Renzi sullo scivolo delle intercettazioni

Per capire le condizioni non so se più comiche o più tragiche nelle quali sono ridotte in Italia l’amministrazione della giustizia e la credibilità dell’informazione, specie di quella che finge di sfidare spavaldamente la legge e il potere per cercare di vendere una copia in più nelle edicole -che peraltro chiudono sempre più numerose, tanto poco vendono ormai i giornali- basterà sapere che a violare il cosiddetto segreto d’ufficio, o istruttorio, si rischiano meno di cinque euro al giorno di multa per un mese. Bastano e avanzano per evitare un mese, appunto, di carcere. E ciò ammesso e non concesso che ci sia in Italia un giudice, dico uno, che sia capace di mandare in galera un giornalista così taccagno da non volere spendere neppure 129 euro: l’equivalente di una buona cena in tre, compresa la mancia al cameriere che si è risparmiato il gusto di rovesciargli addosso qualcosa perché, con quella supponenza che ha, ed esposizione di telefonini ed accessori, gli stava antipatico.

In questa situazione pensate veramente che qualcuno possa prendere sul serio l’immancabile annuncio dell’apertura di un’indagine all’altrettanto immancabile scoop, come si chiama in gergo giornalistico la pubblicazione di qualcosa che i concorrenti non hanno? Per esempio, il brogliaccio di una intercettazione telefonica. Beh, è difficile, direi disumano, trovare qualcuno che possa da una parte preoccuparsi o dall’altra indignarsi e sperare di trovarsi di fronte alla volta buona per vedere qualcuno condannato a pagare sia pure meno di 5 euro al giorno, ma in compenso -magari- qualche magistrato o qualche altro delatore, diciamo così, a rischio di carriera o di posto.

 

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Eppure voglio essere disumano o sciocco, come preferite. E sperare -non foss’altro per vedere smascherare una buona volta qualcuno- che il capo della Procura di Roma, il buon Giuseppe Pignatone, venga veramente a capo dell’origine dello scoop del Fatto Quotidiano –e di chi sennò- che è riuscito nell’impresa che pure sembrava impossibile di danneggiare e nello stesso tempo aiutare la persona presa di mira: in questo caso Matteo Renzi. E chi sennò, di nuovo, visto che il segretario del Pd ha preso ormai stabilmente il posto, quanto a ossessione, del Silvio Berlusconi dei tempi migliori ?

Parlo dello scoop dell’intercettazione telefonica nella quale il 2 marzo scorso, alla vigilia del suo interrogatorio nella Procura di Roma come indagato di traffico d’influenze illecite per gli affari della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, nota ormai come Consip, Tiziano Renzi si prese una bella ramanzina dal figlio Matteo, preoccupato che il padre con le sue bugie, reticenze o quant’altro gli rovinasse definitivamente la carriera politica. Una ramanzina -ecco l’aspetto doppio dello scoop- che da una parte fa fare a Renzi la figura dello “statista” o della “persona perbene”, come hanno detto i suoi sostenitori, confortati dallo scrupolo dell’ora risegretario del Pd perché il padre dicesse ai magistrati tutta la verità, ma dall’altra lo ripropone alla propaganda dei grillini e dintorni come parte di un giro “familistico” -dicono anche i suoi ex compagni di partito che ne hanno rovesciato la sigla da Pd a Dp- poco consono ad uno statista, o aspirante tale.

Quello uscito peggio dall’intercettazione è il padre di Renzi, che non a caso ha inveito alla maniera grillina contro i giornalisti curiosi di raccoglierne le reazioni. Ma a suo favore, sul piano giudiziario, e almeno sinora, rimane la scoperta fatta dalla Procura di Roma della manipolazione di un’altra intercettazione di un colloquio fra due imputati o indagati usata per contestargli il reato di traffico di influenze illecite. Manipolazione della quale è stato chiamato a rispondere il capitano di un nucleo speciale -ecologico- dei Carabinieri usato per un certo tempo tanto dai magistrati napoletani quanto dai magistrati romani per condurre l’inchiesta Consip.

 

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A questo punto conviene che io vi ricordi alcune date per farvi capire come e perché mi sia venuta la voglia disumana di sperare che il buon Pignatone venga a capo questa volta della solita fuga di notizie e documenti utili non al processo vero, nei tribunali, ma a quello mediatico. Che serve non a cercare e punire il colpevole, ma semplicemente a sputtanare -scusatemi la franchezza- il disgraziato di turno.

La telefonata fra Renzi padre, col telefono regolarmente e prevedibilmente sotto controllo, e Renzi figlio è della prima mattina del 2 marzo scorso. Telefonata il cui brogliaccio steso dalla polizia giudiziaria è appunto lo scoop del Fatto Quotidiano di ieri, 16 maggio.

Appena tre giorni dopo quella telefonata, il 5 marzo, Pignatone decide o annuncia di fare a meno della polizia giudiziaria ereditata da Napoli, sostituendola con un’altra, sia pure della stessa Arma, per proteggere meglio la sua inchiesta da rischi di fughe di notizie o documenti. Ma nel frattempo il brogliaccio di quella telefonata ha preso due strade: una è quella di Roma, dove Pignatone decide di non mettere il documento neppure agli atti non ravvisandovi -come ha annunciato a scoop avvenuto da parte del Fatto Quotidiano– di non avervi trovato nulla di penalmente rilevante, come si dice in gergo tecnico. L’altra strada è quella di Napoli, dove il nucleo dei Carabinieri scaricato, diciamo così, da Pignatone continua a godere della fiducia della Procura. Nella quale lavora, fra gli altri, l’ormai famosissimo sostituto Henry John Voodcok, ora -guarda caso- sotto esame al Consiglio Superiore della Magistratura.

Ma con le date non è finita. Pignatone torna a farsi vivo il 3 aprile con un articolo su Repubblica contro i pericoli della gogna mediatica seguita alla violazione del segreto istruttorio e il 13 aprile con un intervento contro la pratica dei rapporti privilegiati o particolari fra magistrati o uffici giudiziari e certi giornalisti o giornali. Nel frattempo lo stesso Pignatone ha aperto il vaso di Pandora contestando al già ricordato capitano dei Carabinieri di cui si era liberato il 5 marzo la manomissione dell’intercettazione, risalente allo scorso mese di dicembre, servita a coinvolgere nelle indagini il padre di Renzi e a impensierirne il figlio. Che vorrebbe -credo giustamente- un babbo meno loquace, più sincero e meno pasticcione, per quanto sia finito nel tritacarne giudiziario per una intercettazione manomessa.

Raccontatovi tutto questo, lascio la soluzione del giallo dell’ultimo, per ora, scoop del giornale di Marco Travaglio, e dell’inviato giudiziario Marco Lillo, alla vostra fantasia, in attesa alla conclusione delle indagini annunciate da Pignatone.

 

 

 

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La fiction del terribile 1993 tradita dal ricordo di Clelio Darida

L’ultima volta che ci sentimmo, perché ormai ci si sentiva soltanto uscendo lui raramente, già prima di esservi impedito anche da una brutta caduta e dalla frattura del femore, Clelio Darida mi chiese con amara ironia quante possibilità avesse di essere invitato da qualche “rinsavito” a partecipare a qualcuna delle celebrazioni che si stavano organizzando tra Milano e Roma, ma soprattutto a Milano, per i 25 anni trascorsi dall’esplosione della cosiddetta Tangentopoli. O, come le avevo chiamate in un’altra telefonata, sempre con lui, le “infauste nozze d’argento” dell’inchiesta ambrosiana nota come “Mani pulite” con una opinione pubblica assetata di manette e di processi. Ma soprattutto di processi mediatici: quelli che si svolgono sulle piazze, metafore dei giornali, col solito rito sommario, grazie al quale l’avviso di garanzia va inteso alla rovescia, di garanzia cioè per il magistrato che sospetta e accusa, non per lo sventurato che viene iscritto nel registro degli indagati e ne è informato, appunto, per potersi difendere meglio.

Il sarcasmo un po’ vendicativo del mio carissimo amico Clelio, morto novantenne giovedì scorso nella sua abitazione romana, per l’improbabile invito a qualcuna delle celebrazioni di Mani pulite in programma nelle settimane che sarebbero state le ultime della sua vita, era più che giustificato. Egli era stato uno dei bersagli più illustri e più ingiustamente colpiti da quella che ancora in troppi ritengono sia stata l’epopea, addirittura, della lotta alla corruzione e della conseguente e meritata fine -secondo loro- della cosiddetta prima Repubblica. Che era pur stata la Repubblica della ritrovata democrazia, dopo il fascismo, della ricostruzione, dopo la terribile guerra e la liberazione del Paese dall’occupazione nazifascista, e delle coraggiose scelte internazionali lungamente osteggiate e poi riconosciute giuste anche dalla forte opposizione comunista, divenuta proprio per questo riconoscimento anch’essa una forza di governo.

