Bruxelles eccita gli istinti sovranisti di leghisti e grillini in Italia

            Altro che “spaccare l’asse tra Salvini e Di Maio”, come ha gridato in un titolo di prima pagina il Giornale di famiglia di Silvio Berlusconi. Il vento europeo soffiato sulla crisi di governo a Roma con moniti, preoccupazioni e quant’altro espressi contemporaneamente da tre esponenti non italiani della Commissione di Bruxelles, per non parlare dell’arrivo dei “barbari” preannunciato dal Financial Times, non hanno allontanato ma riavvicinato grillini e leghisti, apparsi sino a poche ore prima vicini alla rottura nella ricerca di un accordo. Le reazioni negative di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio, anche di quest’ultimo, il più disinvolto nell’allontanarsi nelle scorse settimane dalle posizioni originarie dei grillini pur di scalare Palazzo Chigi, sono state concordi e immediate.

            Gli istinti sovranisti dei due partiti maggiormente premiati dagli italiani -non dimentichiamolo- nelle elezioni politiche del 4 marzo scorso, sono stati non contrastati ma eccitati. Eppure Salvini e Di Maio erano apparsi spiazzati dalle indiscrezioni sul loro “contratto” di governo che riproponevano l’uscita dall’euro, o prospettavano la richiesta al governatore italiano della Banca Europea di scontare di 250 miliardi di euro, pari a quasi il dieci per cento, il debito pubblico accumulato a Roma. “Bozze superate”, avevano reagito dalle parti leghiste e grilline, come per scusarsi.

            Nel giro di poche ore sono tornate a levarsi dai due partiti le proteste contro gli “eurocrati non eletti da nessuno”, come li ha definiti Di Maio dimenticando che i membri della Commissione Europea di Bruxelles non sono burocrati dell’Unione, assunti per concorso, ma esponenti politici delegati dai loro governi a rappresentarli negli organismi comunitari.

            Se le bandiere finiscono di sventolare sui pennoni dei palazzi dell’Unione e diventano oggetti contundenti nel dibattito politico, la crisi di governo in Italia prende pieghe che neppure il presidente sicuramente europeista della Repubblica Sergio Mattarella si sente più in grado di controllare, con i nervi già messi a dura prova dalla maleducazione istituzionale degli attori e protagonisti dello spettacolo ispirato addirittura al “contratto di governo alla tedesca”. Un contratto che però è stato negoziato per mesi dalla cancelliera in persona, uscente e rientrante, riconosciuta come tale dal primo momento anche da chi trattava con lei: qualcosa di assai diverso da ciò che sta accadendo dalle nostre parti.

            Breda.jpgLe preoccupazioni di Mattarella per la piega che gli sviluppi già troppo contorti della crisi di governo italiana potrebbero prendere si ritrovano nelle solite cronache quirinalizie del Corriere della Sera. Dove si registra l’auspicio “del Colle” per un “cambio di toni” tra “loro”, a Bruxelles, e “noi”. E si condivide il termine “ingerenze” usato da leghisti e grillini, all’unisono, contro chi  segue da Bruxelles e dintorni quanto sta accadendo in Italia.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it

La pazienza di Mattarella messa alla prova da due maleducati di talento…

Giuliano Ferrara ha un po’ esagerato, per l’irruenza che lo distingue, a scrivere sul Foglio di “Costituzione violata” commentando gli sviluppi della lunga crisi di governo, e prendendosela anche col presidente della Repubblica, pur al netto del solito riguardo personale.

La crisi, di certo, ha avuto un corso assai particolare, spesso anomalo. Lo stesso Matteo Salvini, uscito dallo studio del capo dello Stato per riferire sulle trattative di governo condotte con Luigi Di Maio tra Roma e Milano, ha parlato di “irritualità”. Ed anche il capo del movimento delle 5 stelle aveva chiesto comprensione ai giornalisti, e forse anche allo stesso presidente della Repubblica, il giorno precedente vantandosi di stare scrivendo addirittura “la Storia”, con la maiuscola, e non solo quella, con la minuscola, di una crisi di governo.

Di Salvini e Di Maio si può dire – come disse una volta l’allora direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli di Matteo Renzi, che da Palazzo Chigi lo sommergeva di messaggini di protesta per il trattamento che gli riservava il più diffuso giornale italiano- che si siano mossi in questa crisi come “maleducati di talento”.

Più che la Costituzione, essi hanno violato il galateo istituzionale aprendo, anzi riprendendo i loro contatti per il nuovo governo senza esserne stati incaricati dal capo dello Stato. Che aveva concluso il suo secondo e infruttuoso giro di consultazioni al Quirinale lamentando lo “stallo” in cui la crisi permaneva a due mesi di distanza dalle elezioni del 4 marzo, e annunciando il proposito di nominare un governo “neutrale” per la gestione di elezioni anticipate anche in uno scenario estivo inedito nella storia della Repubblica: un governo -aveva precisato Sergio Mattarella- ai cui ministri sarebbe stato chiesto l’impegno di non presentarsi candidati al rinnovo delle Camere.

Di quel governo, dandone quindi ormai per scontata la formazione, Mattarella aveva detto anche che si sarebbe dimesso se i partiti avessero poi trovato un accordo politico, costitutivo di una maggioranza. Ma Salvini e Di Maio, pur essendosi incontrati ufficialmente per indicare nella seconda domenica di luglio la data da essi preferita per le elezioni anticipate, aprirono il tavolo delle trattative. Al cui annuncio il presidente della Repubblica, complici anche alcuni impegni istituzionali che lo stavano allontanando dal Quirinale, reagì con la cortesia del silenzio, cioè con una silenziosa- ripeto- presa d’atto, autorizzando i suoi uffici a tenere i contatti opportuni con i dioscuri della potenziale maggioranza incaricatisi da soli di tentare l’intesa.

