Lo spettacolo inedito, e in diretta televisiva, di un aborto di legislatura

            Quei militari schierati nella Loggia delle Vetrate, al Quirinale, sullo sfondo del capo dello Stato impegnato ad esporre le sue riflessioni sugli sbocchi della lunga crisi di governo gestita per più di sessanta giorni, erano francamente di troppo. Essi avrebbero dovuto dismettere le divise per indossare camici da medici o infermieri. Lo spettacolo in corso, inedito nella lunga storia della Repubblica, era quello dell’aborto, in diretta  televisiva, della legislatura concepita dagli elettori nelle urne del 4 marzo.

            La diciottesima legislatura ha avuto la forza di produrre solo i suoi vertici parlamentari, in una logica spartitoria improvvisata dai presunti “vincitori” delle elezioni, i grillini a sinistra e i leghisti a destra, ma nulla di più. Non certo un governo in quel perimetro politico, o in un altro ugualmente politico, con i leghisti sostituiti dal Pd. Pertanto il capo dello Stato, passando dal massimo della pazienza al massimo dell’impazienza, ha deciso di fare di testa sua, usando le prerogative costituzionali al massimo dell’espansione di quella fisarmonica alla quale i tecnici sono soliti paragonare il polmone politico del presidente della Repubblica.

            Piuttosto che imboccare la strada delle elezioni anticipate col governo dimissionario di Paolo Gentiloni, forse perché lo stesso Gentiloni potrebbe diventare nel suo partito il candidato ufficiale alla presidenza del Consiglio nella campagna elettorale, Mattarella ha deciso di costituire un governo del tutto nuovo e inedito, come lo spettacolo dell’aborto della legislatura in diretta televisiva. E’ il governo che lui ha voluto definire “neutrale”, pensando di potere garantire questa neutralità con una particolarissima regola di ingaggio, diciamo così, del presidente del Consiglio e dei ministri: ai quali, scegliendoli personalmente uno ad uno, chiederà l’impegno a non candidarsi in alcun modo alle elezioni. Come invece fece con i suoi tecnici, veri o presunti, Mario Monti nel 2013 sorprendendo l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che pure l’aveva nominato preventivamente senatore a vita proprio per metterlo al riparo da una tentazione del genere. E non solo per garantirgli un minimo di immunità parlamentare in uno scenario giudiziario come quello italiano, in cui il primo pretorino d’assalto può abbattere come un birillo anche un capo di governo.

            Un governo “neutrale” è un po’ un ossimoro, perché esso è necessariamente parte, non tutto, in un sistema parlamentare quale ancora è il nostro. Deciso  dal capo dello Stato al termine, o nel mezzo, di una lunga crisi sfuggita anche alle esplorazioni dei presidenti delle Camere, un governo del genere potrebbe essere chiamato “di cortesia” nei riguardi dello stesso presidente della Repubblica. Una cortesia chiesta naturalmente dal capo dello Stato mandando il Gabinetto ministeriale in Parlamento per il passaggio obbligatorio della fiducia. Mancando la quale, però, il governo diventa automaticamente di “scortesia” al presidente della Repubblica, come già si delinea, prima ancora di essere formato, vista la maggioranza dei no annunciata da leghisti e grillini.

            D’altronde, e curiosamente, lo stesso Mattarella nel momento di annunciare il “suo” governo ne conosceva la sorte. Presentato come una forma provvisoria, immaginata a sua volta con scadenza a fine anno per votare nella primavera del 2019, ma liquidabile al primo comparire di una maggioranza politica finalmente raggiunta fra i partiti rappresentati in Parlamento, il governo “neutrale” dovrebbe automaticamente dimettersi se ottenesse la fiducia, che è di per sé una fiducia politica, per quanti altri aggettivi gli specialisti di turno possano coniare.

            Ora che sembra prevalso quello che l’indimenticabile Giovanni Sartori definiva sarcasticamente “il rivotismo”, la presunzione cioè di risolvere i problemi  della cosiddetta governabilità, anche di sistema, rimandando gli italiani alle urne prima delle scadenze ordinarie, e per giunta adottando ogni volta una legge elettorale diversa, la cosa che sembra interessare di più è la data del voto. A luglio, in piena estate, come reclamano insieme leghisti e grillini? In autunno, come raccomanda Berlusconi? Nella primavera dell’anno prossimo, come preferirebbe Mattarella? Speriamo che nella foga delle polemiche, e degli interessi di parte, nessuno dimentichi che la scelta della data delle elezioni spetta per legge al Consiglio dei Ministri, cioè al governo “neutrale” che Mattarella si è proposto di formare. E alla cui deliberazione quindi lui per primo sarebbe obbligato con la controfirma del relativo decreto, a meno di un clamoroso dissenso.