Democristiano, anzi democristianissimo di lunga e stretta osservanza fanfaniana, poi schieratosi con Arnaldo Forlani quando si ruppe la corrente dell’allora presidente del Senato, Darida era stato dal 1969 al 1976 un sindaco di Roma particolarmente operoso e abile. Erano cominciati con lui i lavori di costruzione della metropolitana, con tutte le complicazioni annesse e connesse, la costruzione della panoramica di Monte Mario, la decentrazione amministrativa con la nomina dei primi consiglieri circoscrizionali, il risanamento delle borgate.

Sul piano politico la sua sindacatura era cominciata con una dura contrapposizione al Pci per chiudersi con una giunta monocolore democristiana appoggiata esternamente dal partito guidato a livello nazionale da Enrico Berlinguer. Gli era capitato così, con la preveggenza e il realismo della migliore politica, di precedere a livello capitolino quella linea di “solidarietà nazionale” praticata da Moro e da Berlinguer in Parlamento proprio nel 1976, quando Darida, esaurita la sua esperienza di sindaco, saliva di livello e di grado.

Eletto deputato quell’anno, Darida fu nominato sottosegretario al Ministero dell’Interno nel terzo e quarto governo di Giulio Andreotti, sostenuto dal Pci prima con l’astensione e poi col voto di fiducia. Gli capitò così di partecipare col ministro Francesco Cossiga, e con l’altro sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri, moroteo, alla gestione di quella grandissima tragedia politica e istituzionale che fu il sequestro di Moro ad opera delle brigate rosse.

Dal 1979 al 1987 egli fu ministro, in ordine rigorosamente cronologico, dei rapporti col Parlamento, delle Poste, della funzione pubblica e Regioni, della Giustizia e delle Partecipazioni Statali. Incarico, quest’ultimo, che lo portò in rotta di collisione con l’allora segretario del suo partito, Ciriaco De Mita, perché condivise dubbi e proteste del presidente del Consiglio Bettino Craxi e del sottosegretario Giuliano Amato contro la progettata vendita, o svendita, della Sme, che era il reparto alimentare dell’industria pubblica, alla Cir di Carlo De Benedetti. E quando De Mita riuscì a liberarsi di Craxi, per Darida curiosamente non si trovarono più posti di governo disponibili.

All’esplosione di Tangentopoli, nel 1992 con l’arresto del socialista Mario Chiesa a Milano e tutto quello che ne seguì, Darida non si poteva quindi considerare un uomo di prima linea. Avrebbe potuto forse ridiventarlo, con le cadute e le resurrezioni della politica, ma a troncargli la carriera provvidero il 5 giugno 1993 i magistrati di Milano ordinandone l’arresto e destinandolo al carcere ambrosiano di San Vittore, accusato di avere preso tangenti per la costruzione della metropolitana capitolina.

Ma che c’entrava la magistratura di Milano -mi chiederete- con fatti che sarebbero accaduti a Roma? C’entrava per l’abitudine ormai presa a Milano di considerare di propria competenza tutto ciò che di sospetta corruzione poteva essere accaduto ovunque.

Se non mi credete, se pensate che stia esagerando, che sia tra quelli prevenuti verso la Procura milanese guidata con mano ferma in quegli anni da Francesco Saverio Borrelli, vi invito a rileggere con me la pagina 171 del libro autobiografico di Francesco Misiani, magistrato allora in servizio a Roma, intitolato “La toga rossa”. Un magistrato dichiaratamente, direi anzi orgogliosamente di sinistra, prima di sperimentare di persona gli inconvenienti della confusione fra politica e amministrazione della giustizia, e di finire in un’inchiesta per favoreggiamento di un collega -capo dei giudici delle indagini preliminari di Roma, Renato Squillante, accusato e poi condannato per corruzione- che lo avrebbe indotto a lasciare la magistratura, dopo un trasferimento da Roma a Napoli .

A pagina 171 di quel libro Misiani racconta in questi termini un colloquio avuto a Roma col collega Gherardo Colombo, della Procura di Milano, a proposito proprio dell’abitudine dei suoi colleghi ambrosiani di monopolizzare tutte le indagini sul finanziamento illegale della politica: «Colombo rafforzò il suo concetto. “Forse non hai capito, Ciccio, ma qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può fare o non può fare le inchieste. A Milano in questo momento storico irripetibile, si possono fare. Qui a Roma, no”».

Se questa era l’opinione del sostituto procuratore Gherardo Colombo, figuriamoci quella del suo capo Borrelli, a Milano. Di cui Misiani, morto purtroppo nel 2009, scrive a pagina 253 del suo libro, dopo avere raccontato dell’arresto di Squillante a Roma: “In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera (Borrelli) aveva spiegato: “I magistrati romani subiscono una pressione atmosferica che talvolta può essere sentita inconsapevolmente e talvolta può portare a connivenze e complicità”. La risposta di Coiro (Michele Coiro, capo della Procura di Roma, n.d.r.) era stata una dichiarazione di guerra. Aveva convocato -fatto insolito per lui- decine di giornalisti nel suo ufficio. Quindi, con calma, aveva dettato la sua replica: “Le parole di Borrelli sono di eccezionale gravità. Sono stato offeso io e l’intero ufficio da un clima e da modi che hanno testimoniato diffidenza nei confronti della nostra indipendenza e del nostro lavoro”.

Ecco quindi che cos’era, o che cos’erano anche Tangentopoli e il lavoro dei magistrati. Per cui, tornando all’arresto di Clelio Darida a Roma e al suo trasporto istantaneo nel carcere di Milano per cose che avrebbe fatto o gli sarebbero state offerte a 500 chilometri circa di distanza, quanti ne stava percorrendo lui da detenuto, è facile immaginare che cosa gli potesse passare per la mente: a lui, poi, che essendo stato guardasigilli poteva conoscere meglio di altri l’ambiente in cui gli era capitato di finire stando dalla parte di un comune cittadino.

L’accoglienza di Darida a San Vittore non fu delle migliori da parte dei detenuti, abituati a dileggiare i “ladri” che da un anno venivano ordinariamente e quasi quotidianamente portati, sino a poco prima potenti politici e addirittura ministri, e persino della Giustizia. Dopo la prima domenica trascorsa da detenuto, in fila con gli altri per ricevere la comunione nella messa ai carcerati, il direttore del penitenziario si trovò nella incresciosa situazione di chiedere a Darida di astenersene perchè, con le forze di cui disponeva, temeva di non potergli garantire tutta la sicurezza che meritava. E Darida pazientemente lo accontentò.

Per sua fortuna -si fa per dire- quell’estate del 1993 fu torrida sotto tutti i punti di vista. Il 20 luglio si uccise nella cella di San Vittore l’ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, da troppo tempo in custodia “cautelare”, dopo avere scritto una terribile denuncia dei metodi degli inquirenti, ai quali non si era deciso a raccontare quello che si aspettavano a carico di altri, a cominciare naturalmente da Bettino Craxi. Il 23 luglio si uccise a casa sua, a Milano, Raoul Gardini per evitare un interrogatorio da parte di Antonio Di Pietro che immaginava fondatamente destinato a chiudersi col suo trasferimento proprio a San Vittore.

Una volta tanto, i maniaci della manette, i dimostranti smaniosi di vederle scattare alla loro presenza ai polsi del primo disgraziato di passaggio, meglio se noto, vacillarono per qualche giorno. E Darida fu scarcerato il 9 settembre, senza però che i magistrati milanesi rinunciassero a tenersi strette le sue carte processuali. Per togliergliele di mano e indurli a rispettare la competenza territoriale di Roma, nonostante quello che dei magistrati romani pensassero i loro colleghi ambrosiani, a cominciare dal capo Borrelli, dovette intervenire la Corte di Cassazione. Alla quale peraltro si erano rivolti imputati diversi da Darida, tanto questi era da ex guardasigilli timoroso di sembrare un privilegiato, un prevaricatore, o come altro erano considerati i politici.

L’inchiesta a Roma si concluse con l’accertamento della insussistenza delle accuse o dei sospetti, per cui Darida fu prosciolto senza essere neppure rinviato a giudizio. E la chiusura formale della pratica fu ritardata di qualche settimana perché qualcuno da Milano, avvertendo il rischio di ispezioni ministeriali per altri fatti contestati al cosiddetto rito ambrosiano, chiese ai colleghi di Roma, per quanto disprezzati come protagonisti del famoso “porto delle nebbie”, di non fare sovrapporre eventi scomodi.

Nel 1997 Darida avrebbe ottenuto un risarcimento di 100 milioni di lire per ingiusta detenzione: sufficienti forse -ma molto forse- a coprire le spese legali sopportate per difendersi, del tutto e sicuramente insufficienti a ripagare lui, la moglie Wilma e le figlie dal dolore e dalle umiliazioni subite.

