Il governo inciampa al Senato nel controverso condono edilizio di Ischia

             I muscoli esibiti dal governo contro l’Unione Europea con tanto di lettera in difesa dei conti, ma soprattutto delle previsioni di sviluppo portate a sostegno del maggiore deficit, e debito pubblico, si sono miseramente afflosciati nella commissione del Senato che si occupa della conversione in legge del decreto che porta il nome di Genova per l’emergenza creatasi col cedimento del viadotto Morandi. Ma dove il vice presidente grillino del Consiglio, facendone quasi una questione personale di fiducia nel suo partito e fuori, ha insaccato un condono edilizio molto generoso per moltissime case della lontanissima Ischia, abusive e travolte non da un ponte crollatovi addosso ma dal terremoto.

           Di questo condono la senatrice berlusconiana Urania Giulia Rosina Papatheu, eletta in Sicilia, ha proposto non l’abolizione ma un ridimensionamento, una versione insomma meno generosa, con un emendamento approvato a sorpresa con 23 voti contro 22, nonostante la defezione di un parlamentare forzista che ha cercato di sostenere la traballante maggioranza gialloverde.

          Rolli.jpgA far pendere la bilancia contro il governo sono stati il voto del senatore grillino Gregorio De Falco a favore dell’emendamento e l’astensione della collega di gruppo Paola Nugnes, entrambi già sotto processo nel loro movimento per non avere voluto approvare, neppure col ricorso del governo alla fiducia, la conversione del decreto legge su immigrazione e sicurezza nell’aula di Palazzo Madama.

           Ora i due senatori grillini, soprattutto De Falco, rischiano l’espulsione dal movimento e dal relativo gruppo parlamentare. Per De Falco, noto come l’ufficiale che dalla Capitaneria di Porto di Livorno il 13 gennaio del 2012 ordinò perentoriamente, con una parolaccia, al comandante Francesco Schettino di risalire a bordo della nave Concordia abbandonata nel naufragio davanti all’isola del Giglio, si prospetta uno spettacolo alla rovescia. Qualcuno gli ordinerà probabilmente di scendere, con o senza la parolaccia rafforzativa, dal movimento col quale è approdato al Senato nelle elezioni del 4 marzo scorso.

          L’incidente occorso ai grillini e, più in generale, alla maggioranza gialloverde nella commissione Ambiente e Lavori Pubblici di Palazzo Madama, anche se dovesse essere superato in aula con un contro-emendamento, magari rafforzato col ricorso generale alla fiducia su tutto il provvedimento per evitarne peraltro il ritorno alla Camera, conferma ad un tempo le tensioni esistenti nel movimento delle 5 stelle e la precarietà numerica della combinazione  di governo al Senato: elementi o circostanze che potrebbero aggravarsi negli sviluppi  della situazione politica.  

 

 

Ripreso da www. startmag.it policymakermag.it

Meno male che ci sono i vignettisti sulle prime pagine dei giornali

           Non è la prima volta, e non sarà neppure l’ultima, che di una rassegna dei giornali mi aiutino a capire ciò che è accaduto nelle ultime 24 ore più le vignette che gli articoli. Onore a chi le fa. Ma anche chi nelle redazioni è magari tentato di dissentirne, ma le lascia ugualmente in pagina per semplici, banali ragioni di tempo, non sapendo come rimpiazzarle all’ultimo momento, quando di solito esse arrivano sul tavolo di chi deve decidere.

          Vauro Senesi è riuscito sul Fatto Quotidiano a rappresentare come meglio non si poteva la notizia rimbalzata per tutta la giornata sulle misteriose ragioni per le quali il presidente del Consiglio, peraltro in partenza per Palermo alle prese con un’altra grana come quella della Libia, non riusciva a riunire attorno allo stesso tavolo i due vice e altri interessati alla famosa lettera di risposta ai commissari europei. Che l’attendono per trasformare il loro dubbi  sui conti del bilancio italiano del 2019 in una procedura d’infrazione.

           Senesi non ha avuto bisogno di telefonare a nessuno, né di consultare carte e cartine, per attribuire a Luigi Di Maio e a Matteo Salvini parole di sfide e di schermo da affidare alla penna di un Conte che sembrava un redivivo Totò, con tutti quei punti e punti e virgola con cui separare invettive e quant’altro. Bravissimo.

          Rolli.jpgLo stesso ha fatto sul Secolo XIX Stefano Rolli immaginando i due vice presidenti del Consiglio ignari di dove fosse il loro presidente, occultatosi fra di loro con un berretto che poteva però farlo somigliare al ministro ormai più imbarazzato e imbarazzante del governo gialloverde per le tante parti in commedia, o in tragedia, secondo gusti e circostanze, impostegli dalla contrarietà del presidente della Repubblica all’esplosione di una crisi in questi frangenti. Parlo naturalmente del Ministro, anzi superministro dell’Economia Giovanni Tria.