Cos’altro, del resto, avrebbe potuto o dovuto fare Mattarella? Procedere lo stesso alla formazione del governo “neutrale”, e tecnico, per la gestione di elezioni anticipate che nel frattempo si erano allontanate dallo scenario politico con la pur “irrituale” iniziativa assunta dal segretario della Lega e dal suo quasi omologo del movimento di Beppe Grillo? Ma ciò lo avrebbe esposto inevitabilmente al sospetto, anzi all’accusa di volere a quel punto forzare lui la gestione della crisi. E cominciò così una fase di tolleranza scambiata dal mio amico Giuliano Ferrara per qualcos’altro.

Non per gusto dell’ossimoro, ma per il rispetto che si deve ai fatti, va detto che la tolleranza di Mattarella è stata alquanto nervosa. E di un nervosismo per niente nascosto. Lo dimostra il discorso da lui pronunciato a Dogliani celebrando il primo presidente vero e proprio della Repubblica: il liberale Luigi Einaudi. Al cui esempio Mattarella si è richiamato per ricordare ai dioscuri delle trattative di governo, nel frattempo trasferitisi a Milano, le sue prerogative costituzionali sulla nomina del presidente del Consiglio e dei ministri, anche in difformità dalle indicazioni dei gruppi o dei partiti di maggioranza. Come accadde appunto a Einaudi nel 1953 spazientendosi delle lotte interne alla Dc per la successione al leader storico Alcide De Gasperi, di cui le Camere avevano appena bocciato l’ultimo governo, senza neppure consentirgli di muovere i primi passi. Fallito un primo tentativo di Attilio Piccioni, il capo dello Stato chiamò in tutta fretta  nella sua residenza estiva l’allora ministro del Tesoro Giuseppe Pella e gli fece fare un governo a Ferragosto che la Dc liquidò come “amico”. Esso durò poco, ma abbastanza per  gestire la pratica  internazionale del ritorno di Trieste all’Italia e guadagnarsi una popolarità che il suo partito non gli perdonò mai.

Di Einaudi il presidente Mattarella ha ricordato come esempio anche le pulci che soleva fare alle decisioni del governo e alle leggi, rinviandone due alle Camere per sforamento del bilancio. Ma soprattutto il presidente in carica ha rivendicato, con la citazione dell’articolo 87 della Costituzione, l’’”autorizzazione” che gli spetta per la presentazione di qualsiasi disegno di legge del governo al Parlamento, da non potersi quindi considerare più scontata, come sinora costituzionalisti e politici erano abituati a ritenere.

Non escludo, francamente, che siano stati proprio questi richiami di Mattarella, magari uniti al pieno recupero dell’agibilità politica di Silvio Berlusconi, con la riabilitazione decisa dal tribunale di sorveglianza di Milano, a rendere Salvini più prudente all’interno della coalizione di centrodestra, o più esigente, come gradite, nelle trattative di governo con Di Maio. A tal punto prudente, o esigente, da fare ricomparire nello scenario della crisi la prospettiva di elezioni anticipate, che a questo punto però sembrano scongiurate nella stagione estiva.

Il galateo istituzionale prima o dopo può prendersi le sue rivincite.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

La crisi di governo si allunga dopo la riabilitazione di Berlusconi

             Il presidente della Repubblica è riuscito finalmente a riportare la crisi di governo nella carreggiata del Quirinale, ma ha dovuto accettare di allungarne ulteriormente i tempi facendo buon viso al cattivo gioco dei dioscuri Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Cattivo gioco, perché il segretario leghista e il quasi omologo del movimento delle 5 stelle non sanno dire neppure loro a che punto sono arrivati nel negoziato sia per il contenuto del “contratto alla tedesca”, come lo chiama Di Maio, sia per la personalità -si spera- da proporre al capo dello Stato come presidente del Consiglio.

            Nel conto della crisi vanno messe anche le procedure delle consultazioni delle basi dei due movimenti: digitali, naturalmente, per i pentastellati e gazebiche per i leghisti.

            Dei contenuti del programma ancora in bilico, dopo tante riunioni fra le delegazioni, alcuni sono alquanto delicati, come i temi del fisco, dell’immigrazione, della giustizia e delle infrastrutture. Su questi ultimi due i leghisti debbono fare i conti col giustizialismo consolidato dei grillini e con la loro avversione alle grandi opere, cui preferiscono una visione pauperistica e falsamente ecologica del Paese, vedendo ovunque pericoli di corruzione e devastazione. Se fosse dipeso da loro, le autostrade in Italia non sarebbero mai state costruite.

            Le resistenze dei leghisti alle logiche dei grillini sono coincise con l’aumentato peso politico di Silvio Berlusconi nello scenario del centrodestra, e più in generale in quello nazionale e internazionale, dopo la riabilitazione del Cavaliere  decisa dal tribunale di sorveglianza di Milano e il suo pieno ritorno alla candidabilità’. Che potrebbe presto riportarlo in Parlamento, già in questa diciottesima legislatura, alle prime elezioni suppletive provocate dalle dimissioni di un esponente del suo partito eletto il 4 marzo scorso in un collegio uninominale. Di aspiranti a questo servizio al Cavaliere ve ne sono in quantità.

            Durante la sua solita “maratona” televisiva sulle consultazioni riaperte al Quirinale Enrico Mentana ha voluto ammonire i giornali, come se fosse un maestro, a non dare una simile lettura del cambio di passo leghista sulla strada della crisi. Il peso e il ruolo di Berlusconi, che pure si era già affrettato ad avvisare personalmente l’alleato leghista, in un incontro ad Arcore, a “riflettere di più ” sulle scelte di governo da lui dichiaratamente non condivise, tanto che è escluso un appoggio parlamentare di Forza Italia, non c’entrerebbero nulla, secondo il direttore del telegiornale de La 7.