E quel benedett’uomo di Silvio Berlusconi non ebbe mai la tentazione di ripagare Darida di tutti i torti subiti riportandolo al Ministero della Giustizia alla prima occasione utile, dopo avere peraltro esordito come presidente del Consiglio incaricato, nel 1994, offrendo il Ministero dell’Interno ad Antonio Di Piero. Scusalo, Clelio carissimo, dove ora stai e dove prima o dopo, se la fede non mi fregherà, potrò raggiungerti, come ho scritto in altra sede per un altro amico che ho perduto di recente e ti somigliava, per cultura e gentilezza, anche se politicamente così diverso da te: Valentino Parlato. Che commentò la tua vicenda- credimi- dicendomi una volta tra un caffè e una sigaretta: “Che schifezza”.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

de Bortoli arruolato nell’offensiva contro un governo Renzi 2

Provo anch’io, una volta tanto, e con un certo fastidio perché disattendo critiche rivolte per tanto tempo ad alcuni colleghi più specialisti di me in questa materia, a travestirmi da pubblico ministero. E a cercare una trama, un’operazione sotterranea non dico escogitata da Ferruccio de Bortoli col suo libro sui “poteri forti, o quasi”, ma quanto meno sviluppatasi attorno alla sua pubblicazione, viste anche le circostanze politiche nelle quali è avvenuta.

Queste circostanze potrebbero essere state previste dall’ex direttore del Corriere della Sera, vista la sua indubbia competenza professionale, ma potrebbero anche essere state semplicemente casuali. Non credo che de Bortoli, per quanto bravo, abbia impiegato solo qualche giorno a scrivere il suo libro, e la sua casa editrice anch’essa solo qualche giorno a stamparlo e a diffonderlo in tempo perché potesse fornire argomenti o pretesti, come preferite, alla nuova campagna politica che è cominciata- come ho appena detto in una intervista a Radio Radicale e approfondirò adesso- contro il risegretario del Pd Matteo Renzi. E’ la campagna contro il tentativo o la tentazione renziana, come preferite, di scalare di nuovo, dopo le elezioni, ordinarie o anticipate che potranno essere, anche Palazzo Chigi, non bastandogli la guida del partito neppure questa volta, come nel 2014, per quanto la situazione politica nel frattempo sia molto cambiata, complicandosi ulteriormente.

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C’è un’intercettazione, chiamiamola così, che mi ha insospettito ed ho ricavata in maniera per niente truffaldina, limitandomi a leggere con qualche attenzione le poche, stringatissime dichiarazioni rilasciate ai giornalisti che lo assediano dovunque dall’ex amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni. Di una cui confidenza o notizia, come volete, si è avvalso de Bortoli nel suo libro scatenando, o riscatenando, le polemiche sul ruolo svolto dall’allora ministra renziana delle riforme e dei rapporti col Parlamento, Maria Elena Boschi, per cercare di salvare dal dissesto nel 2015 la Banca Etruria vice presieduta dal padre. La confidenza, o notizia, è la proposta di acquisto della banca toscana da parte di Unicredit. Che però la lasciò cadere.

Forse la Boschi, oggi sottosegretaria di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, annunciando o minacciando querele si aspettava una smentita da Ghizzoni che la togliesse dall’impaccio, o impiccio, di essere accusata di avere mentito al Parlamento. Dove, quand’era ancora ministra e rischiava la sfiducia “individuale” proposta dai grillini e dintorni, lei aveva dichiarato due anni fa di non avere fatto alcunché per favorire né il padre né la sua banca. Qualcosa invece, dopo la rivelazione di de Bortoli, risulterebbe che avesse fatto, per quanto inutilmente, e per quanto -aggiungo io- di sconveniente solo per gli ipocriti e i soliti moralisti da quattro soldi. Proporre un acquisto nella convinzione, giusta o sbagliata, che potesse essere un affare per entrambe le parti -l’Unicredit e la Banca Etruria- e soprattutto per tutti i clienti e depositanti a rischio di perdere i loro risparmi, è cosa alquanto diversa -dovete convenire- dall’imporre. Nè può essere considerato irrilevante o insignificante il fatto che Ghizzoni non sia stata penalizzato per quella sua risposta negativa, dopo aver fatto verificare i conti e avere valutato la faccenda a dovere.

Per nulla intimidito dal rischio di beccarsi una querela o una denuncia, da solo o in compagnia dell’’ex direttore del Corriere della Sera, Ghizzoni non ha smentito. E quindi ha implicitamente confermato, ma per farlo esplicitamente ha posto una condizione: che a chiederglielo non sia il primo giornalista di passaggio, ma la commissione parlamentare d’inchiesta che viene annunciata un giorno sì e l’altro pure, anche da Renzi, ma di cui francamente si stenta ad avvertire il reale concepimento. A meno che, per effetto di qualche procedimento giudiziario, Ghizzoni non si senta porre la domanda, naturalmente, da un magistrato.

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Mi chiederete a questo punto cosa c’entri e soprattutto che cosa sia l’intercettazione, per quanto metaforica, cui ho accennato prima per farmi una certa idea del caso de Bortoli-Boschi. E’ questa frase di Ghizzoni: “Se il governo regge non può dipendere da me”.

Ciò significa che Ghizzoni, un banchiere abituato, com’egli stesso ha avvertito, ad avere rapporti con i politici, si è reso perfettamente conto che il putiferio scatenato dal libro di de Bortoli potrebbe sfociare in una crisi di governo, essendo la figura politica della Boschi rilevante al di là della sua attuale carica di sottosegretaria, peraltro alla Presidenza del Consiglio, che vale praticamente quanto e ancora più di un ministro.

Ebbene, ad una crisi di governo l’ex amministratore delegato di Unicredit, per quanta amicizia e stima possa avere per de Bortoli, non sembra volere contribuire. Sarebbe una crisi peraltro destinata probabilmente a travolgere non solo il presidente del Consiglio Gentiloni, ma forse anche la legislatura già declinante di suo, in tutti i sensi, e il destino stesso di Renzi aspirante, reale o potenziale che sia, a ripresidente del Consiglio, dopo essere diventato risegretario del Pd. Un Renzi che non riuscirebbe forse a salvarsi neppure se rompesse cautelativamente il suo sodalizio politico con la Boschi.

Se poi mi chiedete su quali elementi concreti io basi il sospetto, o la convinzione, che Renzi punti al ritorno a Palazzo Chigi, rischiando di mancare l’obbiettivo a questo punto anche per il putiferio scatenato, volente o nolente, da de Bortoli col suo libro, o con la strumentalizzazione che ne stanno facendo gli avversari del segretario del Pd, vi confesserò anche questo.

Ho l’abitudine di seguire con una certa costanza gli appuntamenti domenicali di Eugenio Scalfari con i lettori di Repubblica, anche per capire cosa stia bollendo nella pentola o nella testa del segretario del Pd da quando ho capito che tra i due c’è un intenso rapporto di amicizia e consultazione, rivelato e raccontato con lodevole trasparenza, e un pizzico di civetteria, dallo stesso Scalfari.

Quest’ultimo sino a qualche settimana fa era scettico, se non decisamente contrario ad un ritorno di Renzi anche a Palazzo Chigi. Ma ad un certo punto, dopo la vittoria nelle primarie congressuali dell’ex presidente del Consiglio, don Eugenio ha cominciato a riconoscere che i propositi di Renzi, da lui molto apprezzati, di adoperarsi per una grande e seria riforma istituzionale dell’Unione Europea, con la nomina di un ministro unico delle Finanze e l’elezione diretta del presidente della Commissione di Bruxelles, e contemporaneamente presidente del Consiglio Europeo, potrebbero essere più efficacemente perseguiti se il segretario del Pd tornasse ad assumere la guida del governo. Specie adesso che Renzi si è scelto per il partito, coinvolgendolo già nelle primarie, un vice segretario unico e più operativo come Maurizio Martina, per adesso anche ministro dell’Agricoltura.

Ecco, ora vi ho spiegato, o confessato, tutto. E chiamatemi pure, se volte, visionario.

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L’omaggio della sindaca Raggi al suo predecessore Darida in Campidoglio

La sindaca grillina di Roma, Virginia Raggi, ha una volta tanto sorpreso piacevolmente i tradizionalisti, specie in un momento in cui costoro potevano aspettarsi qualche gesto di cattivo umore per l’offensiva della ramazza scatenata contro di lei dal Pd. Che ha movimentato la domenica con i militanti in tenuta gialla, scope, pale e sacchi per raccogliere le immondizie sparse per la città.