           Felicissima è stata anche la traduzione nella vignetta di Nico Pillinini, sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno, degli insulti e minacce grilline a giornali e dintorni non allineati agli umori pentastellati, e della difesa della libertà di stampa assunta dal capo dello Stato alla prima occasione offertagli dalla sua agenda Gazzetta.jpgdi incontri, fra un viaggio e l’altro. Il problema dei grillini, in effetti, come ha rappresentato Pillininin con quella trasposizione di targhe, è di passare dall’Ordine dei Giornalisti all’Ordine ai Giornalisti, molti dei quali purtroppo ben disposti a eseguirli, magari per partecipare alle lotterie dei posti, o più banalmente a quella degli ospiti e degli indici di ascolto delle loro trasmissioni.

          Per una volta mi posso riconoscere nell’urticante editoriale dedicato dal direttore Alessandro Sallusti, sul Giornale della famiglia Berlusconi, all’ospitalità offerta da Massimo Giletti, davanti alle telecamere de la 7, al vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio per la puntata settimanale di una trasmissione che ora ho capito meglio perché si chiama, in negativo, “Non è l’arena”. Appunto, non è, almeno per Di Maio. 

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Tra le lenzuola, le paure e le allusioni di Di Maio, Salvini e Berlusconi

              Quegli eterni e simpatici goliardi del Foglio –simpatici specie quando riescono a liberarsi di una certa supponenza da  sapientoni, che li fa sentire più informati, più colti, più furbi ed anche più fortunati nella ricerca del mecenate di turno, necessario come il primo, che fu Silvio Berlusconi “di tendenza Veronica”, ad un giornale che voglia vivere bene, a prescindere dalle copie che riesce a mandare nelle edicole, e soprattutto a vendere- cominciano ad essere davvero insofferenti di fronte al protrarsi del matrimonio di convenienza politica fra Matteo Salvini e Luigi Di Magio. Schermata 2018-10-20 alle 06.42.58.jpgE al sospetto, la paura e quant’altro che da interesse, tanto da essere stato valutato e autorizzato a suo tempo dal socio elettorale del leader leghista in una cerimonia d’investitura in quel di Arcore, l’unione non sia diventata un po’ anche d’amore: un po’ secondo gli auspici murali della prima ora, dipinti a mezza strada fra la Camera e il Senato, coi due giovanotti, ancora aspiranti in quel momento al vicino Palazzo Chigi, abbracciati e allabbrati, come ho sentito dire una volta in gergo sconosciuto in una borgata romana.

               Consapevoli di quanto si siano complicate le cose dopo cinque mesi abbondanti di governo gialloverde, la brava e avvenente Annalisa Chirico, che Giuliano Ferrara si diverte a chiamare Chirichessa, immaginandola badessa e chissà cos’altro nella sua incontenibile e virtuosa fantasia, non è stata lasciata sola a esplorare la situazione e a prevedere come e quando si potrà contare sulla fine dell’esperimento. E così è venuta fuori un’articolessa, come si dice in  gergo più o meno professionale di un pezzo tanto lungo quanto presuntuoso, cui possono dire di avere a loro modo contribuito l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, il successore Mario Calabresi, il direttore della Stampa Maurizio Molinari, il direttore -credo- del Messaggero Virman Cusenza, il suo illustre editorialista Carlo Nordio, Angelo Panebianco e Antonio Polito del Corriere della Sera, il direttore del Tg de la 7 Enrico Mentana, il direttore editoriale di Libero Vittorio Feltri, Lucia Annunziata, il professore Luca Ricolfi e Carlo Bonomi, di Assolombarda. Se ne ho dimenticato qualcuno, chiede umilmente scusa.

                Ma più umilmente vi debbo confessare il risultato modesto di tanta e così affollata lettura. A parte un senso generale di fastidio, qualche volta anche di delusione e preoccupazione degli interessati per le condizioni del governo, mi è rimasto assai poco nelle meningi.

               Di forte e chiaro mi è risultato il sottinteso che, magari sbagliando, ho trovato nella grande vignetta che ha preceduto graficamente l’articolo e un po’ forse l’ha riassunto e vanificato. Alludo a quel Luigi Di Maio fuori campo, che forse in versione maschile della ex fidanzata di Salvini recentemente staccatasi fotograficamente da lui, rimprovera dal letto il ministro dell’interno di essersene andato “dopo avermi tolto tutto”. Alludo inoltre a Salvini, che si riveste, magari per correre da Berlusconi,  dicendogli: “Sai, Gigì, è la cosa che più mi piace dei noir. I protagonisti sanno quale sarà il proprio destino. Ciò nonostante vanno fino in fondo”.

            Salvini.jpg  Che cosa poi Salvini, una volta raggiuntolo, abbia potuto o voluto dire al suo vecchio e non ancora del tutto scaricato socio elettorale del centrodestra, appena lamentatosi del pericolo di una dittatura che correrebbe il Paese col governo gialloverde, non è neppure il caso di inventarselo perché è stato lo stesso leader legista, parlandone con i giornalisti, a liquidarlo come “un frustrato”. Gli credo, dopo tutti quei voti che Salvini, in sorpasso già da 4 marzo scorso, continua a  prendere a Forza Italia nei sondaggi e negli appuntamenti veri con le urne locali.