            A smentire la visione o lettura mentaniana degli sviluppi della crisi sono le dichiarazioni rese al Quirinale, davanti alle telecamere della Loggia delle Vetrate, dopo l’incontro col presidente della Repubblica, dallo stesso Salvini. Il quale ha voluto ribadire i suoi vincoli di alleanza elettorale e politica con Berlusconi e con la destra di Giorgia Meloni, ringraziando entrambi dello spazio lasciatogli sinora nei suoi movimenti, diciamo così, autonomi sul fronte del governo. Ed ha voluto contemporaneamente avvertire i grillini che ai leghisti potrebbe convenire di più rinunciare ad un accordo, essendo l’unica forza elettorale in crescita nei sondaggi.

            Così torna ad aleggiare sulla legislatura l’ombra delle elezioni anticipate, se mai se n’è davvero allontanata dopo l’annuncio di un governo “neutrale” per gestirle fatto dallo stesso presidente della Repubblica, prima che Salvini e Di Maio si incaricassero baldanzosamente da soli di risolvere la crisi.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it

 

Carica dell’elefantino di Giuliano Ferrara contro il Quirinale di Mattarella

              Consapevole dello spettacolo a dir poco anomalo di una trattativa di governo svoltasi fra due non incaricati da lui di condurle, eppure ricorsi più volte per telefono ai suoi uffici per ottenere dilazioni a un compito assunto da soli, il presidente della Repubblica è ricorso a un po’ di ironia. Di cui si è fatto portavoce il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda chiedendo ai lettori di comprendere il povero Sergio Mattarella alle prese, sia pure a distanza, con uno come Luigi Di Maio. Che raccontava a Milano ai giornalisti di “scrivere la storia” negoziando con Matteo Salvini un contratto per un “governo di cambiamento”. Al cui annuncio risvegliare magari il corazziere assopitosi al Quirinale davanti allo studio di un capo dello Stato assente o inoperoso.

           Ferrara.jpg Né l’ironia né il proposito, per niente ironico, annunciato dal presidente della Repubblica, col pretesto di commemorare Luigi Einaudi, di esercitare al meglio le prerogative costituzionali al ritorno del pallino della crisi nelle sue mani, a cominciare dalla nomina del presidente del Consiglio e dei ministri, hanno tuttavia trattenuto Giuliano Ferrara dalla decisione di saltare sul suo elefantino rosso e di caricare sventolando il  Foglio contro “il silenzio del Quirinale” di fronte alla “Costituzione violata”.

            C’è probabilmente un tantino di esagerazione nell’attacco del fondatore del Foglio, insofferente già da giorni davanti alle cronache della crisi di governo, ma non c’è dubbio che Salvini e Di Maio, o viceversa, si siano mossi con grande disinvoltura mancando quanto meno di galateo costituzionale verso il capo dello Stato. Che non aveva ritenuto di dare né all’uno né all’altro l’incarico di trattare il programma di governo, e tanto meno di negoziare un contratto.

            Lo stesso quirinalista del Corriere della Sera, non Breda.jpgcerto sospettabile di spirito critico verso il capo dello Stato, ha riconosciuto che nei 70 anni e più della Repubblica italiana i programmi o contratti di governo sono stati generalmente negoziati con i partiti della maggioranza dalla persona a questo scopo incaricata dal capo dello Stato di turno. Che, nel nostro caso, alla fine delle consultazioni aveva invece annunciato personalmente di apprestarsi, visto lo “stallo” perdurante della crisi, alla nomina di un governo di tregua, attrezzato anche per l’evenienza di elezioni anticipate. Alle quali il presidente del Consiglio e i ministri si sarebbero impegnati con lo stesso capo dello Stato a non candidarsi.

            E’ certamente vero che Mattarella nell’apprestarsi alla nomina di quel tipo di governo, una volta tanto “neutrale”, aveva lasciato aperta ai partiti una finestra o possibilità, come preferite, di accordo per allestire una maggioranza sino ad allora mancata. Ma è altrettanto vero che il presidente della Repubblica ne aveva parlato in termini talmente prospettici da assicurare che nel caso di un accordo del genere il governo da lui allestito per motivi di urgenza, dettati da scadenze di politica estera e interna, si sarebbe dimesso.

            Salvini e Di Maio avrebbero quanto meno dovuto dare il tempo al capo dello Stato di riaprire le consultazioni e, rinunciando spontaneamente alla nomina del governo d’urgenza, di conferire all’uno o  all’altro, o ad altri ancora, il compito di negoziare una maggioranza ordinaria, per il proseguimento della legislatura uscita dalle urne del 4 marzo scorso.

            Questo passaggio è oggettivamente mancato. Se è stata più violazione della Costituzione o del galateo istituzionale e politico, francamente non so.

Mattarella aspetta al varco del Quirinale i dioscuri Matteo Salvini e Luigi Di Maio

            Altro che i “paletti” annunciati dai giornali riferendo dell’intervento del presidente della Repubblica sugli sviluppi della crisi di governo gestiti da Matteo Salvini e Luigi Di Maio, o viceversa. Che sono impegnati a redigere a Milano “il contratto” fra i loro due partiti.

            Costretto a seguire la vicenda a distanza un po’ dal carattere di blitz della loro iniziativa, mentre lui si accingeva a formare un governo “neutrale” e tecnico per le elezioni anticipate, e un po’ dalle circostanze costituite dai suoi impegni istituzionali fuori Roma, compresa una celebrazione di Luigi Einaudi a Dogliani, Mattarella ha avvertito Salvini e Di Maio che li attende al varco del Quirinale. Dove dovranno riferirgli finalmente sui loro accordi e progetti.

