai tempi della peste di cinque secoli fa ed esposto nella Chiesa di San Marcellino al Corso. Che Papa Francesco ha voluto raggiungere a piedi, con la sua scorta, in una Roma disciplinatamente deserta. La foto ha naturalmente e giustamente fatto immediatamente il giro del mondo.
dalle opposizioni e da Renzi, liquidandola frettolosamente come “una bandiera” evidentemente di altri, Conte ha testualmente e responsabilmente dichiarato: “Bertolaso non lo conosco di persona, ma giudico positivo che la Regione Lombardia sia affiancata da una persona che conosce la macchina organizzativa della Protezione Civile. Ne uscirà agevolato il dialogo con la centrale che opera a Roma, sotto la direzione di Borrelli e Arcuri”.
e accanto alle cinque stelle, con una evidenza che può essere negata solo con una quantità industriale di ingenuità o malafede, in un editoriale intitolato come ogni lunedì “Ma mi faccia il piacere…” ha appena scritto con stile epigrafico: “Il compenso del mio nuovo consulente Guido Bertolaso sarà di un solo euro” (Attilio Fontana, Lega, presidente della Regione Lombardia). Io ne offro due per farlo stare a casa”.
storica statua della Libertà, secondo la felice rappresentazione fattane dal vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno. Ma anche la politica italiana ha ripreso il vecchio, consunto gioco cui aveva dato per qualche ora l’impressione di volere rinunciare di fronte all’emergenza sanitaria scoppiatale fra le mani e i piedi.
questa specie di epigrafe: “Sfumata la poltrona di supercommissario, martedì diceva: “No grazie, resto in Africa”. Ora invece: “Non potevo dire no”. Come si è permesso insomma, questo Bertolaso, di fare le cose per le quali il giornale di Michele Travaglio, più ancora o come Conte, non lo ritiene adatto e degno?
occupandosi in una giornata come questa sulla sua Repubblica di chi dovrà prendere nel 2022 al Quirinale il posto di Sergio Mattarella, dandone per scontata al tempo stesso la centralità e l’indisponibilità alla rielezione, se gliela dovessero offrire. In veste di grande consigliere della Politica, con la maiuscola, egli ha candidato “Mario Draghi, Walter Veltroni, Giuseppe Conte ma anche Paolo Gentiloni”, che “forse -ha aggiunto- sarebbe il più adatto”. “Si vedrà”, ha concluso Scalfari pensando probabilmente anche all’emergenza un po’ più concreta e pesante del coronavirus.
mancato, salvo le eccezioni di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera e di Giuseppe Tesauro e Osvaldo De Paolini
sui giornali del gruppo Caltagirone- di un’informazione supponente e superficiale. Che, pur di giustificare, coprire e quant’altro la presidente
francese della Banca Europea l’aveva paradossalmente degradata a portavoce o porta-ordini, come preferite, di una consigliera, con tanto di nome e cognome, che rappresenterebbe nell’Istituto di Francoforte gli interessi della Germania.
Raggi, sta facendo a sua volta col coronavirus avvolgendosi sul balconcino del suo ufficio capitolino in una specie di bandiera dell’ottimismo e della buona fine anche della sua disastrosa gestione politica della Capitale. Le cui strade, piazze e linee di trasporto, pur svuotate da chi rimane prudentemente a casa, salvo indossare lo scafandro per scaricare nei cassonetti i rifiuti di cui non può liberarsi diversamente, smentiscono da sole quel lenzuolo steso sui Fori.
gioco sorridendo a chiunque e comunque, ha dovuto alzare le sopracciglia ed emettere una nota di stupore e protesta per rivendicare il diritto dell’Italia di aspettarsi dall’Europa vere “iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione”.
trovato quasi comicamente ad essere il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti. Che si era guadagnato nell’autunno del 2011 il laticlavio e Palazzo Chigi come il campione italiano dell’europeismo: il più certificato e affidabile.
sistemare titoli di Stato italiani di cosiddetta “salute pubblica”- Mario Monti scriveva in un editoriale per il Corriere della Sera, testualmente, che “in giorni come questi la lucidità aumenta” nella sua amata e riverita Europa. Faceva bene Bertolt Brecht a invidiare quei popoli che non hanno bisogno di eroi, soprattutto improvvisati.
annunciare, dopo
avere subìto una pressione… della Madonnina di Milano, la “chiusura” dell’Italia, come ha titolato su tutta la prima pagina il quotidiano La Repubblica, anche se corretto dal Messaggero con un più modesto “blocco a metà”. In cui sembra di capire che il giornale e, più in generale, il gruppo editoriale di Francesco
Gaetano Caltagirone, leggendo anche il commento dell’ex magistrato Carlo Nordio, tema che possano insinuarsi
le truppe del Coronavirus ormai chiamate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “Pandemia”, o “pandemonio” in senso più lato e ironico da quelli del manifesto.
