La festa alla mamma della Meloni tentata dal nuovo e dal vecchio giornale di Carlo De Benedetti

Ho avuto a suo tempo l’esperienza, tutto sommato divertente, di lavorare in un Giornale, con la maiuscola, che creava più problemi che altro ad un suo acquisito e rampantissimo editore, a lungo incapace di lamentarsi pubblicamente, o comunque con l’interessato, delle licenze che si permetteva un direttore forte solo dei propri lettori e del suo nome. Che era Indro Montanelli. Forse avrò voglia un giorno di dare qualche testimonianza precisa di quegli anni, quando e se me ne verrà in tempo l’occasione, ormai avanti nell’età come sono.

Dubito tuttavia di poter paragonare quel Giornale, sempre con la maiuscola, ad un altro con la minuscola che ha avuto peraltro l’idea curiosa di assumere come nome della testata il giorno successivo a quello in cui esce: Domani. Il cui editore è notoriamente un signore molto avanti negli anni, ancora più di me, e assai pugnace, che si chiama Carlo De Benedetti, entrato in una fase dichiaratamente e orgogliosamente “radicale” del suo impegno pubblico: tanto pugnace da avere accusato pubblicamente i figli di non aver saputo gestire e mantenere la proprietà di Repubblica obbligandolo di fatto ad allestire un altro quotidiano che ne prendesse in qualche modo il posto nella sua mente, o nelle sue viscere, come preferite. 

Questo nuovo giornale -non so se più assecondando o oltrepassando idee e sentimenti  dello stesso editore come quello da me avuto a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso- ha partecipato domenica scorsa alla festa della mamma facendola a suo modo, su tutta la prima pagina, fra editoriale e articolo di cronaca e inchiesta, alla madre della premier Giorgia Meloni. Una premier, madre anch’essa già prima di diventare presidente del Consiglio, che col suo arrivo a Palazzo Chigi ha politicamente contrariato pure “l’ingegnere”, come Carlo De Benedetti viene comunemente chiamato alla maniera in cui del compianto Gianni Agnelli si scriveva “l’avvocato”. 

In particolare, Domani ha pizzicato in fallo, diciamo così, Giorgia Meloni in un passaggio della biografia che l’ha aiutata a crescere anche elettoralmente in cui ha scritto in passato della pur vivente mamma Anna Paratore che “lavorava sempre”, dopo essere stata abbandonata dal marito, “inventandosi mestieri ogni volta diversi” ma “sempre un pò sfortunata”, perché “di soldi non ce n’erano mai abbastanza”. Neppure quando la signora scriveva, anzi sfornava romanzi con lo pseudonimo Josie Bell. A me, purtroppo, non è mai capitato di leggerne neppure uno, per cui temo di avere contribuito all’insufficienza delle entrate lamentate dalla figlia. 

“Di sicuro” -ha scritto maliziosamente il giornale dell’ingegnere- la Meloni figlia “non si riferiva all’operazione Raffaello, l’ultimo fortunato colpo di Paratore”. Un’operazione costituita -per sintetizzare al massimo la lunga e un pò troppo complicata storia raccontata dal giornale di Carlo De Benedetti, in cui la mamma figura per un certo tempo socia in affari in Italia di un socio dell’ex marito perseguito in Spagna come narcotrafficante- dall’acquisto per 2000 euro di una quota azionaria di una società organizzatrice di eventi fruttati in quattro anni, fra il 2012 e il 2016, qualcosa come 48 mila euro, attribuibili però non tutti alla vendita della quota ma anche a un recupero di crediti. S’intrecciano in questa storia -dalle dimensioni economiche non credo comunque rilevanti, specie se confrontate alle cifre cui è abituato l’editore di Domani nella sua legittima e lunga esperienza di imprenditore e finanziere- personaggi alquanto minori del partito di Giorgia Meloni negli anni in cui la leader della destra italiana ebbe anche l’idea di candidarsi al Campidoglio. 