 

 

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Ma perché a Mattarella non piace più una tregua affidata a Gentiloni ? Misteri del Colle

            Chi ha visto il presidente del Consiglio dimissionario ma pur sempre disponibile Paolo Gentiloni nel salotto televisivo di Fabio Fazio, al posto rumorosamente lasciato la domenica prima da Matteo Renzi abbassando la saracinesca ad un’intesa di governo col Pd, si sarà chiesto perché mai il capo dello Stato sia tentato da un governo di tregua, a tempo e quant’altro diverso da quello di cui già dispone così comodamente. E che è quello appunto uscente, al quale i grillini, ormai rassegnati alla rinuncia a Palazzo Chigi dopo due mesi e più di tentativi falliti di conquistarlo, avevano appena annunciato con una intervista televisiva di Luigi Di Maio di essere disposti a concedere una proroga per gli adempimenti economici più urgenti, in attesa di votare in autunno.

            Perché, appunto, il capo dello Stato sembra essersi incaponito, come ha lasciato capire l’insospettabile quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, per allestire un altro governo di tregua, di qualche mese forse più lunga, riempiendo i suoi cassetti di curricula per “una serie di nomi adatti, uomini e donne, ai Ministeri chiave”, come ha scritto lo stesso Breda? Perché mai “la scettica attesa” sul Colle, sempre per restare alle parole del quirinalista del Corriere, si è estesa anche a carico del governo Gentiloni, abituato a maneggiare i dossier che altri dovrebbero cominciare a studiare pensando alle scadenze più vicine e urgenti, a livello interno e internazionale? E non solo a carico di quel governo concordato fra grillini e leghisti che l’ormai ex aspirante pentastellato a Palazzo Chigi ha offerto al Carroccio purché si decida a rompere con Silvio Berlusconi. Che naturalmente non ha nessuna voglia di farsi scaricare dall’alleato leghista, per quante vaschette di gelato sembra abbia preso l’abitudine di portargli negli appuntamenti ad Arcore o a Palazzo Grazioli il segretario della Lega, conoscendone la golosità.

            A questo punto, salvo collassi finali del Cavaliere o una riedizione fuori stagione delle idi di marzo, con Salvini deciso come Bruto a pugnalare il suo Cesare, l’ostinazione di Mattarella, o degli “intimi”, come altre volta sono stati definiti i suoi consiglieri sulle colle più alto di Roma, per un governo del Presidente tutto suo, dall’a alla zeta, da prendere o lasciare da parte delle Camere, anche a costo di votare con gli italiani ancora in ferie, avrebbe bisogno di una spiegazione trasparente. Ma soprattutto convincente:  più del silenzio opposto, almeno sinora, alle ricorrenti e inquietanti voci che hanno attribuito al capo dello Stato una preferenza per l’intesa di governo fra grillini e Pd intravista come esploratore a suo tempo, ormai, dal presidente della Camera Roberto Fico.

Col fiato sospeso, fra il Quirinale e Arcore, all’ultima curva della crisi

            Sono almeno in due a vivere con una certa ansia la vigilia dell’ultimo giro di consultazioni organizzato al Quirinale dal presidente della Repubblica per cercare di togliere dallo “stallo” la crisi di governo.

             Uno è lo stesso presidente Sergio Mattarella, che si è ormai fatta l’idea della personalità da chiamare per affidargli la guida di un governo di tregua, di decantazione e quant’altro, col decreto di scioglimento delle Camere in tasca, come si dice in gergo tecnico. Con ciò lasciando alle stesse Camere il diritto di scegliere la data del loro decesso: se già in estate, negando la fiducia, perché gli italiani rivotino in autunno, o alla fine dell’anno, dopo l’approvazione della nuova legge di bilancio, perché gli italiani possano votare nella primavera del 2019, magari anche con una nuova legge elettorale: l’ennesima dal 1993, quando si uscì dal sistema proporzionale della cosiddetta prima Repubblica.

            Il presidente della Repubblica è stato informato per le vie brevi dai suoi consiglieri che Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno ripreso i contatti per tentare un’intesa anch’essi su una tregua, ma concordata soprattutto fra di loro, non imposta dal Quirinale, sempre a sbocco elettorale più o meno ravvicinato.

            Comprensibile è l’ansia di Mattarella. Che, avendo visto le macerie, o quasi, prodotte da quei due più o meno insieme nei 60 giorni e più trascorsi dalle elezioni del 4 marzo, tra aperture finte e vere, negoziati a mezzo stampa o consiglieri, minacce e insulti, diffida molto della loro capacità di concepire una proposta realistica e praticabile, attorno a un nome “terzo” da essi stessi concordato per Palazzo Chigi.

            Altrettanto comprensibile è l’ansia di Silvio Berlusconi, che si sarà riconosciuto nella impietosa vignetta sulla prima pagina del Secolo XIX, in cui lui è pronto per la cottura nel “forno” riaperto da Salvini: l’alleato di cui il Cavaliere ha visto crescere ulteriormente la forza nelle elezioni regionali successive al 4 marzo, e che sente e vede aggirarsi per casa sempre più minacciosamente. Rompe o non rompe?, si chiederà l’ex presidente del Consiglio a proposito del segretario leghista dopo avergli dato l’appuntamento preparatorio dell’incontro che le delegazioni del centrodestra avranno unitariamente domani con Mattarella, all’uscita della delegazione grillina sulla loggia delle Vetrate? Mah, vai a capirlo o prevederlo?