Nonostante questi grattacapi, per non parlare degli altri accumulatisi nei mesi e nelle settimane precedenti, la sindaca ha tenuto a rispettare la tradizione di ospitare per l’ultima volta nell’aula Giulio Cesare chi ha avuto la ventura, o svenura, secondo i casi, di guidare l’amministrazione capitolina.

E così il feretro di Clelio Darida, sindaco democristiano di Roma dal 1969 al 1976, in un periodo denso di lavoro, dall’inizio della costruzione della metropolitana alla panoramica di Monte Mario, dal risanamento delle borgate al decentramento circoscrizionale, è stato deposto nell’aula del Consiglio Comunale. Dove in quei sette anni Darida era stato protagonista di varie maggioranze, l’ultima delle quali anticipatrice della “solidarietà nazionale” realizzata a livello nazionale da Aldo Moro e Giulio Andreotti, l’uno al partito e l’altro governo, con l’appoggio esterno dall’allora Pci di Enrico Berlinguer.

Oltre a rispettare la tradizione dei sindaci di Roma che si accomiatano anche da morti dall’aula Giulio Cesare, la sindaca grillina ha atteso personalmente l’arrivo del feretro, ha ospitato le figlie di Darida nel suo ufficio affacciato sui Fori Imperiali, lo stesso nel quale aveva lavorato il papà nei setti anni della sua amministrazione, ed ha lasciato la stanza a loro disposizione per tutta la durata dell’esposizione del feretro, fra le 8,30 e le 14.

Quello della sindaca Raggi è stato, a suo modo, anche un gesto riparatore rispetto all’abitudine del suo movimento di liquidare il passato come un’epoca di nefandezze, quando bastava un avviso di garanzia per liquidare l’avversario politico di turno e condannarlo in piazza all’infamia perpetua.

Nella falsa epopea di Mani pulite a Darida, già ministro della Giustizia, oltre che ex sindaco di Roma, toccò anche la nefandezza -essa sì- di un arresto ingiusto per corruzione, ordinato dai soliti -allora- magistrati di Milano. Che si erano appropriati di un’indagine spettante e poi restituita dalla Corte di Cassazione a Roma, dove Darida fu prosciolto senza essere neppure rinviato a giudizio.

Ghizzoni alza la posta del silenzio sulla Boschi

In pieno giro d’Italia, che festeggia peraltro il centenario con l’edizione di questo 2017, c’è un uomo né tanto giovane né tanto anziano in fuga da parecchi giorni, inseguito da un gruppone di uomini che non si sa se vogliano più passargli una borraccia d’acqua o farlo cadere.

Attenti, non sto parlando di un corridore. E neppure gli inseguitori lo sono, essendo semplicemente dei giornalisti sparsi per la Val Trebbia, dove l’uomo gira tra casa, supermercati e ristoranti, a piedi o in macchina, non in bicicletta. E’ l’ex amministratore dell’Unicredit Federico Ghizzoni, un po’ imbarazzato ma un po’ anche compiaciuto di avere tra le mani o i piedi, pur non volendolo, mostrando anzi di non gradirlo, il destino del governo in carica e forse anche di quello che potrebbe o vorrebbe prenderne poi il posto. Essi potrebbero, rispettivamente, cadere e non nascere, né sotto la guida del redivivo segretario del Pd Matteo Renzi né presieduto da qualche altro suo uomo o donna di fiducia.

A volte Ghizzoni, pur distratto dai nuovi impegni di lavoro col Fondo Clessidra e addirittura con la Banca Rotschild, sembra la spalla, volente o nolente, dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli. Che gli ha attribuito, senza che lui abbia colto alcuna delle occasioni offertegli per smentire, una richiesta ricevuta due anni fa dall’allora ministra renziana delle riforme e dei rapporti col Parlamento, Maria Elena Boschi, di acquistare e salvare la pericolante Banca Etruria vice presieduta dal papà. Ma a volte, specie nelle ultime 48 ore, il banchiere sempre la spalla, sempre volente o nolente, anche di Renzi, l’opposto di de Bortoli, al quale il segretario del Pd ha dato dell’”ossessionato” da lui per una mancata elezione neppure a presidente della Rai -carica rifiutata precedentemente per due volte dall’interessato- ma solo a semplice consigliere d’amministrazione da parte della commissione parlamentare di cosiddetta vigilanza.

“Parlerò della faccenda Boschi-Etruria solo in Parlamento, davanti alla commissione d’indagine che sta per essere formata”, ha detto praticamente Ghizzini mentre Renzi in persona confermava in un salotto televisivo della Rai di volere appunto quella commissione e di non vedere l’ora di vederla all’opera. E ciò nonostante il parere contrario espresso nelle scorse settimane, prima ancora che Renzi riconquistasse la segreteria del Pd, dal capogruppo del partito al Senato, Luigi Zanda, Che da uomo di mondo, non meno pratico di de Bortoli di frequentazioni dei “poteri forti, o quasi” sopravvissuti miracolosamente in Italia alla rivoluzione giudiziaria di 25 anni fa, o da essa rimodellati, sconsiglia la confezione di una specie di bomba atomica come una commissione d’inchiesta parlamentare, cioè politica, sul sistema bancario italiano in piena campagna elettorale. Della quale è inutile, e un po’ anche sin troppo ipocrita attendere la convocazione ufficiale, per elezioni anticipate o ordinarie che siano, perché ormai essa è in corso da un bel po’: almeno dalla clamorosa sconfitta referendaria di Renzi, il 4 dicembre scorso, sulla riforma costituzionale.

 

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C’è un altro uomo in fuga, e solo al comando, per quanto più anziano o meno giovane di Ghizzoni, e per giunta alquanto malmesso per i postumi di un ictus, in questa Italia del centenario giro ciclistico. E’ Umberto Bossi. Che, sconfitto sonoramente nelle primarie della Lega, insieme col pur potente governatore lombardo Roberto Maroni, dal segretario uscente e rientrante Matteo Salvini, che è prevalso con l’82 per cento dei voti sul concorrente Gianni Fava, è grandemente tentato dalla scissione. O addirittura l’avrebbe già decisa affidandone l’organizzazione ad un albergatore milanese che ha l’hobby di attrezzare da carri armati i trattori agricoli, come quello piazzato tanti anni fa in una piazza di Venezia per cercare di liberare la compianta Repubblica Serenissima dal pesante giogo italiano: un giochetto con pendenze giudiziarie, pare, ancora in corso o potenziali.

Se davvero, come qualche retroscenista si è avventurato a immaginare, Silvio Berlusconi puntasse proprio su questi progetti bossiani di scissione per avere a che fare, nei suoi disegni di ricostruzione di una coalizione elettorale di centrodestra, magari da smontare dopo il voto per poi accordarsi solitariamente con il Pd, l’ex Cavaliere sarebbe messo veramente male.

Ringalluzzito proprio da quell’82 per cento appena preso nelle primarie, che domenica prossima gli consentirà di essere confermato segretario dal congresso, Matteo Salvini non sembra proprio rassegnato ad accordarsi con l’ex presidente del Consiglio alle condizioni volute da quest’ultimo. Egli non ha per niente scartato il binocolo messo da parte dopo le elezioni presidenziali francesi per regalarlo, quando sarà, proprio a Berlusconi perché vi possa scorgere la sua Forza Italia al livello del 30 per cento e più di voti presi dalla pur sconfitta Marine Le Pen nella corsa all’Eliseo. Dove è pur vero che da ieri regna o presiede fisicamente e felicemente il giovane Emmanuel Macron, ma a Salvini interessa poco perché per lui continuano curiosamente a contare di più i voti della sua amica Marine. Altro che “esaurimento della stagione lepenista” della Lega, come va dicendo Maroni imitando un po’, forse a sua insaputa, l’Enrico Berlinguer degli anni Ottanta: quando l’allora segretario del Pci annunciò in televisione, criticando il colpo militare di Stato appena avvenuto in Polonia su disposizione del Cremlino, “l’esaurimento della fase propulsiva della rivoluzione sovietica d’ottobre” del 1917.

 

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A proposito di esaurimento di fasi propulsive, mi sembra che si sia arrivati a questo nella confezione dei titoli nella redazione di Libero. Dove, volendo sfottere ad ogni costo una coppia politica da cui sembrano francamente ossessionati pure loro, hanno giocato con le ramazze usate per le strade di Roma dai militanti piedini per rimuovere la monnezza inevasa, diciamo così, dall’amministrazione grillina del Campidoglio. Ed hanno sparato questo titolo su tutta la prima pagina: “Renzi e Boschi non scopano”. Nel senso che non hanno partecipato alla ramazzata.

Chiedo scusa a entrambi, Renzi e la Boschi, e relativi familiari, come giornalista, sia pure di terzo, quinto, decimo, infimo ordine, rigorosamente con la minuscola perché so che dell’Ordine professionale con la maiuscola il direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri, non vuole neppure sentir parlare, considerandolo una pagliacciata.