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Il tribunale assolve a Roma la sindaca Raggi e i grillini condannano i giornali

              L’assoluzione – per in quanto in primo grado- della sindaca grillina di Roma Virginia Raggi dall’accusa di falso ha colto così di sorpresa i vertici del suo partito, non a caso pronti a scaricarla sino ad un attimo prima applicandole in caso di condanna  il loro interdittivo codice etico, da averli fatti impazzire.

              “Hanno perso la testa”, ha titolato su Repubblica il direttore Mario Calabresi il suo commento alle reazioni dei vari Luigi Di Maio ed Alessandro Di Battista: tutti inviperiti non contro gli inquirenti che hanno portato a giudizio la sindaca ma contro i giornalisti che ne hanno raccontato la vicenda giudiziaria, purtroppo parte anche della sua vicenda politica e amministrativa.

             I giornalisti saranno pure quegli “sciacalli”, quei “prostituti” e quegli “avvoltoi con sembianze umane” apostrofati, per ultimo, dall’ex o dal ritrovato marito della sindaca di Roma. Gli editori “impuri”, che usano o sfruttano i giornali per investire la loro influenza in altri affari ben più consistenti, saranno pure quei malviventi ai quali il vice presidente grillino del Consiglio è tornato a proporsi di tagliere unghie, mani e quant’altro con una epocale “riforma” della stampa. Ma dovrebbe pur dire qualcosa ai rivoluzionari pentastellati la vignetta che ha dedicato alla vicenda Raggi sulla prima pagina un giornale insospettabile come Il Fatto Quotidiano dell’ancora più insospettabile Michele Travaglio, appena spesosi col solito editoriale sarcastico contro i critici dell’amministrazione grillina del Campidoglio.

            Riccardo Mannelli ha fatto dire ad una composta e soddisfatta sindaca Raggi appena assolta: “Visto? Io non ho fatto nulla..”. E le ha fatto rispondere “ecco, appunto” da una voce fuori campo non proprio soddisfatta, diciamo così, di quello che la signora non ha fatto per risparmiare ai romani lo stato a dir poco penoso cui è Fatto.jpgridotta la città dopo due anni, non due settimane o due mesi, di sua amministrazione, per quanto pesante sia stata -per carità- l’eredità lasciatale dai predecessori, compreso l’ultimo: l’immaginifico Ignazio Marino.

             Lo spirito, diciamo così, della vignetta di Mannelli si ritrova in fondo anche nel titolo di copertina scelto dal Fatto Quotidiano per rappresentare la situazione: “Raggi assolta e condannata a governare”. Condannata a governare significa che deve decidersi a farlo, per forza, visto che sinora non ha voluto o potuto farlo per una somma, diciamo così, di sfortunate coincidenze. Fra le quali metterei anche il fiato al collo che non ha certamente fatto mancare alla Raggi il suo movimento politico, silenzioso e forse anche compiaciuto di quei titoli degli odiatissimi giornali in cui la sindaca veniva rappresentata sotto il “commissariamento” dei suoi referenti. E non dico altro sui rapporti fra sindaca di Roma e partito appartenenza.

            sputasemntenze.jpgVorrei dire invece qualcosa agli “sputasentenze” del movimento grillino giustamente messi alla berlina dal manifesto per l’abitudine che hanno preso di processare i giornali, e di sentirsi vittime di una loro presunta persecuzione. Vorrei dire loro, abusando un po’ della scuola di Indro Montanelli frequentata in una decina d’anni di esperienza al suo fianco al Giornale, che la testa non si perde solo quando la si ha. C’è gente, come scrisse appunto Montanelli una volta commentando con uno dei suoi fulminanti corsivi controcorrente una sfuriata dell’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli in una riunione di corrente, che “riesce, diavolo, a perdere anche quello che non ha: la testa”.

            Temo che i grillini, e loro estimatori, la stiano perdendo, la testa che non hanno, anche adesso facendo spallucce ai trentamila senza tessere che hanno riempito la piazza più grande e famosa di Torino per protestare contro i no dei grillini alla Tav e, più in generale, a tutte le grandi opere infrastrutturali che fanno migliorare  un paese, o agli eventi che costituiscono altrettante occasioni di crescita.

          Torino.jpg Preceduti dai quarantamila scesi in piazza e per le strade, sempre di Torino, nel 1980 per liberare la Fiat dai picchettatori che la volevano bloccare inseguendo con i sindacati  modelli cervellotici e demagogici di sviluppo,  i trentamila torinesi di 38 anni dopo hanno mandato lo stesso segnale, insieme, di coraggio e di realismo. Li ha in qualche modo imitati a Milano il sindaco Giuseppe Sala mandando alla sua città d’origine, Avellino,  come a quel posto di grillina memoria,  il vice presidente del Consiglio Di Maio col progetto di imporre ai negozi la chiusura domenicale.