            Ma l’ansia del Cavaliere riguarda da almeno 24 ore anche gli umori e i retropensieri del capo dello Stato, nei cui riguardi è cessata non a caso l’attesa fiduciosa del Giornale  di famiglia dello stesso Cavaliere. Il cui direttore, Alessandro Sallusti, ha appena scritto: “O Mattarella si arrende all’idea di affidare al centrodestra il tentativo di formare una maggioranza, oppure saranno affari suoi uscire dallo stallo”. E, rivolto a Salvini scomodando addirittura la seconda guerra mondiale, ha aggiunto: “O si marcia uniti, come fecero gli alleati lasciando da parte invidie e gelosie, oppure si perderà tutti (meno Mattarella e Di Maio, sai che soddisfazione)”.

Il timore, anzi l’incubo di una convergenza fra Mattarella e Di Maio si deve essere affacciato ad Arcore e dintorni già nei pur pochi giorni in cui è rimasta sul tappeto l’ipotesi di una trattativa di governo fra grillini e Pd, sostenuta dagli antirenziani con la necessità presunta, e non smentita al Quirinale, di assecondare l’attesa o la fiducia del presidente della Repubblica. Per cui quel guastafeste di Renzi è stato accusato di essersi messo di traverso anche al capo dello Stato.

           Breda su Mattarella.jpgPoi deve essere stato avvertito anche ad Arcore come un macigno una specie di messaggio, diciamo così, arrivato dagli “intimi” del presidente della Repubblica, come li ha chiamati il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda riferendone così le riflessioni sulle pesanti perdite subite domenica scorsa dai grillini in Friuli-Venezia Giulia rispetto al risultato del 4 marzo, e a tutto vantaggio del centrodestra, dei leghisti in particolare: “Che cosa significa il forte calo dei 5 stelle? Che in questa fase chiunque si spende per governare, come appunto i 5 stelle, è penalizzato dal corpo elettorale?”, e via discorrendo ancora per lamentare la cattiva sorte riservata alla presunta moderazione governativa di Di Maio e amici.             

            Bisogna riconoscere che una simile lettura dei risultati elettorali in Friuli-Venezia Giulia tradisce un po’ troppa fiducia nei grillini da parte degli “intimi” -ripeto- del Quirinale, cioè del presidente della Repubblica, si spera a completa insaputa dello stesso presidente.  Al quale tuttavia Eugenio Scalfari ha appena proposto di pensare, per la guida del governo di tregua, al presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky: l’unico, secondo lui, in grado di guadagnarsi il rispetto e la fiducia, o l’astensione, dei grillini.

Che ne direste di Roberto Maroni per il governo di tregua in arrivo ?

            Il governo di tregua, di attesa, di decantazione o comunque si finirà per chiamare quello che è maturato nelle riflessioni del presidente della Repubblica, dopo più di due mesi dalle elezioni che avevano terremotato il 4 marzo il panorama politico e montato troppo la testa soprattutto ai grillini, convinti di avere ormai conquistato Palazzo Chigi come la Bastiglia per il loro Luigi Di Maio, è ormai appeso solo agli ultimi umori di Matteo Salvini.

            Il segretario leghista, nuovo leader del centrodestra rassegnatamente riconosciuto, tra un’insofferenza e l’altra, da un Silvio Berlusconi in edizione concava, specie dopo l’exploit friulano del Carroccio a fine aprile, finge di cercare ancora un’intesa col movimento delle 5 stelle, questa volta anche per un governo di decantazione. Ma, appunto, finge, non di più, forse per togliersi il gusto di vedere friggere Di Maio nel poco, pochissimo olio rimastogli nel tegame.

            In realtà, Salvini cerca di trattare sino all’ultimo momento, cioè sino al giro delle consultazioni al Quirinale fissato per lunedì, la fisionomia precisa del governo d’attesa al quale sa che non potrà rifiutare l’appoggio senza rompere questa volta davvero con Berlusconi. Che, per quanto indebolito, gli è pur sempre utile per portare avanti e consolidare del tutto la trazione leghista del centrodestra, e i sommovimenti che potrebbero derivarne altrove.

            L’idea di un governo d’attesa, o simile, affidato ad una personalità estranea alla politica, esperta più di economia che di partiti, di caratura sostanzialmente tecnica, è troppo lontana dall’immagine che Salvini ha voluto dare al “suo” centrodestra. Egli preferirebbe una soluzione più politica, appunto: non un economista, non un professore, anche se non un parlamentare, un “non eletto”, ha detto testualmente ai suoi amici di partito, e poi anche fuori dal partito.

            E chi potrebbe essere questo “non eletto” da consigliare, sussurrare, proporre all’ormai impaziente presidente della Repubblica, che era disposto a tirarla per le lunghe con la crisi ma non così tanto da fare uscire il Paese, che pur lui è chiamato a rappresentare dalla Costituzione, fuori da ogni scenario? Vi dice nulla il nome o la figura ormai inconfondibile di Roberto Maroni, Bobo per gli amici ?