 

 

 

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La morte di Darida rovina la “festa” dei 25 anni di Mani Pulite

Di argomenti e di fatti ne avrei per tenere anche questi miei Graffi domenicali, che peraltro potrebbero essere tra gli ultimi, nella stretta attualità politica.

Potrei partire dalla benzina rovesciata da Matteo Renzi sul fuoco della polemica attorno a Maria Elena Boschi, Banca Etruria e contorni, innescata dal libro di Ferruccio de Bortoli, accusando l’ex direttore del Corriere della Sera di essersi voluto vendicare di una presunta mancata nomina alla presidenza della Rai. Che de Bortoli si è invece vantato, credo non a torto, di avere rifiutato due volte.

Piuttosto, come ho già scritto qui, Renzi avrebbe potuto accusare de Bortoli con maggiore fondatezza, ma minore convenienza per se stesso, di avere voluto vendicarsi del ruolo dell’allora presidente del Consiglio, dallo stesso de Bortoli avvertito forse non a torto, nell’allontanamento due anni fa dalla direzione –la seconda- del maggiore giornale italiano. Di cui peraltro De Bortoli medesimo già si vendicò nel sostanziale, e provvisorio, commiato da via Solferino, dove sarebbe presto tornato come editorialista, dando a Renzi, che era appunto il capo del governo, del “maleducato di talento”.

Potrei proseguire con le primarie nelle quali il segretario della Lega Matteo Salvini sta misurando la sua forza nel partito dopo la crisi della sua stagione “lepenista” annunciata non più dal solo, solito e vecchio Umberto Bossi ma ora anche dall’influentissimo governatore lombardo Roberto Maroni. Che, diversamente da Salvini, ritiene ancora essenziale e irrinunciabile l’alleanza politica ed elettorale con Silvio Berlusconi.

Potrei infine tornare sui maneggi politici e parlamentari per una nuova legge elettorale dopo gli appelli in direzione maggioritaria rivolti a Renzi da Romano Prodi e da Eugenio Scalfari. Il quale, peraltro, ha profittato dell’occasione per rivisitare la scuderia dei “cavalli di razza” o della riserva della Repubblica -quella vera, non la sua di carta- riammettendovi Enrico Letta, dimenticato qualche settimana fa, aggiungendovi -forse con un po’ di esagerazione- il pur simpatico Giuliano Pisapia e confermandovi Renzi, Walter Veltroni e il già ricordato Prodi.

Ma questi cenni alla cosiddetta attualità potrebbero pure bastare e avanzare. Mi preme invece occuparmi di più di un amico appena scomparso, Clelio Darida. La cui vicenda politica e umana mi sembra particolarmente meritevole di essere ricordata specie in questo anno in cui i vari Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo celebrano i 25 anni trascorsi dalla presunta, assai presunta epopea di Mani pulite.

         Così vennero pomposamente chiamate, tra cortei di tifosi delle manette ed altro, le inchieste sul finanziamento illegale della politica: un fenomeno già noto da tempo, almeno dalla famosa intervista degli anni Ottanta dell’allora ministro andreottiano Franco Evangelisti a Giampaolo Pansa intitolata “A Frà che te serve?”, ma su cui nel 1992 la magistratura all’unisono, da Milano a Trapani, giusto per indicare due città quasi agli estremi dello stivale, decise di essere implacabile.

 

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Clelio Darida, morto giovedì scorso nella sua abitazione romana alla bella e fortunata età di 90 anni, compiuti peraltro pochi giorni prima, fu tra quelli colpiti dal ciclone giudiziario chiamato anche Tangentopoli, da tangente naturalmente.

Qualcuno a Milano nel 1993 ne fece il nome tra quanti, col consenso di Cesare Romiti, inquisito pure lui, avrebbero preso soldi per la realizzazione della metropolitana a Roma. Di cui Darida, democristiano di stretta osservanza fanfaniana sino a quando la corrente non si spaccò e lui preferì Arnaldo Forlani all’allora presidente del Senato, era stato sindaco dal 1969 al 1976.

Erano stati sette anni d’intenso lavoro amministrativo e politico, con l’avvio di importanti opere come la metropolitana e la cosiddetta panoramica di Monte Mario, il risanamento delle borgate, il decentramento comunale con le nomine dei primi 240 consiglieri circoscrizionali. La sua ultima giunta capitolina era stata monocolore democristiana con l’appoggio esterno dei comunisti, anticipatrice di quella linea e politica di cosiddetta solidarietà nazionale che il presidente della Dc Aldo Moro concorse in modo decisivo a realizzare con il terzo governo di Giulio Andreotti nel 1976, proprio mentre Darida finiva la sua esperienza capitolina e tornava in Parlamento. Dove avrebbe proseguito la sua carriera politica facendo il sottosegretario all’Interno, peraltro proprio durante il tragico sequestro di Moro ad opera delle brigate rosse, e poi il ministro della Funzione pubblica, delle Poste, delle Partecipazioni Statali e della Giustizia.

Fu, quindi, una carriera di governo di tutto rispetto. Che avrebbe ben potuto proseguire, pur nei marosi della caduta della cosiddetta prima Repubblica e nelle trasmigrazioni politiche che seguirono, con la nascita di nuovi partiti e il cambiamento di nome dei vecchi, se la mattina del 7 giugno 1993 Darida non fosse stato arrestato per ordine della magistratura ambrosiana e tradotto in carcere a San Vittore sotto l’accusa di corruzione per le presunte tangenti già accennate.

 

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Darida, mentre la moglie Wilma a Roma si dava da fare disperatamente per allertare gli amici politici sulla grande ingiustizia che stava subendo il marito, protestando in modo particolarmente vigoroso col vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Galloni, amico di partito e di lotta giovanissima contro l’occupazione nazista della Capitale, rimase a San Vittore sino al 9 settembre del 1993.

Per darvi un’idea delle condizioni in cui lo misero i magistrati di Milano basterà riferirvi delle preoccupazioni una volta espresse a Darida dal direttore del carcere di San Vittore per la tutela della sua sicurezza, se avesse voluto continuare ad assistere alla messa nelle festività di nostro Signore. E Darida dovette rinunciarvi, dopo essere stato accolto in carcere dai detenuti con lo scherno che vi lascio immaginare per essere stato ministro della Giustizia.

Su ricorso peraltro non suo, ma di un altro imputato nello stesso procedimento, la Cassazione tolse l’inchiesta che lo riguardava a Milano perché la competenza territoriale era naturalmente e sfacciatamente di Roma, dove il reato sarebbe stato consumato. E a Roma, cerca e ricerca, i magistrati non trovarono uno straccio di prova a carico dell’imputato “eccellente” catturato dai colleghi di Milano. Dove- sentite quest’altro particolare- vennero a sapere dell’imminente proscioglimento ormai di Darida, senza neppure andare al rinvio al giudizio, mentre si stava disponendo, o era giù stata disposta, non ricordo bene, un’ispezione ministeriale per altri motivi.

L’allora sostituto della Procura di Roma Francesco Misiani, come poi avrebbe raccontato in un libro scritto dopo aver dovuto lasciare la magistratura, si sentì chiamare da un collega di Milano che gli chiedeva di ritardare almeno di qualche settimana o mese il proscioglimento di Darida. Che alla fine, solo nel 1997, avrebbe ottenuto dallo Stato un risarcimento di 100 milioni di lire per l’ingiusta detenzione e tutto il resto.

A quello sprovveduto, politicamente, di Silvio Berlusconi non venne mai la tentazione di proporre proprio a Darida la nomina a ministro della Giustizia in uno dei suoi governi. No, per il suo primo Gabinetto, come si può anche chiamare in gergo tecnico l’esecutivo- l’allora Cavaliere propose il Ministero dell’Interno a Di Pietro.

Addio, Clelio, amico mio carissimo. Quanto mi mancheranno i tuoi incontri, le tue cene, le tue telefonate, che erano diventate alla fine l’unico modo di scambiarci idee e impressioni. Aspettami anche tu, se è davvero possibile incontrarsi dopo la morte, come mi è appena capitato di scrivere salutando un altro amico, di tutt’altre idee e formazione politica, appena scomparso: Valentino Parlato.

 

 

 

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Matteo Renzi riporta il Pd all’anagrafe riformista

Anche se fu lui, appena eletto segretario la prima volta, a portare il Pd nella famiglia del socialismo europeo, come nessuno dei suoi predecessori aveva osato per paura delle reazioni della componente di provenienza democristiana, a Matteo Renzi non è riuscito di chiamare socialista o semplicemente di sinistra il suo partito nella prima intervista fatta dopo il ritorno al Nazareno. Intervista concessa, con scelta non certamente casuale, al Foglio fondato da Giuliano Ferrara. Che -non dimentichiamolo- è l’autore del libro che battezzò già il primo Renzi “royal baby”, inteso come figlio politico del sovrano Silvio Berlusconi, chiamato sul Foglio con ironia solo apparente “l’amor nostro”.