 

 

Ripreo  da http://www.startmag.it

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Il superministro settantenne dell’Economia è Tria di nome e di fatto

              Spinto nelle retrovie mediatiche dal maltempo e dal pasticciaccio brutto della prescrizione, che ha rischiato di far saltare il governo prima del compromesso che si è limitato a far saltare i nervi soprattutto ai grillini – spiazzati dal dubbio crescente che il rinvio rifilato loro dai leghisti per togliere ogni limite di tempo ai giudizi di secondo e terzo grado non sia al 2020 ma alle probabili calende greche della riforma del processo penale-  è tornato ben visibile sulle scene il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Ma vi è tornato alquanto malmesso per i rapporti nel frattempo peggiorati con i commissari europei che si occupano dei conti italiani, apparsi sempre meno credibili, adatti più all’apertura di una procedura d’infrazione che alla tolleranza reclamata dal governo gialloverde per via della scadenza ormai vicina degli organismi comunitari. Si marcia ormai verso le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, in programma a maggio dell’anno prossimo.

               Gli organismi comunitari, in verità, scadranno solo nell’autunno successivo, per cui potranno occuparsi anche del prossimo bilancio di questo governo gialloverde, o dell’altro che dovesse succedergli per il sopraggiungere di una crisi. Ma i cosiddetti sovranisti da quest’orecchio non vogliono sentire. Per loro nulla sarà come prima dopo il rinnovo del Parlamento di Strasburgo e ai commissari in uscita non resterà che attendere inoperosi i successori.

               Originariamente estraneo ai sovranisti, e perciò preferito a Paolo Savona dal Quirinale nella formazione dell’attuale governo guidato dal professore e “avvocato del popolo” Giuseppe Conte, il ministro dell’Economia vi si è affacciato solo in un secondo momento: in particolare, quando fu tentato dalle dimissioni per i conti che volevano imporgli appunto quei signori e, a sorpresa, ne fu scoraggiato dal presidente della Repubblica, non sapendo Sergio Mattarella come sostituirlo, e convinto che una crisi di governo avrebbe ancora più allarmato i mercati finanziari e fatto schizzare lo spread oltre i trecento punti ai quali si stava allora avvicinando.

              Rolli.jpgCostretto pertanto dal senso di responsabilità, e dalle altre cose che si dicono in simili circostanze, a lasciare nella partita del bilancio il ruolo di terzino, in difesa della porta dei vincoli europei, il professore si è avventurato nel ruolo di mediano. Ma neppure questo gli è bastato per guadagnarsi la fiducia dei sovranisti, per cui ha deciso di assumere, onorando d’altronde il suo stesso nome Tria, anche un terzo ruolo: quello dell’attaccante. Ciò lo ha appena portato ad accusare i commissari europei di volere imporre al governo italiano una manovra “suicida”, condannandolo a gestire non lo sviluppo perseguito con l’aumento del deficit ma la recessione. Di cui d’altronde si avvertono già i segni nei dati del terzo trimestre dell’anno, e primo del governo gialloverde.

            Così il ministro Tria ha scalato la prima pagina di Repubblica conquistandola con una vignetta dell’impertinente Francesco Tullio Altan. Che accentuandone le orecchie per renderlo più facilmente riconoscibile gli fa insegnare ai “ragazzi” che anche “la matematica è un’opinione”.

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

 

Il poema eroicomico della prescrizione scritto da Di Maio e Salvini

Provate a paragonare i leghisti e i grillini di questi giorni, impegnati col problema della prescrizione, ai bolognesi e modenesi del 1200 raccontati quattro secoli dopo da Alessandro Tassoni nel poema eroicomico della secchia rapita e troverete -con la dovuta fantasia naturalmente- assonanze divertenti.

Come i bolognesi dei tempi di Federico II, i leghisti hanno cominciato compiendo qualche fastidiosa scorribanda nel territorio dei grillini con i dubbi del potente sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti sulla fattibilità del cosiddetto reddito di cittadinanza.

I grillini, convinti di avere risolto tutto facendo inserire nel bilancio del 2019, e in deficit, più di sei miliardi di euro fra le proteste e le minacce europee di una procedura d’infrazione, non hanno gradito. E hanno invaso a loro volta il territorio dei leghisti. Dove, anziché abbeverarvisi, come nel poema del Tassoni, hanno preso a calci una secchia di legno appesa al pozzo del codice penale e contenente la prescrizione, cara -secondo loro- al partito di Matteo Salvini per i benefici ricavati sinora da corrotti, stupratori, assassini e ogni altra sorta di delinquenti frequentati elettoralmente, e imprudentemente, dall’attuale ministro dell’Interno e dai forzisti di Silvio Berlusconi. Dei quali i leghisti sono rimasti alleati a livello locale, anche dopo avere stipulato con i grillini il contratto del governo gialloverde in carica, presieduto da Giuseppe Conte. Ma dei quali, soprattutto, potrebbero tornare ad essere alleati anche alle prossime elezioni politiche.

Dopo avere preso a calci la secchia della prescrizione i grillini, come i modenesi del Medio Evo, se la sono portata come un trofeo nel loro territorio. Dove l’hanno caricata sulla diligenza di una legge contro la corruzione, chiamata enfaticamente “spazzacorrotti”, e ne hanno proposto lo sfondamento. Tale sarebbe infatti la prescrizione se fosse eliminata, come vogliono appunto i grillini, alla prima sentenza nei processi, lasciando senza alcuna scadenza i due successivi gradi di giudizio.