             Da qualche settimana egli è una specie di disoccupato di lusso della politica, avendo voluto rinunciare spontaneamente a ricandidarsi alla guida della regione Lombardia e meno spontaneamente, in verità, a candidarsi per un ritorno in Parlamento, come ai tempi in cui gli riuscì di fare con Berlusconi il ministro dell’Interno e poi del Lavoro, e di nuovo dell’Interno, lasciandovi un buon ricordo di ordine ed efficienza. Lui, poi, che con l’ordine aveva avuto in gioventù qualche problema, trascorrendo le notti in auto col suo amico Umberto Bossi per andare ad imbrattare i ponti stradali e autostradali di vernice nera con cui scrivere slogan nordisti o antimeridionalisti, tipo “Forza Etna”.

             Fu proprio per un secchio di vernice rovesciato da Bossi nell’auto di Maroni, sfuggendo entrambi all’inseguimento di alcune guardie, che si rafforzò fra i due un sodalizio resistito poi a tutto: anche al tentativo opposto alla fine del 1994 da Maroni alla clamorosa decisione presa da Bossi con l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro di rovesciare il primo governo del Cavaliere. Dove già Maroni aveva compiuto l’imprudenza, agli occhi di Bossi, di condividere un decreto legge contro le manette facili degli anni di “Mani pulite”: un decreto già firmato dal capo dello Stato ma letteralmente abbattuto dalla rivolta pubblica del capo della Procura di Milano e dei suoi sostituti.

             Maroni non può proprio considerarsi un convinto sostenitore della linea politica impressa alla Lega e al centrodestra da Salvini, che lo ha sempre sospettato di avere un rapporto troppo privilegiato e personale con Berlusconi. Ma l’ex ministro è per sempre rimasto un leghista, amatissimo dal suo “popolo”, stimato anche fuori dal suo partito, e non solo nell’area del centrodestra. Salvini, cresciuto nel frattempo di suo il 4 marzo e dopo, non ha proprio motivi per temere una “riserva” leghista del genere. Che sembra fatta anzi su misura per guidare un governo di decantazione sostenuto dalla Lega. Resta solo da convincere naturalmente il presidente della Repubblica…

Il Pd è passato dalla resa dei conti alla resa del reggente Martina

            Doveva essere la resa dei conti, secondo le previsioni o le speranze degli avversari di Matteo Renzi, e dei sostenitori di un’intesa di governo con le 5 stelle. Ma la riunione della direzione del Pd si è risolta nella resa del segretario reggente, Maurizio Martina, e di quanti lo avevano spinto verso la trattativa con i grillini. Che pertanto non si aprirà neppure, per cui il presidente della Repubblica ha convocato per lunedì prossimo al Quirinale tutti i partiti per un terzo e ultimo giro di consultazioni dall’esito ormai scontato.

            Sergio Mattarella ha  maturato la convinzione di promuovere la formazione di un governo di attesa o di tregua per gli adempimenti più urgenti, specie di natura economica, diverso da quello ereditato dalla scorsa legislatura e presieduto da Paolo Gentiloni. Toccherà ai partiti decidere quanto farlo durare: se fino all’autunno, per le elezioni anticipate reclamate a gran voce dai cosiddetti vincitori del 4 marzo, cioè grillini e leghisti, o fino alla primavera dell’anno prossimo, quando vi sarà forse il tempo per cambiare anche la legge elettorale. O ancora più avanti, se verrà anche ad altri, e non solo a Renzi, la voglia o la tentazione di rimettere mano alla Costituzione, trovandoci da tempo in una crisi di sistema da cui non si potrà uscire solo cambiando la legge elettorale ogni volta che si  vota.

            Chi vorrà le elezioni già in autunno dovrà assumersi la responsabilità anche di destinare il Paese al cosiddetto esercizio provvisorio, diventando assai problematica l’approvazione di una nuova legge di bilancio entro la fine dell’anno, e di fare scattare un aumento dell’Iva inserito da tempo nei conti italiani come una specie di bomba ad orologeria.

            I più delusi, irritati e minacciosi per la piega presa dalla crisi di governo dopo due mesi e più dalle elezioni sono i grillini e i loro fiancheggiatori politici e mediatici, che avevano visto nel Pd, uscito assai malconcio dalle urne, la vittima ideale fingendo invece di volerlo salvare: loro, poi, che si erano spesi contro l’allora partito di maggioranza per tutta la scorsa legislatura.  Avrebbe dovuto essere il Pd, in particolare, a consentire la partenza di un governo a 5 stelle, saltandovi anche dentro con qualche ministro inevitabilmente di copertura, vista la sproporzione di forza parlamentare fra i due firmatari dell’eventuale “contratto”.