E’ un amore, quello di Ferrara e amici, un po’ affievolitosi durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, quando i “foglianti” avrebbero voluto Berlusconi schierato con Renzi, o almeno defilato. Ma la passione è tornata da quando il presidente di Forza Italia ha un po’ rioccupato la scena politica dividendola proprio con Renzi. Che viene accusato da critici ed avversari, fuori ma anche dentro il suo partito, di coltivare il disegno, senza neppure nasconderlo tanto, di allearsi con l’ex presidente del Consiglio azzurro dopo le prossime elezioni, destinate a non produrre automaticamente un governo ma solo a piantarne i semi sul terreno occupato da gruppi parlamentari, e persino coalizioni, se vi si potesse arrivare, nessuna delle quali autosufficiente.

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Ora che i vari Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani Guglielmo Epifani e Miguel Gotor gli hanno fatto l’incommensurabile piacere politico di togliersi spontaneamente dai piedi, e di portare altrove i loro cattivi umori, o l’irrinunciabile abitudine alla lotta senza quartiere a chiunque non si riconosca nelle loro convinzioni o verità, Renzi chiama il Pd non di sinistra, non di centrosinistra, con o senza trattino, non socialista, ma semplicemente “riformista”, come ha fatto appunto nell’intervista al Foglio. E si compiace di ricordare lo stato un po’ comatoso al quale sono ormai ridotti gli altri partiti della famiglia socialista europea: dalla Spagna alla Gran Bretagna, pure se gli inglesi sono europei ormai in trasferta; dalla Germania, dove sta cessando il vento che sembrava soffiasse sulla candidatura di Schulz al cancellierato, alla Francia, dove il Renzi della Senna, il neo-presidente della Repubblica Emmanuel Macron, ha dato agli eredi del pur grande Mitterrand una specie di colpo di grazia, per quante speranze di resurrezione abbia recentemente espresso il commissario europeo Moscovici.

Tutti gli “altri” partiti socialisti del vecchio continente -le virgolette sono mie, per carità, ma credo giustificate dal ragionamento o dall’analisi di Renzi- vedono solo col “binocolo”, come direbbe il segretario della Lega Matteo Salvini, il 30 per cento dei voti attribuito grosso modo dai sondaggi al Pd. Che in teoria, con quella base di poco superiore a quella attribuita ai grillini, potrebbe anche sperare di improvvisare con un bel po’ di centristi diffusi dappertutto o, in alternativa, con un bel pò della sinistra anch’essa dispersa di raggiungere o avvicinarsi alla soglia del 40 per cento dei voti. Che è quella salvata dalla Corte Costituzionale per l’aggiudicazione, con il famoso e cosiddetto Italicum, eventualmente esteso anche al Senato, il premio di maggioranza. Sono fantasie, magari, ma non si sa mai.

D’altronde, fare previsioni sulle regole con cui prima o dopo si dovrà pur tornare a votare, nonostante il pasticcio combinato dalla Corte Costituzionale di considerare, anzi di proclamare immediatamente applicabili le due leggi elettorali uscite dalla sua sartoria per una Camera e un Senato destinati ad essere non due rami del Parlamento ma due entità opposte, è impossibile.

Le trattative, scaramucce, manovre, chiamatele come volte, in materia di nuova legge elettorale in corso a Montecitorio in vista del 29 maggio, quando se ne dovrà o se ne dovrebbe parlare in aula, secondo le promesse fatte all’insofferente presidente della Repubblica, hanno un valore più simbolico o tattico che altro. La partita vera si giocherà più avanti al Senato, dove non esistono i numeri della Camera e i gruppi eventualmente battuti a Montecitorio potranno riprendersi la loro rivincita e rimandare a Palazzo Madama un testo diverso. Nel frattempo la legislatura potrebbe essere arrivata al capolinea, e il capo dello Stato addirittura costretto a ordinare al governo un decreto per omogeneizzare, come dice lui, le due leggi cucite a mano, si fa per dire, dagli illustrissimi suoi ex colleghi giudici costituzionali.

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Parlavo prima del “binocolo” chiamando in causa il segretario della Lega Matteo Salvini, che si è proposto di regalarlo prima o poi a Berlusconi. Che appunto solo col binocolo, come i socialisti in Europa, potrebbe vedere, secondo il Matteo padano, il trenta per cento e più di voti raccolti nel ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi dalla leghista d’oltralpe Marine Le Pen. La cui sconfitta è stata commentata dal presidente di Forza Italia indicandola proprio a Salvini come prova inconfutabile della impossibilità di vincere le elezioni su posizioni estreme. Come sono quelle che il segretario della Lega vorrebbe imporre ad un rinato centrodestra guidato da lui, o da lui condizionato fortemente.

Anche per Salvini comunque è tempo di primarie dentro casa. Si svolgeranno domani tra lui e Giovanni Fava, il candidato di Roberto Maroni e di Umberto Bossi alla segreteria, che sarà formalizzata la domenica successiva dal congresso.

Salvini ha detto che se non otterrà almeno l’82 per cento dei voti dei 15 mila e più iscritti ottenuto la volta precedente contro Bossi, si considererà sconfitto. Maroni, il potente governatore della Lombardia, da tempo polemico con lui per le sue posizioni lepeniste, ma ora anche impietoso considerando “chiusa la stagione lepenista” col risultato delle elezioni presidenziali francesi, vorrebbe poterlo prendere sul serio. Vorrebbe cioè che Salvini, contrario ad essere “obbligato” ad allearsi elettoralmente con Berlusconi, rimanesse sotto l’80 per cento e si ritirasse davvero dal congresso.

 

 

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I grillini perdono il teste d’accusa contro la Boschi

Sicuri, perentori, apodittici come al solito, i colleghi del Fatto Quotidiano hanno informato i lettori, fra i quali m’intrufolo ogni tanto anch’io per curiosità, che l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, ospite di Lilli Gruber a la 7, ha “confermato e rilanciato” il contenuto del suo libro sull’esperienza fatta con i “poteri forti, o quasi”. Un libro che è stato immediatamente cavalcato dai grillini per rimettere sotto processo politico l’ex ministra e ora sottosegretaria Maria Elena Boschi sulla vicenda della Banca Etruria vicepresieduta dal papà. Pertanto, la conferma e il rilancio da parte di de Bortoli, secondo il giornale diretto da Marco Travaglio, andrebbero o potrebbe essere riferiti anche alla campagna grillina.

Sempre al Fatto Quotidiano, hanno annunciato una notizia, credo esclusiva, perché non l’ho vista da nessun’altra parte, evidentemente appresa in ambienti collinari, visto che c’è di mezzo il Quirinale: il capo dello Stato, sfortunatamente impegnato all’estero mentre fra Milano e Roma accadeva di tutto nelle librerie e dintorni, non vede l’ora di tornare nel suo ufficio per riprendere in mano la pratica, o qualcosa di simile, aggiornata dai collaboratori rimasti a Roma, della Banca Etruria e del ruolo svolto dalla Boschi per le pressioni che, secondo la lettura grillina del racconto di de Bortoli, l’allora ministra avrebbe esercitato sull’Unicredit per salvare gli affari bancari. Affari, a quel punto, anche di famiglia, visto il ruolo già ricordato del padre della Boschi, ma anche del fratello, per un po’ dipendente dell’istituto, e dei suoi pur modesti investimenti personali.

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Ebbene, a parte lo scoop sui propositi, sentimenti e quant’altro del presidente della Repubblica, che provvederà per conto suo, se lo riterrà opportuno, a confermarlo, smentirlo o ignorarlo, debbo confessarvi di avere seguito anch’io la trasmissione de la 7 ricavandone però un’impressione opposta a quella della postazione d’ascolto del giornale di Travaglio.

Con lo scrupolo che lo distingue, e coerentemente con quanto aveva già detto il giorno prima presentando il suo libro a Milano con l’amico Paolo Mieli, l’ex direttore del Corriere della Sera ha letto di persona il passaggio del capitolo impugnato come una clava dai grillini. L’ha letto per smentire di avere mai attribuito all’allora ministra “pressioni” nell’incontro o nella conversazione avuta col capo di Unicredit per togliere dai guai la Banca Etruria. Ne propose, suggerì, consigliò, come preferite, l’acquisto ma in modo così poco pressante, evidentemente, che l’operazione non fu compiuta.