I bolognesi, cioè i leghisti, hanno reagito duramente accusando i grillini di avere scoperto anzitempo la bomba atomica, come l’avvocato Giulia Bongiorno, da qualche mese anche ministro della pubblica amministrazione con la spilla di Alberto da Giussano sul bavero della giacca, ha definito la soppressione della prescrizione proposta dal suo collega guardasigilli Alfonso Bonafede. E si sono perciò mossi minacciosamente sul territorio bolognese incontrando resistenze accanite.

Alla fine la rottura del contratto di governo-  richiamato da entrambe le parti, per la sua astuta genericità, a sostegno delle proprie tesi- e la conseguente crisi ministeriale, a sessione di bilancio, come si dice, appena aperta, sono state evitate con un caffellatte preso a Palazzo Chigi dai guerrieri. Che hanno trovato a sorpresa in meno di mezz’ora un accordo, o un compromesso, come preferite.

La secchia della prescrizione è rimasta nelle mani dei grillini, che possono tenersela sulla diligenza della legge contro la corruzione mettendole dentro un ordigno a tempo. Che la sventrerebbe entro il 31 dicembre del 2019, o il 1° gennaio del 2020, come ha preferito annunciare il soddisfattissimo ministro della Giustizia, smanioso di vedere finalmente in braghe di tela tutti gli aspiranti prescritti. Ma la secchia è stata sua volta appesa, sempre nella diligenza della legge sulla corruzione in viaggio tra i corridoi e le aule di commissione della Camera, per poi passare al Senato, a un gancio con la manina dell’avvocato Bongiorno.

Il gancio, un po’ simile a quello al quale è appesa a Modena nella Torre Ghirlandina la secchia immortalata dai versi del Tassoni,  altro non è che la riforma del processo penale propostasi nell’occasione dal governo. Che pensa di riuscire nell’anno o poco più che manca al 31 dicembre del 2019, o al 1° gennaio del 2020, a rimanere naturalmente al suo posto, a proporre e a farsi approvare dalle Camere un’apposita legge delega e a varare infine i decreti delegati. Che dovrebbero fare il miracolo di abolire la prescrizione e al tempo stesso garantire non dico i processi rapidi invocati dai leghisti, ma quanto meno la loro “durata ragionevole” garantita dalla Costituzione.

A interrompere, anzi a guastare le feste al solito improvvisate dai grillini, fra terraferma e barconi sul Tevere, quando ritengono di avere segnato un punto a loro favore nell’eterna partita contro avversari e anche alleati, sono arrivati i soliti giornalisti chiedendo al ministro Giulia Bongiorno sulla soglia del Senato, reduce proprio dal caffellatte a Palazzo Chigi, che cosa accadrà della prescrizione a 5 stelle se alla fine dell’anno prossimo la riforma del processo penale non avrà tagliato il traguardo. “Non se ne farà nulla”, ha risposto Bongiorno.

Informati di ciò che evidentemente nel caffellatte a Palazzo Chigi non avevano afferrato, o la Bongorno e Salvini magari non avranno loro spiegato bene, Di Maio e Bonafede sono rimasti basiti. E son tornati alla guerra contro i leghisti, come in quella lunghissima della secchia rapita, e del conte di Culagna, raccontata nel 1614 da Alessandro Tassoni .

Già insoddisfatto per conto suo della prescrizione di conio grillino, diversa da quella che lui vorrebbe troncare all’inizio delle indagini, ben prima del rinvio dell’imputato a giudizio, il buon Piercamillo Davigo ha dato un’ulteriore delusione ai suoi estimatori sotto le cinque stelle. In particolare, il neo-consigliere superiore della magistratura ha detto che gli effetti della riforma grillina della prescrizione si vedranno quando lui sarà già morto. E non è proprio un bell’augurio alla causa politica e giudiziaria di Di Maio, Bonafede e amici, considerando che Davigo ha solo 68 anni, compiuti da meno di un mese, e gode meritatamente -per carità- di ottima salute.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Il compromesso sulla prescrizione come la secchia rapita del Tassoni

             Ancora una volta dobbiamo al manifesto il titolo più felice sul compromesso raggiunto in meno di mezz’ora a Palazzo Chigi fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini sulla prescrizione, che pure li aveva portati ad un palmo dalla separazione politica e dalla caduta del governo gialloverde.

            “Prescritti sull’acqua”, ha titolato il giornale ancora dichiaratamente comunista, per fortuna sopravvissuto -grazie alla fantasia dei fondatori e successori- alla caduta del muro di Berlino e alle sue più o meno conseguenti crisi editoriali.

           Giannellijpg.jpg E’ proprio sull’acqua che galleggia il compromesso che i due vice presidenti del Consiglio hanno adottato con una formula escogitata, in particolare, dalla esperta di Salvini: l’avvocato di prim’ordine, prestata al governo come ministro della pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno. Che aveva liquidato, allarmatissima, come “una bomba atomica sui processi” la pretesa del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, peraltro avvocato pure lui, di usare la legge contro la corruzione all’esame della Camera per fermare la prescrizione in tutti i processi, e non solo quelli per corruzione, alla sentenza di primo grado, lasciando scorrere indefinitamente il tempo per i due gradi successivi.