             Il Fattojpg.jpgIl titolo di giornale più emblematico della delusione e dell’irritazione del mondo politico a 5 stelle è quello del Fatto Quotidiano. Che se la prende con la “resa ai piedi Renzi” di “Martina & C”. E riferisce di un “Mattarella furioso”, non però per i due mesi trascorsi inutilmente dalle elezioni ma per la mancata intesa fra 5 stelle e Pd, come se lui avesse perorato una simile soluzione della crisi. E non si fosse invece limitato ad aspettare un negoziato intravisto in veste da esploratore dal presidente della Camera Roberto Fico. Col quale Martina si era spinto di suo, sopravvalutandosi, o sottovalutando la forza della resistenza di Renzi, non per rispondere a richieste o attese del capo dello Stato.

            Su questo aspetto della tortuosa vicenda della lunga crisi di governo si continua forse a pasticciare un po’ troppo, anche a costo di compromettere l’immagine  del presidente della Repubblica. Che naturalmente deciderà, a questo punto, solo lui se e come intervenire per chiarire il suo ruolo, e magari non lasciarlo ancora deformare da qualche retroscenista più o meno interessato.

 

 

 

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Salvini e Di Maio, o viceversa: dal corteggiamento alle querele….

            Quei due Luigi Di Maio e Matteo Salvini- non ce l’hanno mai raccontata giusta, diciamo la verità. Neppure quando davano rapidamente le carte, all’apertura della diciottesima legislatura, per distribuire presidenze, vice presidenze e quant’altro nelle nuove Camere. O quando promettevano, tendendosi però sempre ad una certa distanza fisica, mai incontrandosi davanti ad uno straccio di fotografo, che insieme avrebbero fatto “grandi cose”.

            Non deve stupire più di tanto, perciò, se dopo due mesi di manfrine, di mosse e contromosse, di finte e simili, i due siano ai materassi: l’uno accusando l’altro di averlo praticamente imbrogliato e portando la fine la mano sulla pistola del solito annuncio di una querela. Come ha appena fatto Salvini, accusato da Di Maio di essere al soldo di Silvio Berlusconi a tal punto da non potersi permettere un’altra campagna elettorale, per quanto la reclami o la minacci pure lui come sbocco di una crisi ormai ben al di sotto dello stallo denunciato dal presidente della Repubblica.

            Solo lo spettacolo del Pd, paralizzato dai soliti contrasti interni, e dalla capacità delle sue correnti di moltiplicarsi quanto meno voti prendano, tiene un po’ testa a quello dello scontro esploso fra grillini e leghisti. Che un po’ tutti scambiammo forse troppo frettolosamente il 4 marzo scorso per i vincitori delle elezioni: gli uni per avere preso da soli il 32 per cento dei voti e gli altri per avere sorpassato nella coalizione di centrodestra il partito del Cavaliere guadagnandosi la leadership dell’alleanza, ulteriormente rafforzata nelle elezioni regionali friulane di fine aprile.

            Ho una certa esperienza di amori politicamente e culturalmente vacui, durati lo spazio solo di qualche mese, per averli già raccontati e persino vissuti per i rapporti personali che avevo con i protagonisti.

            Aldo Moro e Paolo Taviani, per esempio, sembravano diventati nel 1967 nella Dc la coppia dei nuovi equilibri politici: l’uno difendendosi a Palazzo Chigi dall’assedio dei “dorotei” di Mariano Rumor e l’altro, potente ministro dell’Interno, fondando una correntina di “pontieri” da fare intervenire a tempo debito a favore del presidente del Consiglio. Che invece al momento giusto se li trovò contro, da essi scacciato all’opposizione interna. Moro li tacciò al congresso di “operoso silenzio” contro di lui. Dieci anni dopo i due ancora polemizzavano tra di loro: l’uno, ormai prigioniero delle brigate rosse, che reclamava la testimonianza di Taviani, scrivendo a Cossiga, sulla strada di un negoziato per liberare ostaggi in occasione di sequestri, e l’altro che lo smentiva.

            Nel 1983 lasciai Il Giornale di Indro Montanelli anche a causa di una simpatia politica, ed anche umana, improvvisamente esplosa tra lo stesso Montanelli e l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che era riuscito a rendere il mio allora direttore ancora più diffidente di quanto già non fosse per ragioni di carattere verso Bettino Craxi.

            Dopo che me ne andai dal Giornale in buona compagnia, quella di Enzo Bettiza, mi consolai vedendo arrivare Craxi a Palazzo Chigi grazie all’intesa con un De Mita dimagrito di voti nelle urne, e poi vedendo De Mita querelare Montanelli per essersi sentito dare da lui del camorrista.

            Gli amori quindi in politica sono sempre stati quelli che sono, cioè precari. Salvini e Di Maio, e viceversa, lo confermano, se mai è stato davvero amore quello un po’ clandestino, senza mai un incontro diretto fra di loro, raccontato per due mesi dalle cronache e retroscena dei giornali.

            Ci vorrà ben altro, a questo punto, per togliere la crisi di governo dallo stallo e per ricaricare non so se più la fantasia o la pazienza del presidente della Repubblica. Che, scampato per ragioni tecniche al rischio di elezioni anticipate già a fine giugno, penserà  al Parlamento nei prossimi mesi  con fondata preoccupazione recitando al futuro le famose rime di Giuseppe Ungaretti: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Si starà come d’autunno…..