Debbo aggiungervi, cari lettori, dopo avere consultato un po’ di carte e navigato nel mio piccolo per internet, che Federico Ghizzoni, allora amministratore delegato di Unicredit, è felicemente in vita. Piacentino, 62 anni appena da compiere in ottobre, presidente dal 2011 della Filarmonica della Scala di Milano, si dimise il 24 maggio del 2016 dal vertice della banca dopo ma non a causa dell’incontro o del colloquio dell’anno prima con la Boschi attribuitogli, a torto o a ragione da de Bortoli. Si dimise per vicende tutte interne all’assetto proprietario della banca, sostituito il 30 giugno dello stesso anno da Jean Pierre Mustier. Che è un francese di 56 anni, connazionale quindi -beato lui- dell’appena eletto presidente della Repubblica Emmanuel Macron, di cui gli auguro sinceramente di essere amico, essendo ragionevolmente certo che lo abbia conosciuto per avere lavorato a lungo nell’ambiente finanziario.

Per avere notizie ancora più dettagliate del successore di Ghizzoni alla guida di Unicredit vi rimando, fra l’altro, ad un articolo del collega Pietro Di Michele su formiche.net del 30 giugno 2016, giorno della sua nomina: un articolo tanto bene informato, come al solito, da essere stato scelto da Google tra le fonti di consultazione sull’amministratore delegato dell’importante istituto bancario.

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Capisco l’imbarazzo in cui si può trovare la Boschi nell’ammettere di avere parlato o potuto parlare di Banca Etruria con un banchiere da lei sicuramente conosciuto pure per il suo ruolo di governo, e di cui esistono anche fotografie insieme in pubbliche e lecitissime circostanze, una delle quali pubblicata anche qui, su formiche.net. E’ un imbarazzo, il suo, forse dovuto al fatto di avere lei in altre circostanze negato di essersi mai occupata della banca vicepresieduta dal padre: circostanze, anche parlamentari, che i grillini impietosamente le hanno già rinfacciate nei loro improvvisati processi, in cui svolgono contemporaneamente le funzioni di pubblico ministero e giudice.

Ma, Dio mio, in questo fantomatico processo la Boschi è già stata soccorsa dallo stesso teste d’accusa dei grillini, cioè de Bortoli in persona. Che nel salotto televisivo della Gruber le ha riconosciuto il sacrosanto, legittimo interesse di governante e di parlamentare toscana di occuparsi e preoccuparsi di un problema del proprio “territorio”, come sicuramente era quello della Banca Etruria. Che con tutti i suoi depositanti non cessava certo di essere parte della Toscana, e dell’Aretino in particolare, solo per il fatto che il padre della Boschi fosse vice presidente dell’istituto, o il fratello dipendente.

Anziché denunciarlo o querelarlo, come ha già annunciato o minacciato, la sottosegretaria Boschi dovrebbe quindi indicare come teste a difesa il teste d’accusa dei grillini, cioè il pur curioso ex direttore del Corriere della Sera. Che ora si mostra stupito della strumentalizzazione che i parlamentari delle 5 stelle stanno facendo del suo libro.

Torno a sostenere che, se avesse voluto evitare strumentalizzazioni di questo tipo, de Bortoli -che è uomo di mestiere, come si dice- avrebbe dovuto scegliere per l’uscita del suo libro un periodo diverso dalla campagna elettorale in corso. Gli debbo tuttavia riconoscere un’attenuante: in Italia si è sempre, per un verso o per un altro, in campagna elettorale, per cui a quel libro de Bortoli in teoria avrebbe dovuto paradossalmente rinunciare.

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de Bortoli protegge la Boschi dal suo incendio

Per quanto di lungo corso giornalistico, non ho mai avuto l’occasione, e tanto meno il piacere, di incrociare professionalmente Ferruccio de Bortoli. Ma per la simpatia che, a torto o a ragione, egli mi ha ispirato spesso vedendolo in televisione e leggendolo, specie quando perse la pazienza con l’allora potentissimo Matteo Renzi e gli diede del “maleducato di talento”, forse a ragione se ci fu davvero lo zampino dell’allora presidente del Consiglio nella interruzione della sua seconda direzione del Corriere della Sera, gli auguro sinceramente di non fare la pessimistica previsione formulatagli dal mio amico Piero Sansonetti.

Se poi questa previsione dovesse avverarsi, cioè se i grillini, da tempo alla disperata ricerca di un vero candidato alla guida del loro fantomatico governo, dietro gli aspiranti di bandiera Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, e al posto di Pier Camillo Davigo, che ha appena escluso di voler passare dalla magistratura alla politica, dovessero davvero mettere gli occhi e le mani su de Bortoli, l’ex direttore del Corriere non potrebbe lamentarsene. Nè fingere di cadere dal pero, stupito di tanta attenzione e interesse da parte di chi, ad occhio e croce, non mi pare che corrisponda alla sua maniera di vivere e di pensare, almeno per come egli ha vissuto e pensato sino all’altro ieri.

Dio mio, capisco che il piatto della vendetta va servito e mangiato freddo, perché caldo è insipido, almeno per chi vuole gustarsi lo spettacolo della cattiva digestione che ne fa l’avversario. Capisco che qualche sassolino dalle scarpe de Bortoli potesse averlo e volesse quindi toglierselo via, stanco di camminare male. Ma forse l’ex direttore del Corriere ha sbagliato i gradi del freddo, non so se in difetto o in eccesso.

I due anni trascorsi dall’allontanamento di de Bortoli dalla direzione del Corriere, al quale tuttavia il nuovo direttore e relativa proprietà ,naturalmente, gli hanno consentito e consentono di collaborare come editorialista, e non come recensore di libri e cose simili, sono caduti disgraziatamente nel bel mezzo di una lunghissima campagna elettorale. Che è quella in corso dal 4 dicembre, cioè dalla clamorosa e pesantissima sconfitta referendaria di Renzi, e dell’allora ministra Maria Elena Boschi, sulla riforma costituzionale, che ne portava i nomi. Un libro come quello di Ferruccio de Bortoli, con tutto il casino politico che ha già scatenato e che cade in campagna elettorale, diventa di per sé un evento non letterario, non giornalistico ma politico, appunto. E come politico, esso si può prestare a tutti i sospetti, o le strumentalizzazioni, come preferite.

Strumentalizzazioni -penso, forse diversamente da Sansonetti- sono quelle che stanno facendo i grillini usando il libro di de Bortoli per imbastire il nuovo processo di piazza, ma anche di Parlamento, dove reclamano dibattiti e quant’altro, non potendo depositare una mozione di sfiducia individuale contro una sottosegretaria. Che sarebbe naturalmente la Boschi, della quale l’opposizione pentastellata reclama le dimissioni, non disponendo ancora delle manette, per avere chiesto due anni fa, secondo le rivelazioni di de Bortoli, all’Unicredit guidato da Federico Ghizzoni l’acquisto della Banca Etruria vice presieduta dal papà per salvarla dal dissesto.

Il fatto che questo acquisto, ammesso e non concesso che fosse stato chiesto, suggerito, supplicato, ordinato, come preferite, non si sia poi verificato perchè, secondo la stessa versione di de Bortoli, Ghizzoni non lo ritenne né conveniente né utile, dopo averne fatto esaminare la pratica agli uffici del suo istituto, secondo i grillini e quanti stanno andando loro indietro non ha alcuna importanza. Il cosiddetto conflitto d’interessi, secondo loro, si sarebbe consumato lo stesso. E quindi, via la Boschi dal governo, e a casa.

Chiamatemi pure ingenuo, sino alla stupidità, ma con questo modo di ragionare e di processare, anche una banale raccomandazione dovrebbe essere scambiata per un reato, quanto meno tentato. D’altronde, non risponde anche a questa deformazione mentale il reato -questa volta vero, messo nel codice, e non a caso già contestato in una indagine al padre di Renzi, sia pure utilizzando una intercettazione manomessa- il cosiddetto traffico di influenze illecite? A diventare influente in questo curioso Paese è pericolosissimo. Cercasi ininfluente, si dovrebbe mettere negli avvisi delle aziende, dei giornali, delle famiglie. Quando più sei influente, o solo sembri di essere, più rischi di essere scambiato per un potenziale delinquente.

Lo stesso de Bortoli, visto che adesso senza sassolini nelle scarpe cammina più comodo e sta più sereno, per abusare di un aggettivo rovinato da Renzi -sempre lui- quando lo adoperò con Enrico Letta prima di sostituirlo a Palazzo Chigi, ha sentito il bisogno di fare una precisazione di fronte alla gazzarra politica scatenata in suo nome dai grillini.

In particolare, l’ex direttore del Corriere della Sera, pur sfidando la furente sottosegretaria Boschi a presentare davvero contro di lui la querela o denuncia annunciata o minacciata, ha tenuto a far presente di non averla accusata di avere esercitato “pressioni” di sorta su Ghizzoni per l’acquisto della Banca Etruria. Ma allora dov’è stato e dov’è il problema che lui stesso ha finito per portare nel dibattito politico con il suo libro raccontando della richiesta della Boschi all’Unicredit ?