           Rolli.jpg La Bongiorno, e Salvini, hanno concesso a Bonafede di continuare a viaggiare con le sue idee sul treno della cosiddetta legge spazzacorrotti, che riprenderà il suo cammino a Montecitorio il 19 novembre, dopo una pausa imposta da un quasi pugilato fra quanti se ne occupano in commissione, ma hanno assegnato al progetto del guardasigilli  una data nella quale potrà essere, a sua volta, prescritto: il 1° gennaio del 2020, se non si rivelerà strada facendo il 31 dicembre.

            Entro quelle date dovrà essere approvata una riforma della giustizia penale che garantisca naturalmente il principio ineludibile della “ragionevole durata” dei processi, Gazzetta.jpgentrato in Costituzione nel 1999 con la riscrittura dell’articolo 111, superato in lunghezza solo dall’articolo 117, a sua volta modificato nel 2012 per distribuire le competenze legislative fra lo Stato e le Regioni.

            Che cosa succederà se la riforma del processo penale, che si è deciso di affidare  al governo su delega del Parlamento, ancora da scrivere, da proporre al Parlamento e naturalmente da approvare, non sarà ancora pronta al 1° o al 31 dicembre del 2020 ? Di Maio, e credo anche Bonafede, è convinto che scatterà comunque la fine della prescrizione alla prima sentenza. La Bongiorno, intervistata davanti all’ingresso del Senato, lo ha escluso perché -ha spiegato- le due riforme sono tra loro “concatenate”. Davigo.jpgEd è un’opinione confermata da un altro, insospettabile esperto della materia: il sessantottennne consigliere superiore della magistratura Piercamillo Davigo, per qualche tempo corteggiato come possibile ministro della Giustizia dai grillini e tanto fiducioso nella fine della prescrizione pretesa e programmata da Bonafede, da avere dichiarato che ne vedrà gli effetti “da morto”. E lo ha detto certamente augurandosi lunga vita, com’è naturale che sia per uno che appare così in buona salute come Davigo.

             In questa situazione, nonostante l’entusiasmo dei grillini, notoriamente pronti a festeggiare in piazza e sui barconi, almeno sul Tevere, i successi annunciati dai loro dirigenti al governo, affacciati o no al balcone di Palazzo Chigi, non può meravigliare che il compromesso sulla prescrizione abbia scatenato la fantasia dei vignettisti. Ed evochi un po’ la secchia rapita dell’omonimo poema eroicomico del modenese Alessandro Tassoni, composto in prima stesura nel 1614 e pubblicato a Parigi otto anni dopo, nel 1622.

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Il pasticciaccio brutto della prescrizione procurato a Conte dall’amico Bonafede

             Chissà se in cuor suo, nell’intimo delle tentazioni inconfessabili, tra un selfie e l’altro strappatigli nel “transatlantico” di Montecitorio dalle deputate grilline dopo averlo ammirato in aula alla prova del “question time” d’importazione anglosassone, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrà ancora una volta invidiato l’amico Donald Trump, che lo chiama affettuosamente “Giuseppi” quando s’incontrano o si sentono al telefono. Una invidia doppia però, questa volta, perché il presidente degli Stati Uniti non solo ha superato lo scoglio sempre insidioso delle elezioni di medio termine, cioè di metà mandato, ma ha in qualche modo celebrato il sostanziale successo, nonostante i guadagni degli avversari alla Camera, licenziando lo scomodo ministro della Giustizia.

           Dio solo sa quanto sia diventato scomodo negli ultimi giorni a Conte il guardasigilli Alfonso Bonafede, cui però egli deve in fondo la sponsorizzazione e l’ approdo alla guida di un governo dove, negli originari progetti grillini, il professore di diritto e “avvocato del popolo”  era destinato solo a fare il ministro della pubblica amministrazione: quello che adesso fa ed è la leghista Giulia Bongiorno. La quale, guarda caso, è stata la più vigorosa all’interno del governo e della maggioranza a creare il caso Bonafede, contestandogli “la bomba atomica” lanciata sui processi con la proposta di fermare la prescrizione alla sentenza di primo grado, togliendo quindi ogni scadenza ai giudizi successivi.

           Formalmente, per colleganza di partito, gratitudine e quant’altro, Conte ha dovuto condividere la difesa di Bonafede fatta da Luigi Di Maio, contemporaneamente suo vice presidente del Consiglio e capo di partito, e fronteggiare quindi la difesa fatta, a sua volta, di Giulia Bongiorno dall’altro vice presidente del Consiglio e leader della Lega Matteo Salvini. In realtà, però, Conte sa benissimo, da presidente del Consiglio e da avvocato, che Bonafede si è messo nei guai, non foss’altro saltando sul treno legislativo sbagliato per introdurre la sua controriforma della prescrizione, dopo le modifiche apportatele dal predecessore Andrea Orlando, del Pd.  Che non a caso si è appena vantato dei tagli apportati alla prescrizione fra un giudizio e l’altro e ha accusato il successore  di stare facendo pasticci inenarrabili.

          Il primo di questi pasticci è proprio il salto sul treno sbagliato, o quanto meno assai controverso, della legge sulla lotta alla corruzione: tanto controverso che i tempi di esame in commissione, alla Camera, si sono praticamente bloccati perché l’ammissibilità dell’emendamento  voluto, ispirato e quant’altro da Bonafede ad una legge di contenuto diverso ha investito la giunta del regolamento di Montecitorio, e quindi il presidente stesso della Camera, che è il grillino Roberto Fico.