Gli inutili tentativi di Matteo Renzi di sfuggire al fantasma di Bettino Craxi

Ahi, anche Marco Travaglio comincia a perdere colpi e fantasia. Quel “bollito alla fiorentina” che il direttore del Fatto Quotidiano ha servito ai lettori dopo avere cucinato a modo suo Matteo Renzi, contrario a un governo salvifico fra il movimento delle 5 stelle e il Pd, è troppo seduto e scontato. Volete mettere la vivacità e il sapore della “trippa alla Bettino”, inventata e servita alle mense delle gloriose feste dell’Unita’ ? Dove Craxi se lo volevano mangiare vivo per avere aiutato la Dc, dopo la stagione della “solidarietà nazionale”, a fare a meno dei comunisti ed essersi messo in testa, non contento di questo, di inseguirli elettoralmente.

Non c’è proprio niente da fare. Renzi anche nel livore di cucina è inseguito dal fantasma del leader socialista, per quanto si sforzi di esorcizzarlo e non gradisca paragoni con Craxi, pur a costo di villanie alla memoria.

Anche il ritorno al cosiddetto governo delle regole, prospettato dall’ex segretario del Pd in alternativa a quello asfittico con i grillini perseguito da altri nel suo partito, riporta Renzi sulla strada della riforma costituzionale naufragata nel referendum del 4 dicembre 2006. Che a sua volta era stata un po’ la rivisitazione della “grande riforma” proposta inutilmente da Craxi nel 1979, seminando uguale paura fra democristiani e comunisti.

Quanti anni sono passati dal 1979? Non oso neppure contarli. Non ho l’età e il fiato di Luigi Di Maio, che dal 4 marzo sta ricontando uno per uno, come coriandoli, i quasi undici milioni di voti raccolti dal suo partito e non riesce a capire perché mai egli non sia già a Palazzo Chigi. Nè si rassegna all’idea che non sia più destinato ad arrivarci, essendosi l’obiettivo allontanato, e non avvicinato.

Neppure Renzi tuttavia vuole rassegnarsi all’idea di riconoscere finalmente che lui non si è in fondo inventato nulla che non fosse già stato scoperto e tentato dall’unico che lo ha preceduto a sinistra sulla strada dell’ammodernamento istituzionale. Gli converrebbe pertanto non più fuggire dal fantasma di Craxi ma adottarlo realisticamente, e riprendere il progetto di una sinistra moderna dove l’altro fu costretto a interromperlo.

Ciò significa che Renzi dovrebbe ridisegnare confini e contenuti della sinistra ancora più decisamente e coraggiosamente di quanto non abbia già fatto o tentato, senza farsi altre, soverchie illusioni. Tanto, i suoi vecchi e nuovi avversari non gli faranno sconti, nè a tavola nè altrove.

Fuori da ogni allusione o metafora, e anche a costo di procurarmi una lavatina di testa dal mio amico Emanuele Macaluso, se c’è qualcuno che ancora lo sfida più o meno sarcasticamente a ritirare le dimissioni da segretario e a riprendersi davvero il partito, credo che Renzi debba starci. Debba cioè assumersi di nuovo e in pieno le sue responsabilità, che non sono mai state dopo le elezioni quelle di un semplice senatore di Firenze, o Scandicci. E chiamare gli altri ad assumersi le loro, per esempio proponendo un’intesa a tutti i costi con i grillini  senza coprirsi dietro una presunta attesa del capo dello Stato. Di una cui “tela” in questa direzione ha sorprendentemente scritto su Repubblica il pur solitamente cauto Stefano Folli lamentando il danno procuratole da Renzi. Beh, a me questa storia non risulta.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Dalla “trippa alla Bettino” al “bollito alla fiorentina”, come cambia il menù a sinistra

            Un governo contrattato -adesso si dice così- fra Di Maio e il Pd si è soltanto intravisto nei titoli avveniristici dei giornali e nelle previsioni ottimistiche del meteorologo di turno, magari in tenuta di esploratore. Eppure le cronache sono già affollate di orfani. Che ne piangono la morte, o la mancata contrattazione, e gridano al grande complotto di cui sarebbero rimasti vittime. Il complotto del solito o dei soliti, secondo gusti e casi.

            Il solito naturalmente è “il signor No” Matteo Renzi, come lo ha definito il suo collega di partito Dario Franceschini, che sembra nato in un’auto blu, tanto bene e a lungo vi è cresciuto dentro, non riuscendo quindi a vedersi fuori senza il terrore dell’incognito. I soliti, al plurale, sono Silvio Berlusconi e il suo alleato, stavolta davvero, Matteo Salvini: convinti di avere ancora una carta di centrodestra da giocare, con tutti quei voti presi già il 4 marzo scorso, e aumentati ogni volta che si è tornati nel frattempo alle urne. Convinti, dicevo, e increduli delle esitazioni del presidente della Repubblica a farli scendere con un incarico nella pianura della crisi.