Un’altra cosa l’ex direttore ma ancora influente, molto influente Ferruccio de Bortoli, di fronte al quale chi scrive è solo una monnezza, deve permettermi di fargli osservare. Diffido francamente della ossessione ch’egli mi sembra avere della massoneria, di cui ha a lungo scritto nel suo libro e il cui “sentore” rimproverò a Renzi, che forse ha agli occhi di de Bortoli l’aggravante di essere toscano. Di essere nato cioè, cresciuto e residente in una regione dove la massoneria è sempre stata considerata, a torto o a ragione, dominante.

L’ho già ricordato in altra sede ma voglio ripeterlo qui. Quando, nel 1983, uscito dal Giornale di Indro Montanelli con il collega e amico Enzo Bettiza, fui assunto alla Nazione di Firenze come editorialista -e Bettiza come direttore editoriale anche del Resto del Carlino– fui avvicinato da un autorevole collega che mi chiese se fosse vera la voce che prima io e poi Bettiza avessimo trattato l’assunzione direttamente con l’editore, che era Attilio Monti. Di cui avevamo incolpevolmente attirato l’attenzione col chiasso che fece la nostra rottura con Montanelli. Alla mia risposta affermativa il collega ebbe la sfrontatezza, o stupidaggine, come preferite, di chiedermi a quale loggia massonica appartenessimo Bettiza ed io.

Assicuro de Bortoli che, per quanto mi riguarda, ho indossato un grembiule solo alla scuola elementare. E altrettanto vale naturalmente per Bettiza, se si usava anche nella sua Dalmazia il grembiule nella scuola elementare.

 

 

         Pubblicato su Il Dubbio

Lo stesso de Bortoli sgonfia a sorpresa la bolla Boschi

Calma e gesso. Mi spiace per i soliti grillini e per l’altrettanto solito Pier Luigi Bersani, che è corso, di persona o in collegamento, in tutti i salotti televisivi possibili e immaginabili per rincorrere i pentastellati, fissato com’è ormai ch’essi siano suoi potenziali elettori, se mai lui riuscisse a creare e o a entrare nel partito giusto. Ma ho la sensazione che questa storia di Maria Elena Boschi, sbattuta su tutte le prime pagine dalle anticipazioni del libro autobiografico, o quasi, dell’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, finirà in una bolla di sapone.

A soffiarvi sopra con tanta forza da cercare di farla scoppiare è stato lo stesso de Bortoli. Che, minacciato di querela dalla sottosegretaria tuttofare del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, e già ministra delle riforme e dei rapporti col Parlamento nel governo di Matteo Renzi, l’ha sfidata sì a denunciarlo, mostrandosi sicuro del fatto suo, ma ha anche smentito di averla mai voluta accusare di avere fatto “pressioni” sull’Unicredit guidata da Federico Ghizzoni perché acquistasse, salvandola, la moribonda Banca Etruria vice presieduta dal padre.

L’allora ministra insomma, secondo la rappresentazione ultima dello stesso de Bortoli, può avere chiesto, proposto, prospettato quel tipo di salvataggio della Banca così cara -si può dire?- per tante circostanze alla sua famiglia, ma non ha “premuto”. Così come si preme, o si spreme, quando si fa una raccomandazione. Sennò, la buonanima di Giulio Andreotti- che ne faceva e ne riceveva, da semplice deputato a ministro e a presidente del Consiglio, per non parlare di quando era “solo” capogruppo democristiano della Camera, non a decine, non a centinaia, ma a migliaia, se non a decine di migliaia, vista la sua lunghissima vita, politica e fisica- sarebbe rimasto appeso per la fatica al manico della spremitrice.

Siate onesti, per favore, almeno fra quanti avete -diciamo- più di trent’anni. A chi di voi o di noi non è capitato di fare o di ricevere una raccomandazione, o una segnalazione, di dare o ricevere delle referenze? Via, siamo realisti.

Ma la signorina Boschi, o signora, come sembra che sia più educato dire anche di chi non è ancora sposata, era allora una ministra, rispondono indignati i grillini, convinti che de Bortoli l’abbia colta, sia pure dopo due anni, in flagranza almeno di conflitto d’interessi. Ma il conflitto -potrebbe ben rispondere l’attuale sottosegretaria- si consuma o si configura quando si ottiene o s’impone quello che si cerca o si vuole. Quando non lo si ottiene, o non si riesce ad imporlo, e chi lo ha negato è rimasto al suo posto, non è stato ucciso da nessuno, né investito per caso neppure da un ciclista per strada, che conflitto c’è stato? Di che conflitto si parla?

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Il guaio per la signorina, o signora, Boschi però è che, pur disponendo di un argomento così valido e ragionevole, non lo ha usato e pare non voglia usarlo, non foss’altro per non contraddire ciò che in un’altra occasione, quando ne parlò in Parlamento come ministra sotto rischio di sfiducia personale, che non corre invece adesso come sottosegretaria, negò di essersi mai occupata della banca di suo papà vice presidente, di suo fratello già o ancora dirigente, non ricordo, e -credo- anche di alcuni suoi risparmi o investimenti.

Sono i soliti inconvenienti della politica praticata, secondo me, con troppa astuzia o paura, come preferite. L’astuzia di potersi sottrarre ad una polemica o ad un attacco negando e basta, o la paura di proclamare con tutta la sincerità possibile la propria onestà, anche a costo di apparire ingenui o sprovveduti.

Anche de Bortoli, mio Dio, non può adesso cadere dal pero, o fingere di cadervi, stupendosi del casino -scusate la parola- provocato dal suo libro, o solo dalle sue anticipazioni, con riserva quindi di vedere che cosa potrà ancora accadere quando avrà finito di leggerlo qualcuno abituato andreottianamente -sempre lui, il povero Andreotti- che a pensare male si fa peccato ma spesso, o sempre, s’indovina.

Un giornalista di lungo, lunghissimo e altissimo corso come il più volte ex direttore del Corriere della Sera, per non parlare del giornale della Confindustria Il Sole-24 Ore, e dell’incarico che attualmente ricopre, anche se non ricordo esattamente quale in questo momento, o degli editoriali che continua a scrivere per il quotidiano milanese di via Solferino, non può ignorare, o fingere di ignorare, le circostanze politiche nelle quali è uscito il suo libro. E la strumentalizzazione quindi che ne possono fare i bene e soprattutto i malintenzionati.

Non può ignorare il buon de Bortoli che in Italia, tra appuntamenti locali, nazionali e referendari, di solito siamo sempre in campagna elettorale, ma questa volta lo siamo ancora di più sia per la qualità sempre più scadente degli attori politici, che sanno più gridare che ragionare, e incitano a votare più con la pancia che con la testa, sia per la vicinanza sempre maggiore alla scadenza ordinaria della legislatura. Che cominciò malamente nel 2013 e si è sviluppata sempre peggio, col progressivo restringimento delle cosiddette larghe intese imposte per ragioni di igiene istituzionale, diciamo così, dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che non poteva sciogliere le Camere appena elette perché lui era negli ultimi mesi, anzi settimane del suo primo mandato, e quindi impeditovi dalla Costituzione, e non si sentì di scioglierle appena confermato al Quirinale, cominciando così il suo secondo mandato. E, d’altronde, le Camere avevano confermato lui, dopo il fallimento delle candidature prima di Franco Marini e poi di Romano Prodi, proprio perché conoscevano bene quanto fosse contrario a scioglierle.

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Ancora di recente, d’altronde, il presidente ormai emerito, cioè ex, della Repubblica ha fatto sentire alta e forte la sua voce per definire, forse troppo imprudentemente, “anormale” un Paese in cui le legislature finiscono prima della loro scadenza naturale. Come se lui stesso nel 2008 non avesse deciso di sciogliere le Camere elette solo due anni prima. Che poi erano state le stesse che lo avevano a loro volta eletto capo dello Stato, per cui lui teoricamente avrebbe potuto -secondo alcuni, addirittura, dovuto- sentirsi delegittimato.

Ma, tornando a de Bortoli e al casino -scusate ancora- che ha combinato, volente o nolente, con i ricordi dei suoi approcci coi “poteri forti, o quasi”, che è il titolo del suo libro, destinato probabilmente a fargli guadagnare un bel po’ di soldi, non deve adesso meravigliarsi se qualche renziano troppo malizioso, o troppo ingenuo, sospetta ch’egli si sia guadagnato o sia destinato a guadagnarsi chissà quali e quante benemerenze da uomini e partiti alla ricerca di un buon leader alle prossime elezioni, ordinarie o anticipate che siano. Non sarebbe -temo- la sua fortuna.

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