             Il secondo pasticcio è consistito nella sottovalutazione delle reazioni della magistratura, dove i no sono prevalsi subito e di molto sui sì: dal primo presidente della Cassazione al procuratore generale, dal presidente emerito della suprema Corte al presidente dell’associazione nazionale delle toghe, con un coro di dubbi e di veti cui risulta che non sia rimasto insensibile il capo dello Stato Sergio Mattarella. Alla cui firma alla fine la legge dovrà arrivare, col rischio di essere rimandata alle Camere se imbottita di cose dalla dubbia costituzionalità o copertura finanziaria.

            Il terzo, o quarto pasticcio, se si vuole considerare terzo quello dell’allarme sostanzialmente scattato al Quirinale, è la forza politica e logica con la quale, proprio a causa delle circostanze precedenti, Matteo Salvini ha riproposto l’esigenza di una generale riforma della giustizia, nella quale andrebbe affrontato il problema della prescrizione salvaguardando naturalmente il principio costituzionale della “ragionevole durata” dei processi. Che pertanto non possono diventare “eterni”, ha ammonito il leader della Lega.

            Rolli.jpgAprire tuttavia il vaso di Pandora della riforma della giustizia, comprensiva della separazione delle carriere, della responsabilità civile dei magistrati e altro ancora, potrebbe scatenare nel governo e nella maggioranza una tempesta più grande di quella fatta scoppiare da Bonafede sul terreno della prescrizione.  E, più in particolare, potrebbe provocare altre scosse nel movimento grillino, superiori a quelle emerse col voto palese di fiducia cui il governo ha dovuto ricorrere nell’approvazione del decreto legge sulla sicurezza che porta il nome di Salvini. Cinque senatori del movimento, uno per ciascuna delle stelle del movimento, come si è divertito a raffigurare nella sua vignetta Stefano Rolli sul Secolo XIX, hanno negato sino all’ultimo il loro voto, anche a costo di una espulsione che farebbe rivivere all’incontrario al comandante Gregorio De Falco, politicamente dissidente, l’avventura di quell’ordine da lui lanciato per telefono a Francesco Schettino di “risalire, cazzo” -scusate la parolaccia- sulla nave Concordia che aveva abbandonato nel naufragio all’isola del Giglio.  Il problema per il senatore De Falco sarebbe questa volta di scendere lui dal movimento, prima di esserne cacciato.

           Proprio il rimando alla riforma della giustizia ha consentito a Salvini di imporre alla fine a Bonafede un apparente compromesso, che disinnesca la bomba della modifica alla legge sulla corruzione subordinandone l’applicazione alla riforma, appunto, della giustizia penale, per la quale il governo si è dato un anno di tempo, se basterà. 

 

 

Ripreso da http://www.startnag.it

Ripreso da http://www.policymakermag.it

 

 

             

  

La partita sempre più aggrovigliata della prescrizione nel governo

            Neppure la soddisfazione espressa, a torto o a ragione, per i risultati delle elezioni americane di medio termine, e sostanziale pareggio, dal presidente Donald Trump, da cui viene cordialmente chiamato Giuseppi, ha sollevato Conte a Palazzo Chigi dall’angoscia che, alla guida del governo italiano, e a dispetto della serenità che ostenta pubblicamente, gli sta procurando l’ultima lite fra i grillini e i leghisti. Che è notoriamente scoppiata sul tema della prescrizione, dopo che il guardasigilli pentastellato Alfonso Bonafede ha cercato di farne introdurre la sostanziale abolizione con un emendamento dei suoi colleghi di partito alla legge “spazzacorrotti” in esame alla Camera.

            Questa volta è più nervoso del solito, pur con quegli “occhi placidi di cerbiatto” certificatigli da Bruno Vespa nel suo solito libro natalizio in uscita, anche il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio. Che, rientrato dalla Cina, non ha gradito l’indisponibilità ad un vertice immediato da parte dell’omologo Matteo Salvini, rientrato a sua volta dall’Africa ma interessato a chiudere prima la partita del “suo” decreto legge sulla sicurezza, giocata al Senato col calcio di rigore, chiamiamolo così, della votazione di fiducia. Cui si ricorre quando le acque sono agitate nella maggioranza e qualcuno -in questo caso sotto le cinque stelle- viene tentato di giocare sporco nelle votazioni a scrutinio segreto sugli emendamenti.

            Salvini in questi giorni è alle prese anche con la delusione sentimentale procuratagli con foto e versi diffusi in rete dalla ormai ex fidanzata Elisa Isoardi. Cui il ministro dell’Interno ha risposto, sempre in rete, e tra fiori, con un messaggio a tutto il pubblico, maschile ma soprattutto femminile, solidale con lui. “Notte amici, vado a letto sicuramente triste, ma sereno”, ha scritto il Matteo padano.  Sereno, però, prescrizione permettendo, per quanto si sia poi detto fiducioso in un  accordo, nonostante la fretta confermata dagli alleati di governo di passare dalla “ragionevole durata dei processi”, garantita dall’articolo 111 della Costituzione, ai “processi eterni”, come lo stesso Salvini li ha giustamente definiti dissentendo dalla controriforma propostasi dal guardasigilli. Che vuole togliere  ogni limite di tempo dopo la sentenza di primo grado per l’espletamento del secondo e terzo grado di giudizio.