              Ma Sergio Mattarella è forse trattenuto dal fatto che Berlusconi e Salvini non sanno esattamente come e dove cercare, ma soprattutto ottenere in Parlamento i consensi necessari anche al centrodestra per trasformare in maggioranza di governo la semplice maggioranza relativa di voti conseguita due mesi fa nel rinnovo delle Camere.

            Berlusconi, addirittura, si compiace di chiamare “di minoranza” il governo di centrodestra che ha in testa, dimenticando la propria partecipazione agli attacchi e alle derisioni di Pier Luigi Bersani. Che cinque anni fa, agli esordi della diciassettesima legislatura, quando era ancora il segretario del Pd, rivendicava il diritto e l’orgoglio di portare in Parlamento un governo “di minoranza e di combattimento”, convinto di potersi prima o poi guadagnare l’interesse dei grillini. A fermarlo, si sa, provvide in modo abbastanza energico l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai cui ragionamenti probabilmente si starà richiamando in questi giorni e ore Sergio Mattarella riflettendo sui numeri e su altri problemi di un governo di minoranza di centrodestra. O sull’ipotesi, non del tutto abbandonata in casa leghista, di un  nuovo tentativo di coniugare il centrodestra e i grillini in chissà quale altra forma rispetto ai tentativi falliti nelle scorse settimane con la certificazione dell’esploratrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato.

            Fra gli orfani del mancato o abortito o chissà altro governo grillo-piddino, diciamo così, ce n’è uno sempre munito di parole e immagini forti. E’ il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Che, in verità, non è mai stato un grande estimatore del Pd, scambiandolo anzi spesso per una sentina, magari convinto che possa finalmente rigenerarsi o morire almeno in pace con l’assistenza dei grillini. E pazienza se dalle urne friulane ad uscire letteralmente a pezzi siano appena stati proprio i grillini mentre a Roma cercavano di accordarsi col Pd.  Che volete che siano o valgano i friuliani, con le loro grappe, dalle parti di quei forti pensatori che popolano e alimentano d’idee il giornale di Travaglio, a cominciare dal presidente mai abbastanza emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky? Di una cui intervista Il Fatto si è appena avvalso per rilanciare il progetto del governo grillo-piddino, e Travaglio in persona  per dare del “bollito alla fiorentina” a Matteo Renzi, mobilitatosi a contrastare un così nobile obiettivo.

            A 25 anni esatti dalla serata delle monetine lanciate contro Bettino Craxi per segnarne la lapidazione fisica e politica insieme, a dispetto di una Camera che aveva appena cercato di difenderlo dalla sorte di capro espiatorio di Tangentopoli, quel “bollito alla fiorentina” servito ai lettori del Fatto Quotidiano del 30 aprile 2018 non è proprio originale. E’ stata ed è una scopiazzatura della “trippa alla Bettino” servita nelle mense delle feste dell’Unità ai tempi del Pci di Enrico Berlinguer, dove e quando non si perdonava al leader socialista, subentrato nel 1976  a Francesco De Martino, di volere affrancare la Dc dall’obbligo, assegnatogli dal tipo di cultura di sinistra dominante allora, di governare d’intesa con i comunisti, essendo tutto il resto corruzione e doppio Stato.

            Al posto della Dc degli anni Settanta gli eredi di quella cultura hanno messo ora il Pd dei vari Martina e Franceschini, e al posto dei comunisti di Enrico Berlinguer i grillini di Luigi Di Maio. Mamma mia, che confusione. 

Sergio Mattarella con le mani nei capelli dietro la porta custodita dai Corazzieri

            Il presidente della Repubblica avrebbe buone ragioni per rimpiangere “lo stallo” lamentato nella crisi di governo dopo due giri di consultazioni a vuoto condotte personalmente al Quirinale, e prima di mettere in pista i due presidenti delle Camere come esploratori: una verso destra, la presidente forzista  del Senato, e l’altro verso sinistra, il presidente grillino di Montecitorio.

            Ora, dopo una semplice intervista televisiva dell’ex segretario del Pd Matteo Renzi e il turno elettorale regionale del Friuli-Venezia Giulia la pista della crisi di governo è addirittura scomparsa. E’ stata sommersa da valanghe a scrutare i cui effetti non ci sono, francamente, esploratori immaginabili, dopo che sono stati sprecati quelli istituzionalmente più qualificati, anche se di scarsa esperienza. Che può fare a questo punto il capo dello Stato se non mettersi le mani nei capelli di cui fortunatamente ancora dispone e sperare che non gli cadano solo a toccarli? Per il resto le sue mani “sono sempre più legate”, ha appena raccontato sul Corriere della Sera il quirinalista Mario Breda.