           Il contratto.jpg I due -ha ammonito Mattarella prendendo come esempio per la sua azione da capo dello Stato quello appunto di Einaudi, il primo presidente della Repubblica vero e proprio avuto dall’Italia- si tolgano dalla testa l’idea di incontrare sul colle più alto di Roma un “notaio”. Nei cui uffici si possa solo depositare e registrare il “contratto” di governo, come Salvini e Di Maio preferiscono chiamare il programma del nuovo esecutivo.

            Su quel contratto e sui provvedimenti che conseguiranno il capo dello Stato è deciso a vigilare, sapendo che il governo penta-leghista, metà 5 stelle e metà Carroccio, dovrà guadagnarsi la sua firma -per nulla scontata, quindi- quando presenterà al Parlamento i suoi disegni di legge. E ancor più quando chiederà di decidere con lo strumento urgente del decreto legge. Ma anche le leggi approvate dalle Camere dovranno superare il vaglio del presidente della Repubblica per essere promulgate, essendo rinviabili al Parlamento per “una nuova deliberazione” consentita dall’articolo 74 della Costituzione, come fece Einaudi due volte durante il suo mandato, quando ritenne sforati i limiti del bilancio.

            Ma soprattutto, prima ancora di vigilare sui suoi atti, il presidente della Repubblica dovrà convintamente e autonomamente nominare il presidente del Consiglio e, su proposta di questi, i ministri per le prerogative assegnategli dall’articolo 92 della Costituzione. E, poiché sulla persona del presidente del Consiglio da indicare e proporre al capo dello Stato i due autori del “contratto” di governo non hanno ancora idee chiare, diciamo così, il capo dello Stato ha ricordato, riconoscendovisi in pieno, il clamoroso precedente einaudiano del 1953.

            Nell’estate di quell’anno, dopo la bocciatura parlamentare dell’ultimo governo di Alcide De Gasperi, si aprì nella Dc, partito di netta e grande maggioranza, il problema della successione al prestigioso leader trentino. Il cui principale collaboratore come vice presidente del Consiglio, Attilio Piccioni, peraltro segretario del partito nelle elezioni storiche del 18 aprile 1948, fu incaricato da Einaudi di formare il governo.

           Pella.jpg Per effetto di manovre interne ed esterne alla Dc, cui si prestarono in particolare gli alleati socialdemocratici prima annunciando la disponibilità alla fiducia e poi negandola, Piccioni rinunciò. Sorpreso e irritato, non volendosi prestare ad ulteriori manovre di partito, Einaudi senza riaprire le consultazioni convocò a Ferragosto nella sua residenza estiva di capo dello Stato, vicino Roma, il ministro democristiano del Tesoro Giuseppe Pella e gli conferì l’incarico di allestire in tutta fretta il nuovo governo, composto da colleghi di partito e da indipendenti. Cui la Dc concesse la fiducia molto malvolentieri, definendolo freddamente “governo amico”. E rendendogli la vita difficilissima, sino a provocarne le dimissioni il 5 gennaio 1954 col pretesto dei contrasti sulla sostituzione di un ministro.

            Neppure la caduta del governo Pella, diventato nel frattempo popolare per la gestione assai ferma della questione del ritorno di Trieste all’Italia, praticamente sottrattaci alla fine della seconda guerra mondiale, fu naturalmente gradita da Einaudi. Che, seguendo questa volta le indicazioni dello scudo crociato, nominò un governo interamente democristiano presieduto dall’emergente e ambiziosissimo Amintore Fanfani, bocciato però al suo esordio parlamentare e rimasto pertanto in carica meno di un mese. Esso fu sostituito il 10 febbraio del 1954 dal primo governo del democristiano Mario Scelba, ma dopo che Einaudi aveva inutilmente tentato di rimettere in pista Piccioni, per quanto già angustiato da un problema familiare destinato ad esplodere il 19 settembre successivo, quando egli fu costretto a dimettersi da ministro degli Esteri di Scelba per l’imminente arresto del figlio Piero, accusato di concorso nell’omicidio di Wilma Montesi: una giovane trovata morta sulla spiaggia di Torvajanca dopo un festino.

            Piero Piccioni fu poi assolto con formula piena, ma il padre nel frattempo, pur tornando poi al governo con importanti funzioni ministeriali, aveva perduto la corsa alla successione a De Gasperi.

            Per tornare ai nostri giorni, i problemi di Salvini e Di Maio, o viceversa, non si esauriscono tuttavia nei rapporti con Mattarella sulla scelta del presidente del Consiglio e dei ministri. Sono cadute come macigni sulla strada del nuovo governo anche la riabilitazione giudiziaria di Silvio Berlusconi, decisa dal Tribunale di Sorveglianza di Milano dopo la condanna di cinque anni fa per frode fiscale, la sua immediata ricandidabilità, che potrebbe riaprirgli le porte del Parlamento anche a breve, senza neppure le elezioni anticipate, bastando e avanzando quelle suppletive se per fargli posto dovesse dimettersi un deputato o un senatore del suo partito eletto in un collegio uninominale il 4 marzo scorso, e il monito già rivolto dal Cavaliere all’alleato Savini. Cui Berlusconi ha consigliato di “riflettere bene” sugli accordi in corso con Di Maio, da lui non condivisi, perché adesso “tutto è cambiato”.

          Il Fatto.jpg  E’ una musica, quest’ultima del Cavaliere, che inutilmente al Fatto Quotidiano, comunque già guardingo o critico verso l’intesa fra Salvini e Di Maio, hanno cercato di esorcizzare con un titolo provocatorio di prima pagina che grida: “Ora B. è “riabilitato” ma delinquente era e delinquente resta”.

           il lmanifesto .jpg Naturalmente la riabilitazione giudiziaria di Berlusconi ha entusiasmato e incoraggiato il suo partito nella resistenza alla nascita del governo, subìta nel timore di elezioni anticipate con il perdurante handicap -sino all’altro ieri- dell’incandidabilità del Cavaliere, una  volta tanto favorito dalla connessione tra iniziative della magistratura e vicende politiche.