con la formula dell’”ultima idea”- si deve onestamente concludere e ammettere che il governo Conte è diventato solidissimo, da gracile che sembrava solo qualche settimana fa. Alternative non se ne vedono proprio: né dal Quirinale, né dagli altri colli di Roma. Pur nato soltanto nell’estate scorsa, esso si trova nelle condizioni degli anziani, anzi degli anzianissimi alle prese col coronavirus. Nella peggiore delle ipotesi potrà morire col coronavirus, ma non di coronavirus.
e quant’altro. E’ forse, a suo modo, un grido di sollievo, liberatorio, una specie di vaffa di memoria grillina per la piega presa dalle cose a dispetto del mostriciattolo che ci aveva dichiarato guerra e rischia adesso di morire di fame, come l’ha immaginato, scheletrito e infuriato, in prima pagina Il Foglio.
visto che “fino a pochi giorni fa era la gente a gridare ai politici di andare a casa”. Ora accade il
contrario. Ciò fa un po’ il paio con i funerali allegramente autocelebrati, in privato e senza gli assembramenti vietati dalle ordinanze fresche di stampa, dalle Sardine, con la maiuscola, che “non esistono più” dopo avere usato e abusato per mesi delle piazze. Lo hanno annunciato in un libro gli stessi promotori delle adunate.
del coronavirus. Che risponderebbe alla logica dell’”uomo forte”, e per giunta anche indegno, vista la repulsione che Travaglio ha mostrato per i nomi che scorrono più frequentemente, a questo proposito, nelle cronache o retroscena. Sarebbe tutta roba da “craxismo di ritorno”, ha scritto l’uomo, credo, più ossessionato nel mondo dal ricordo di un ex presidente del Consiglio italiano morto ormai più di vent’anni fa.
di “responsabilità”, persino patriottica. Ma, a ben guardare, il perno numerico e politico di questa maggioranza è un Movimento -quello già citato delle 5 Stelle- di cui si hanno notizie quanto meno contraddittorie e incerte, Il suo fondatore, garante “elevato” e quant’altro, Beppe Grillo, soffre dichiaratamente di apnee notturne che temo siano diventate anche diurne. Sul suo blog personale ho appena trovato come notizie di rilievo le prenotazioni di crociere nel 2020, con tutte le navi che non sanno dove attraccare in quarantena, e la ricerca di un’alternativa finalmente credibile all’olio di palma.
conclusa. Augusto Minzolini sul Giornale della famiglia Berlusconi ha voluto scrivere di un “Conte da ridere”
commentando la conferenza stampa di annuncio di “chiusura dell’Italia”, come ha titolato Il Mattino deludendo forse l’editore Francesco Gaetano Caltagirone, visto che su un altro giornale dello stesso
gruppo –Il Messaggero- è stato perentoriamente chiesto al presidente del Consiglio di farla “davvero”, questa benedetta chiusura, di fronte all’estensione del coronavirus e al rischio che gli ospedali non ce la facciano a ricoverare i malati.
bene su tutta la prima
pagina, quasi in sintonia col “Tutti in casa” di Repubblica, molto più
appropriato del “Tutti a casa” evocato, questa volta infelicemente, dal manifesto come il fuggi fuggi nell’Italia dell’8 settembre 1943. Che ha ispirato
anche Il Fatto Quotidiano col titolo sulla “grande fuga” dei “20mila” meridionali scappati in treno e in auto dal Nord verso le loro terre di origine trovando spesso ad accoglierli familiari e amici inferociti dalla paura di esserne contagiati.
E propensi perciò a ripetere
il grido del Foglio di “stare lontani”, e di obbedire una volta tanto ad un governo decisosi a “blindare tutta l’Italia”, come ha titolato La Stampa.
cominciato, o quasi, dicendo di avere appena ricevuto una telefonata, presumibilmente di inconsueto incoraggiamento, dal “ministro Salvini”. Che è proprio quel Matteo tutto leghista da lui praticamente rimosso, anzi destituito, in diretta al Senato l’anno scorso con un intervento da fare rimorire d’invidia, dall’al di là, Andrej Januar’evic Vysinskj, il sinistro e famoso procuratore delle purghe di Giuseppe Stalin.
l’indifferenza silenziosa e un po’ incivile -debbo dire- dei concorrenti, o almeno di alcuni di questi, non ci resta che attendere gli effetti delle decisioni prese dal governo e seguirne gli sviluppi incrociando le dita. Ma non senza deplorare chi intende specularci sopra, in tutti i modi e sensi: dalle borse alla politica.