            Chi ha perduto le elezioni politiche il 4 marzo ha perduto nel frattempo anche la testa, a sentirne amici di partito- si fa per dire- e alleati. Penso, in particolare, a Renzi, accusato dal suo sostituto ed ex vice, Maurizio Martina, di procurare addirittura l’estinzione di quel che resta del partito per avere soltanto esercitato il diritto di dire la sua sulla crisi, prima ancora di decidere se partecipare alla riunione della direzione convocata per discuterne un passaggio importante ma pur sempre non decisivo, come l’apertura della trattativa magnanimamente offerta dal movimento delle 5 stelle. Non decisiva, perché non ci vuole molta intelligenza per capire che una cosa è aprire una trattativa, alla quale Renzi non si è opposto, altra è chiuderla nell’unico modo reclamato dalla controparte, cioè firmando comunque un contratto. E per giunta dopo avere impropriamente chiamato in causa proprio il capo dello Stato, attribuendogli un’azione persuasiva in quella direzione. Che, se vero, sarebbe stato comunque un intervento arbitrario.

            L’altro “perdente” delle elezioni del 4 marzo, Silvio Berlusconi, sorpassato elettoralmente da Matteo Salvini nella coalizione vincente di centrodestra, è accusato a mezza voce, ma forse anche a qualcosa di più di mezza voce, dall’alleato leghista di avere perso la testa da una parte scontrandosi troppo con i grillini e dall’altra pensando di agganciare in qualche modo il Pd. Di cui Salvini invece pensa esattamente, o quasi, ciò che Berlusconi dice del movimento delle 5 stelle.

            Se i perdenti del 4 marzo hanno perso anche la testa, i vincenti sono riusciti a far loro concorrenza. Penso naturalmente a Luigi Di Maio, il “capo politico” dei grillini, e a Salvini, il nuovo leader del centrodestra.

            Di Maio scambia per una provocazione alla democrazia qualsiasi dubbio sulla sua aspirazione a guidare il nuovo governo, di qualunque colore o tipo possa alla fine risultare mercanteggiandone il programma. Nessuno è riuscito a fargli capire nei due mesi trascorsi dalle elezioni, né dentro né fuori del suo partito, che una cosa è prendere il 32 per cento dei voti, come gli è appunto accaduto, e altra cosa è prendere il 50 per cento più uno, come non gli è accaduto, per cui è negoziabile politicamente anche la sua ambizione. Che in ogni caso -altra cosa che nessuno è riuscito a fargli capire- non può prescindere dal presidente della Repubblica, che non ha ancora perduto il diritto conferitogli dalla Costituzione di nominare, cioè di scegliere, il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. Bazzecole, per il giovane aspirante grillino a Palazzo Chigi, che minaccia di farla pagare cara a chiunque osi mettersi di traverso sulla sua strada. E’ una follia, o ignoranza, che costerebbe la bocciatura ad un qualsiasi studente universitario all’esame di diritto costituzionale, ma che a Di Maio non sono costati, almeno sinora, i gradi di capo nel suo movimento.

            Beppe Grillo, il “garante”, l’”elevato” o come altro lo chiamino o si chiami lui stesso nel partito improvvisato sui palcoscenici comici, ha appena assicurato che il giovane Di Maio pecca non di ambizione ma di entusiasmo e di generosità. Sono punti di vista, naturalmente. Ma a Salvini, l’altro vincente del 4 marzo, che si è guadagnato subito la fiducia di Grillo, è bastato qualche incontro o scambio di telefonate e messaggi telematici con Di Maio per farsene un’idea opposta, e trovare semplicemente smodata l’ambizione del giovanotto, sicuramente superiore alla sua. A Salvini va sinceramente riconosciuto il merito di avere solo rivendicato il diritto di proporre al capo dello Stato il nome anche di un altro leghista per la formazione di un governo di centrodestra.

            Dove invece il segretario della Lega ha dato l’impressione di avere perso un po’ la testa pure lui è sulla strada delle elezioni non anticipate, ma anticipatissime, trascinandosi appresso lo stesso Di Maio. Che, incurante delle forti perdite subite dai grillini in due mesi, prima in Molise e poi nel Friuli-Venezia Giulia, a dimostrazione di quanto poco ripetibile possa rivelarsi la fortuna del 4 marzo, ha chiesto a Salvini di presentarsi insieme al Quirinale per reclamare elezioni politiche entro giugno, peraltro tecnicamente impossibili da almeno il 24 aprile. Come se, peraltro, Mattarella fosse il tipo da mettere in riga nell’espletamento di un’altra prerogativa che la Costituzione gli affida in esclusiva: quella appunto di scogliere le Camere prima della loro scadenza ordinaria, col solo obbligo di “sentirne” prima  i presidenti, per ragioni che potremmo definire di galateo istituzionale: non più di questo.

             Il capo dello Stato, sempre con le mani fra i capelli, non risulta nemmeno tentato dall’idea di rimandare gli italiani alle urne in autunno, inevitabilmente con la legge elettorale in vigore, e col rischio di ritrovarsi con un altro Parlamento ingovernabile, per giunta nella cosiddetta stagione finanziaria, quando bisognerà approvare una nuova legge di bilancio. O rinunciarvi ricorrendo al cosiddetto esercizio provvisorio, emblematico per definizione di una situazione di crisi.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it il 2 maggio 2018

 

           

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