        Sallusti.jpg    Il direttore del Giornale di famiglia di Berlusconi è tuttavia incorso in una clamorosa gaffe contestando praticamente al Tribunale di Sorveglianza di Milano i tempi della decisione, successivi alle elezioni del 4 marzo, quindi preclusivi del diritto del Cavaliere di parteciparvi. Ma l’istanza di riabilitazione è stata depositata solo il 12 marzo. E non poteva essere presentata prima per termini di legge, relativi alla esecuzione della pena, non per disposizione giudiziaria.

I grillini spiazzati nella corsa al governo da un Cavaliere ancora più scomodo

            Con quel cognome da presagio che porta, da nomen omen davvero, e col suo scoop al Corriere della Sera sulla riabilitazione concessa a Silvio Berlusconi dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giuseppe Guastella ha guastato la festa a Marco Travaglio. Che sul suo Fatto Quotidiano aveva appena lanciato l’ennesima offensiva dettando agli indisciplinati grillini “il decalogo contro il delinquente”, cioè Berlusconi, per neutralizzarne il peso assai temuto sul governo gialloverde, o grilloleghista, su cui si sta trattando tra Roma e la stessa Milano. Un governo per niente gradito a Travaglio, che gli ha dato  il nome di Salvimaio, metà Salvini e metà Di Maio, destinato a nascere, per carità, senza la fiducia dei parlamentari di Berlusconi, ma anche senza la rottura fra Salvini e il suo principale alleato di centrodestra.

            La riabilitazione concessa dai magistrati di Milano al Cavaliere, accogliendo un’istanza presentata il 12 marzo scorso dai suoi avvocati, alla scadenza dei tre anni trascorsi dalla espiazione completa della pena comminatagli dalla Cassazione il 1° agosto 2013 per frode fiscale, restituisce automaticamente a Berlusconi la candidabilità negatagli a suo tempo con l’applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino. Che lo fece anche decadere da senatore.

            Il Tribunale milanese di Sorveglianza non ha ritenuto ostativi alla riabilitazione i procedimenti penali ancora in corso contro Berlusconi per presunta corruzione di testimoni nel cosiddetto processo Ruby per prostituzione minorile, conclusosi peraltro in primo grado con la condanna dell’imputato, e trasmissione quindi degli atti alla Procura per le presunte false testimonianze, ma con l’assoluzione in secondo grado, confermata dalla Cassazione.

           guastellajpg.jpg Anche se la Procura Generale di Milano dovesse impugnarne l’ordinanza, la riabilitazione e la ricandidabilità di Berlusconi rimarrebbero ugualmente esecutive, per cui la minaccia delle elezioni anticipate affacciatasi prepotentemente sullo scenario della crisi di governo per iniziativa dello stesso presidente della Repubblica, pronto nei giorni scorsi a formare un governo “neutrale” per gestirle, diventa un po’ meno penalizzante per il Cavaliere. Un po’ meno, ripeto, perché certamente continuerebbe a giocare contro di lui e il suo partito, sia pure in misura ridotta, il trend elettorale a favore della Lega all’interno della coalizione di centrodestra.

            L’ordinanza liberatoria del Tribunale di Sorvegliana di Milano rende praticamente ininfluente il verdetto della Corte europea di Strasburgo sul ricorso presentato da Berlusconi contro l’applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino. Il cui accoglimento tuttavia darebbe al Cavaliere anche la soddisfazione, sia pure ininfluente rispetto al danno ormai subìto, di denunciare con maggiore forza l’arbitrarietà della sua decadenza dal Parlamento, fatta votare cinque anni fa  a scrutinio peraltro palese dal Senato  presieduto da un ex magistrato di lungo corso come Pietro Grasso.

            E’ difficile valutare bene e a caldo i possibili effetti dell’ordinanza giudiziaria  di riabilitazione di Berlusconi sulle trattative in corso per la formazione del nuovo governo, seguite a distanza dal presidente della Repubblica con un misto di tolleranza  e di scetticismo, avendo lui  negato sia a Salvini sia a Di Maio un qualsiasi tipo di incarico per la soluzione della crisi. Ma certamente la riabilitazione di Berlusconi obbliga il segretario leghista, sul piano politico e personale, a resistere maggiormente ai tentativi grillini di penalizzare il suo principale alleato elettorale, con cui già governa un’infinità di amministrazioni locali e regioni del Nord come la Lombardia, il Veneto, la Liguria e ora anche il Friuli-Venezia Giulia, per non parlare della Sicilia al Sud. 

 

 

 

Ripreso da www.startmag.it 

Sollievo a Palazzo per il (quasi) scampato pericolo di elezioni anticipate, e al caldo

            Più crescono le preoccupazioni in Europa, in particolare fra Berlino, Bruxelles e Parigi, per le trattative di governo in corso a Roma fra grillini e leghisti, più sale paradossalmente nei palazzi tipici della politica, quali sono quelli del Parlamento, il sollievo per come procede l’incarico che il segretario della Lega Matteo Salvini, rigorosamente in maniche di camicia, si è dato da solo dopo una sessantina di giorni di crisi, informando telefonicamente il presidente della Repubblica, che glielo aveva negato.

           E’ un incarico, in verità, non da presidente del Consiglio, perché ad una simile carica Salvini non ambisce più in questo momento, al pari del giovane con cui sta negoziando la formazione del nuovo governo, cioè il grillino Luigi Di Maio. E’ forse un pre-incarico, di quelli che il capo dello Stato concede quando non si fida troppo dell’interessato, e delle circostanze, e lo concede sapendo che può revocarlo in ogni momento. O un incarico esplorativo, di quelli che hanno già contrassegnato questa crisi, affidati da Mattarella ai presidenti prima del Senato e poi della Camera, perché nessuno dei due potesse ingelosirsi dell’altro.