            Eppure il  ministro della Giustizia Bonafede avrebbe il paradossale diritto di sentirsi più generoso o garantista -pensate un po’- di quei magistrati come Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo, per fortuna in dissenso da molti altri, che propongono di cestinare la prescrizione nel momento in cui il pubblico ministero comincia a indagare, o chiede il rinvio a giudizio, o l’ottiene.

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Ripreso da http://www.startmag.it

 

 

Matteo Salvini tra due fuochi, politici e sentimentali, ma il primo è più rischioso

            Per quanto si cerchi di mediare con incontri, telefonate, scambi di messaggini e altre diavolerie elettroniche, la mina della prescrizione nei processi sta procurando ai rapporti fra i due partiti di governo più danni persino dei temi economici. Che pure sembravano averli portati a un passo dalla crisi dopo i dubbi espressi, o ribaditi, dal sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti sulla fattibilità del cosiddetto reddito di cittadinanza, nonostante i fondi ad esso destinati nella legge di bilancio.

            Si ha la sensazione – a dispetto dei cinque anni di governo propostisi sino a qualche giorno da grillini e leghisti, sino a far rivolgere dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte a critici e avversari, nel recente comizio al Circo Massimo, l’invito a “rassegnarsi”- che i due partiti di governo stiano in realtà cercando il tema reciprocamente più vantaggioso su cui rompere prima o poi, forse senza neppure aspettare le elezioni europee della primavera prossima. Che erano invece apparse sino a qualche giorno fa un passaggio irrinunciabile per entrambi, interessati a misurare la loro forza nelle urne per decidere se proseguire o no la collaborazione, se e come cercare di condurre a termine la legislatura sino alla scadenza ordinaria del 2023, se e come affrontare l’anno prima di quella data una scadenza politica forse ancora più decisiva: quella del mandato presidenziale di Sergio Mattarella al Quirinale.

            Una rottura sul reddito di cittadinanza potrebbe fornire ai grillini il vantaggio di rivoltare contro i leghisti la rabbia dei cinque o sei milioni di elettori interessati alla promessa dei pentastellati, ma ai leghisti, già paghi dello spazio occupato sul versante della sicurezza e del contrasto alla immigrazione clandestina, il vantaggio di dimostrare al loro elettorato più produttivo e benestante del Nord di non avere assecondato il solito assistenzialismo.

            Il Fatto e la Lega.jpgUna rottura sulla sostanziale abolizione della prescrizione, proposta dai grillini al sopraggiungere della prima sentenza, sia di condanna sia di assoluzione, potrebbe consentire a questi ultimi di ripetere nei comizi elettorali l’accusa appena gridata sulla prima pagina del Fatto Quotidiano ai leghisti di volere aiutare gli imputati di stupro, truffa e spaccio di droga. Sarebbe oggettivamente una situazione scomoda per Salvini, dopo tutti i vantaggi acquisiti, con o senza la ruspa, su altri versanti della sicurezza. Lo sarebbe considerando anche la storia non proprio lineare della Lega sul fronte del garantismo, con la recente opposizione -per esempio- al ricorso ai riti abbreviati per accelerare i processi o con quel cappio sventolato nell’aula di Montecitorio all’epoca di “Mani pulite” per destinare alla forca gli indagati, peraltro neppure rinviati ancora a giudizio, per finanziamento illegale della politica e per connessa o annessa, ma sempre presunta, corruzione e concussione.

            Lo scontro – a questo punto davvero cercato-  con la Lega sul terreno dei processi, e del conseguente aggiramento della garanzia costituzionale della loro “ragionevole durata”, ha assunto toni e aspetti provocatori su un piano solo apparentemente formale. E’ accaduto quando i grillini hanno praticamente deriso l’obbiezione di Matteo Salvini in persona che non si potesse e non si possa  pensare di intervenire sulla prescrizione in generale   infilando una modifica in una legge circoscritta alla corruzione. E chiamata enfaticamente “spazzacorrotti” dai pentastellati.

            La derisione si è materializzata allorché i grillini hanno ritirato nella competente commissione della Camera il loro emendamento per ripresentarlo cambiando anche il titolo della legge. Cui potrà così aggiungersi la prescrizione alla corruzione di cui trattano tutti i suoi dodici articoli: una specie di beffa che ha avuto, peraltro, l’inconveniente di raggiungere Salvini nelle stesse ore in cui la messaggio isoardi.jpgsua ormai ex fidanzata Elisa Isoardi comunicava per Instagram, con una foto di entrambi a letto, la fine della loro storia di “amore vero”. Probabilmente più vero di quel matrimonio d’interesse, con tanto di “contratto”, ormai agli sgoccioli anch’esso forse, fra i due partiti del governo gialloverde. 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Ripreso da http://www.startmag.it

 

Blog su WordPress.com.

Su ↑