            Il sollievo, anzi la felicità nei palazzi parlamentari è tutto da scampato pericolo -si spera tanto a destra quanto a sinistra, ma pure in quel che resta del centro- dopo il fantasma delle elezioni anticipate allungato sulla crisi dallo stesso presidente della Repubblica alla fine del terzo giro delle sue consultazioni. Elezioni addirittura d’estate, a gestire le quali era stato destinato uno smilzo governo più o meno “neutrale” e “tecnico” che il capo dello Stato ha congelato quando Salvini si è presa la palla e, scambiandosela con Di Maio, ha cominciato a giocare la partita della crisi consegnando una bandierina da guardalinee all’alleato elettorale Silvio Berlusconi. Che se l’è presa: si vedrà se più per disinvoltura, per paura o per astuzia, sperando magari che la partita resti al livello di un allenamento.

            L’arbitro, suo malgrado, resta naturalmente il capo dello Stato, tanto generoso e paziente, dopo l’impaziente minaccia delle elezioni anticipate, da avere concesso anche i tempi supplementari di fine settimana chiesti per telefono da Salvini. Che è stato tuttavia ammonito -questo va riconosciuto- a non esagerare sulla strada del cosiddetto “sovranismo”, considerato da Mattarella “suggestivo ma inattuabile”, e “ingannevole”. Si tolgano quindi dalla testa, lo stesso Salvini e Di Maio, e il presidente del Consiglio che dovessero entrambi proporre al Quirinale, di giocare a pallone anche con i vincoli europei di cui Mattarella si sente garante. E conta di dimostrarlo se e quando nominerà, toccandone ancora a lui il compito, il capo del governo e i ministri.

         Breda.jpg   C’è tuttavia qualcosa in più che il capo dello Stato ha voluto far sapere affidando il messaggio al solito Marzio Breda, il quirinalista principe del Corriere della Sera. Il quale ha scritto, testualmente, con parole che confesso di non saper decifrare o interpretare, nonostante la pratica fattami in questa materia in una sessantina d’anni di mestiere giornalistico: “A varo avvenuto”, naturalmente del governo grilloleghista o gialloverde, come preferiscono i cultori dei colori dei partiti, il presidente della Repubblica “si preoccuperà di “dare forma” alla lotta politica nei limiti di quanto la cornice istituzionale può permetterglielo”.

 

 

 

 

Ripreso da www,startmag.it

 

 

 

 

Salvini si è preso da solo l’incarico negatogli al Quirinale e tratta con Di Maio

             Se tutto finirà davvero con la formazione di un governo bicolore grilloleghista, e la più o meno rassegnata astensione parlamentare dei forzisti di Silvio Berlusconi; se risulterà vera e soprattutto riuscita, e non falsa com’era apparsa in un primo momento, ”la trattativa” riaperta all’improvviso da Matteo Salvini con Luigi Di Maio, e lo stesso Berlusconi, trattativa al singolare, come l’ha sparata il manifesto nel titolo di copertina di prima pagina alludendo a quella fra lo Stato e la mafia di un quarto di secolo fa, appena il manifesto.jpgaccreditata da una sentenza di primo grado in Corte d’Assise a Palermo; se tutto questo accadrà risparmiando agli italiani le elezioni anticipate d’estate, qualcuno dovrà appendere a un soffitto del Quirinale, come nella Torre Ghirlandina di Modena, un bel secchio. Magari dipinto di giallo e di verde, che sono i colori dei grillini e dei leghisti.

            Gli sviluppi davvero imprevisti della lunga crisi di governo- imprevisti dallo stesso presidente della Repubblica e dai membri del governo “neutrale” ch’egli aveva preannunciato, o minacciato, prevedibilmente già contattando gli interessati- sembrano ispirati al poema eroicomico della Secchia rapita di Alessandro Tassoni, pubblicato in edizione definitiva a Venezia nel lontanissimo 1630.

            Assomiglia appunto alla secchia di Tassoni, cui i modenesi si assetarono inseguendo i bolognesi e facendone un trofeo di guerra, l’incarico che Salvini aveva reclamato inutilmente durante le consultazioni al Quirinale per conto del centrodestra. Negatogli dal capo dello Stato per paura che il segretario leghista gli facesse brutti scherzi improvvisando un governo con cui farsi battere dalle Camere e gestire lui, o altri al suo posto, le elezioni anticipate, Salvini quell’incarico se l’è preso o attribuito da solo aprendo una “trattativa” col proprio alleato Berlusconi e con Di Maio per la formazione di un governo per niente elettorale, guidato da persona ancora da designare al capo dello Stato.

            Sergio Mattarella, dal canto suo, pago forse del diritto riconosciutogli di nominare lui il presidente del Consiglio, e magari anche di scegliere personalmente almeno alcuni dei ministri, forse i più importanti, ha fatto buon viso a cattivo gioco, come si dice. Ed ha accordato a Salvini il tempo necessario per cercare di chiudere l’operazione. In ciò il presidente della Repubblica è stato favorito da un impegno istituzionale a Firenze, che lo ha allontanato per un giorno dal Quirinale.

           Giannelli.jpg Le ore più difficili e tese di questa vigilia di soluzione della crisi sono sicuramente quelle di Berlusconi, efficacemente rappresentate dalla vignetta di Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera. Dove un’impietosa clessidra trasferisce la forza e le stesse sembianze del Cavaliere in quelle di Salvini: l’imgombrante alleato elettorale che non lo ha sorpassato solo nelle urne del 4 marzo scorso.

            Ma altrettanto difficili, a parziale consolazione del Cavaliere, e di chi ancora lo incita alla resistenza, cioè all’opposizione, come ha fatto Vittorio Feltri in un’accorata lettera aperta su Libero, sono le ore che si vivono nel giornale piò simbiotico, diciamo così, con i grillini: il Fatto Quotidiano. Dove hanno inutilmente caldeggiato l’accordo di governo fra i pentastellati e il Pd e denunciano adesso, con tanto di nero in prima pagina, “i giochi Il Fatto.jpgpericolosi” fra Salvini e Di Maio. Giochi aggravati dal contributo tanto misterioso quanto inquietante che, secondo Marco Travaglio, potrebbe venire dal solito “delinquente naturale, pregiudicato ineleggibile e interdetto” di nome Silvio e cognome Berlusconi. Che Di Maio ha cercato intanto con qualche pubblica dichiarazione nelle ultime ore di togliere dalla testa della graduatoria dei mali italiani in cui l’aveva messo nelle settimane scorse.

            “Una pagliacciata mai vista neppure in Italia”, ha commentato e sentenziato il direttore del Fatto Quotidiano. Anzi, una cosa “oscena, nel senso di fuori scena”: almeno quella assegnata da Travaglio al movimento grillino e evidentemente tradita dai dirigenti.

            Per i signori di una certa età si può avvertire la sensazione di tornare giovani, quando Mao diceva che “grande è la confusione sotto il cielo, perciò la situazione è favorevole”.

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it

Ma quanti governi sono nati d’estate nelle legislature repubblicane….

Si, lo so. Con i tempi che corrono, mentre in questa primavera inoltrata e alquanto capricciosa, in tutti i sensi, i presunti vincitori delle elezioni del 4 marzo scorso  continuano a trattare più o meno dietro le quinte ma sono anche tentati dalle elezioni anticipate a luglio, può sembrare patetico il rimpianto delle vecchie estati quasi felici di un vecchio cronista politico. Patetico e un po’ anche da scansafatiche. Eppure  le estati politiche che ho vissute e raccontate non sono state per niente da pelandrone.

Mi sono fatto i conti e ho scoperto che ben 22  dei 61 governi succedutisi nelle 18 legislature della Repubblica, cioè nei 70 anni trascorsi dalle storiche elezioni del 18 aprile 1948, sono nati d’estate, tutti a chiusura di lunghe e faticose crisi.

Nacque il 26 luglio 1951 il settimo e penultimo governo di Alcide De Gasperi. L’ultimo invece nacque e morì fra il 16 e il 28 luglio del 1953, sostituito il 17 agosto da un governo del democristiano Giuseppe Pella improvvisato da uno spazientissimo presidente della Repubblica di nome Luigi Einaudi, fra lo stupore e le proteste della Dc. Che poi l’avrebbe fatta pagare cara a entrambi: all’”amico” Pella notabilizzandolo e a Einaudi negandogli la rielezione al Quirinale due anni dopo.

Il governo centrista di Antonio Segni nacque il 6 luglio del 1955, il secondo governo di Amintore Fanfani il 1° luglio 1958, dopo il tonfo del primo, sfiduciato all’esordio  parlamentare nel 1954.

Anche il terzo governo Fanfani, quello delle “convergenze parallele” immaginate dall’allora segretario della Dc Aldo Moro per preparare la svolta del centrosinistra, nacque in estate, il 26 luglio 1960, dopo i tumulti provocati dal governo di Fernando Tambroni. Così anche il primo governo dichiaratamente “balneare” di Giovanni Leone il 21 luglio 1963, e il secondo il 24 giugno 1968, entrambi per attendere il si dei socialisti, rispettivamente  all’ingresso e al ritorno al governo con i democristiani.

Il secondo governo di centro sinistra di Moro nacque il 22 luglio 1964, a chiusura di una crisi in cui il vice presidente socialista del Consiglio Pietro Nenni annotò nei diari “rumori di sciabole”: quelle del generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, convocato al Quirinale dal presidente della Repubblica Segni per rassicurarlo della tenuta dell’ordine pubblico nel caso di un’interruzione del centrosinistra. Di quella convocazione, rinfacciatagli in un alterco da Giuseppe Saragat, destinato peraltro a succedergli, Segni sarebbe quasi morto a crisi conclusa, colto da un ictus invalidante.

D’estate, il 5 agosto, 1969, nacque anche il secondo governo di centro sinistra di Mariano Rumor dopo la tempestosa fine dell’unificazione socialista del 1966, e mentre nasceva la cosiddetta strategia della tensione. Che esplose il 12 dicembre 1969 con la bomba nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura.

D’estate, il 6 agosto 1970, nacque il governo di centrosinistra di Emilio Colombo, destinato a cadere nel 1972, dopo l’elezione di Leone al Quirinale con una maggioranza di centrodestra. Che sarebbe diventata maggioranza anche di governo nell’estate di quello stesso anno.

Nell’estate successiva, quella del 1973, dopo un accordo fra le correnti democristiane raggiunto nello studio del presidente del Senato Fanfani, a Palazzo Giustiniani, alle spalle di un congresso di partito non ancora aperto, si tornò al centro sinistra con Rumor a Palazzo Chigi e lo stesso Fanfani alla segreteria della Dc. Che era però destinata ad essere travolta, insieme col centrosinistra, dalla sconfitta referendaria sul divorzio nel 1974 e dai successivi “equilibri più avanzati” reclamati dai socialisti di Francesco De Martino. E tradottisi, nell’estate del 1976, nella stagione della “solidarietà nazionale” concordata fra la Dc di Moro e il Pci di Enrico Berlinguer.

Fu sempre d’estate, tre anni dopo, che fu concepita la stagione del “pentapartito”, esteso dai liberali ai socialisti, sia pure a fasi alterne, col primo governo di Francesco Cossiga. E dopo lo spavento procurato alla Dc dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini conferendo l’incarico di presidente del Consiglio al segretario del Psi Bettno Craxi. Che sarebbe comunque arrivato a Palazzo Chigi, alla guida di un pentapartito completo, nell’estate del 1983: il 4 agosto.

Sempre d’estate, tre anni dopo, sarebbero cominciate le spallate del segretario della Dc Ciriaco De Mita alla presidenza socialista del Consiglio reclamando la famosa “staffetta”, deviata alla fine verso le elezioni anticipate del 1987.

D’estate, il 22 luglio 1989, nacque il sesto e penultimo governo di Giulio Andreotti, destinato ad essere il penultimo anche della cosiddetta prima Repubblica, travolta nell’estate del 1992 dalla ghigliottina giudiziaria di “Mani pulite” e dalle stragi di mafia.

L’ultimo governo vero e proprio della prima Repubblica fu quello del socialista Giuliano Amato, nato il 28 giugno 1992 e sostituito nella primavera del 1993 dal governo di transizione alla seconda Repubblica affidato dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro  all’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi.

Poi le estati divennero sostanzialmente piatte sul piano politico, salvo quella del 2011, quando una crisi economica e finanziaria spianò la strada in autunno al governo tecnico di Mario Monti.

Ora, con un’estate alle porte sotto minaccia o rischio addirittura di elezioni anticipate, sia pure tra alti e bassi che hanno spiazzato lo stesso presidente della Repubblica, può risultare comprensibile -credo- il rimpianto delle vecchie e pur faticose estati politiche di un vecchio cronista. Che ricorda tra i momenti più duri d’estate quelli del 1968, quando si travestì da bagnante a Terracina per fare la posta a Moro, con la complicità del caposcorta Oreste Leonardi, per carpirne le riflessioni dopo l’allontanamento da Palazzo Chigi, e sulla strada dell’opposizione all’interno della pur sua Dc: un Moro tanto immerso nelle riflessioni e delusioni, quasi di esiliato, da conservare l’abito da passeggio sotto l’ombrellone. A 40 anni dalla morte lo ricordo ancora in modo struggente.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Davanti alla crisi finisce la pazienza anche dei mercati, dopo quella di Mattarella

            Dopo la pazienza del presidente della Repubblica, e forse anche per effetto del suo esaurimento, davanti alla crisi di governo sembra finita anche la pazienza dei mercati, come si dice un po’ troppo genericamente o ipocritamente, per non chiamare per nome quelli che ne abusano, cioè gli speculatori.

            E’ tornato sulla scena, per nulla trattenuto dall’annuncio di un governo “neutrale” in arrivo per la gestione delle elezioni anticipate, estive, autunnali o primaverili che potranno rivelarsi, il fantasma di mister Spread, che è il differenziale fra i titoli di Stato italiani e tedeschi. Fantasma, poi, fino ad un certo punto perché  salendo esso produce effetti per niente immaginari, cioè il deprezzamento dei titoli del già troppo ingente debito pubblico italiano, per cui costerà di più rinnovarli alla loro scadenza, come sarà necessario fare per le condizioni della nostra economia, e della nostra società intesa in senso lato,  non solo politico.

            Alla ricomparsa di questo maledetto mister Spread i partiti, a cominciare da quelli prevalsi nelle elezioni del 4 marzo, cioè i grillini a sinistra e i leghisti a destra, con tutte le approssimazioni che meritano questi vecchi punti di riferimento, hanno fatto spallucce. Anzi, di peggio. Hanno reclamato ancora di più elezioni ravvicinate, che è come dare lo zucchero a un malato di diabete, fingendo peraltro di essere ancora disposti a trattare per una soluzione “politica” della crisi, non tecnica o “neutrale” come nelle riflessioni e decisioni del capo dello Stato.

            La finzione di questa disponibilità di grillini e leghisti a trattare, rovesciando su Mattarella la responsabilità dello stallo della crisi, sta nella lingua un po’ troppo biforcuta della Lega. Il cui segretario Matteo Salvini, nuovo leader peraltro del centrodestra, ha appena confermato al Messaggero di non volere rompere con l’alleato Silvio Berlusconi, invitato invece pubblicamente dal plenipotenziario dello stesso Salvini, il capogruppo alla Camera Giancarlo Giorgetti, a fare il cosiddetto passo indietro reclamato dai grillini, lasciandosi chiudere in uno sgabuzzino più o meno arieggiato.

           Schermata 2018-05-09 alle 07.08.41.jpg Questa finzione, a dir poco, ha aumentato naturalmente l’impazienza del capo dello Stato, apparso “irritato” al quirinalista più accreditato, che è Marzio Breda, del Corriere della Sera. Il quale ne ha riferito anche il duro giudizio espresso sull’annuncio della sfiducia annunciato da grillini e leghisti, e di malavoglia anche dai forzisti di Berlusconi, al governo “neutrale” in cantiere al Quirinale: un annuncio “brutale e poco rispettoso” delle prerogative del capo dello Stato. E -aggiungerei-  dell’unità nazionale che il presidente della Repubblica rappresenta per esplicito dettato dell’articolo 87 della Costituzione, anche quando egli assume decisioni o formula valutazioni non condivise da tutti.

            Ciò è accaduto, per esempio, quando Sergio Mattarella ha negato alla coalizione di centrodestra il passaggio di un tentativo di soluzione della crisi, giocando sulla distinzione -come ha scritto sempre Breda sul Corriere– fra “l’incarico” che gli avrebbe chiesto Salvini nelle consultazioni e il “pre-incarico” che lui al massimo avrebbe potuto o voluto concedergli. E comunque non gli ha dato, senza neppure dargli il tempo di rifiutarlo, almeno stando alle cronache.

           Se poi i verbali delle consultazioni al Quirinale contenessero altro, il discorso naturalmente cambierebbe. Ma non cambierebbe comunque lo sviluppo al quale ormai  Mattarella ha destinato la crisi con la formazione di un governo scelto da lui stesso in piena autonomia, dal presidente del Consiglio ai ministri, e a qualsiasi costo.

           

Blog su WordPress.com.

Su ↑