Ad occhio e croce -con la mia modesta esperienza giornalistica, anche di cosiddetto inchiestista, per esempio negli anni lontanissimi di cronista capitolino in un giornale romano della sera a proposito delle speculazioni immobiliari sulle due rive del Tevere negli anni Sessanta- mi sento di prevedere e di scrivere che non sarà questa storia a compromettere la sorte del governo in carica e ,più in particolare o in generale, come preferite, la carriera politica di Giorgia Meloni. Della quale pertanto, sempre ad occhio e croce, mi sento di condividere la conclusione di una lunga postilla da lei posta alle risposte che ha voluto concedere ad un questionario inviatole dagli inquirenti di scrivania di Domani: “Se gli illeciti non ci fossero, come io sono certa che sia, allora quale è l’obiettivo di questo presunto scoop? Ve lo dico io. Mettere un pò di fango nel ventilatore e accenderlo, sperando che, comunque vada, un pò di fango rimanga attaccato…….Farmi perdere la calma, la lucidità, nella speranza che faccia qualche passo falso. Ma non accadrà, perché io sono una persona onesta e libera, e mi sono convinta che sia proprio questo a farvi impazzire”. Cosa che il direttore di Domani ha contestato il giorno dopo in un editoriale, dopo averci riflettuto ben bene, assicurando praticamente di essere completamente lucido e di volerlo rimanere a guardia della solita, vecchia vocazione del giornalismo a “fare le pulci ai potenti” di turno. Si spera, naturalmente per il giornalismo tout court, senza rimanerne vittima. 

Gli è andato dietro il giorno dopo ancora, sempre in prima pagina e pur con minore evidenza, il giornale che fu di Carlo De Benedetti, cioè Repubblica. Anche ai fantasmi evidentemente accade di tornare sui luoghi dei delitti.

Pubblicato sul Dubbio

Dietro l’astensionismo in crescita solo la politica perduta, che non sa più parlare alla gente

Va bene, cioè male. Se vogliamo continuare a mettere la testa nella sabbia, come gli struzzi, o consolarci alla buona, seguiamo pure Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera per attribuire al maltempo, così diffuso fuori stagione in questa capricciosa primavera, i sette punti in meno registrati nell’affluenza al turno elettorale amministrativo ancora in corso mentre scrivo. 

Se invece vogliamo essere finalmente un pò più realistici, o meno superficiali, come solo un vignettista può permettessi di fare alternando acutezza a frivolezza secondo i giorni e gli umori, dobbiamo deciderci a riconoscere che la politica non sa più parlare alla gente. Forse non riesce a parlare neppure a se stessa, perdendosi in un’autoreferenzialità sconcertante, cibandosi dei propri rifiuti. E mettendo in fuga gli elettori dalle urne e i lettori dai giornali che se ne lasciano condizionare facendole da megafono. Giornali che una volta tanto Beppe Grillo fa bene sul suo blog personale, per quanto finanziato dal movimento di cui è fondatore, garante e non so cos’altro, a deridere con quella vignetta del signore sgomento al cesso per essere rimasto senza carta con cui pulirsi il sedere, avendo ormai la stampa, al minuscolo, scelto di andare “online”.

Non ha tutti i torti Alessandro De Angelis sulla Stampa, al maiuscolo, a scrivere delle urne disertate guadagnandosi questo titolo: “Voto, astensione e Giorgia ovunque”: da Palazzo Chigi alle piazze, dalle piazze all’ospedale dov’è ancora ricoverato il suo alleato Silvio Berlusconi per apprezzarne forza, coraggio e quant’altro. Compresa naturalmente  la svolta impressa al suo partito per infastidire di meno la premier nel lavoro che svolge alla guida di un governo che anche lui, in verità, non sembrava avere molo gradito all’inizio, non avendo avuto tutti i ministri, o ministre, e sottosegretari che reclamava.

Se questa è la musica che ha meritato sulla Stampa Giorgia Meloni anche nell’ultima versione di alpina, con tanto di berretto con piumai in testa accanto al gigantesco e amico ministro della Difesa Guido Crosetto, non parliamo di quella che merita l’opposizione, al singolare ma anche al plurale. 

Vi sembra, per esempio, che si possano davvero mobilitare gli elettori gridando contro la “vergogna”, denunciata anche dalla già citata Stampa, dei problemi che “la Rai di destra” avrebbe creato dopo 40 anni alla coppia Fabio Fazio e Luciana Littizzetto nel rinnovo del loro contratto non mandandola all’ospizio, ma facendole guadagnare altre carrettate di soldi in una rete televisiva privata? Libero ha calcolato in venti milioni di euro l’anno l’ultimo costo della coppia alla Rai. Cerchiamo di essere seri. E di avere un pò più di rispetto per gli indigenti rappresentando i due come vittime di un’odiosa censura, o riedizione del famoso “editto bulgaro” del Berlusconi degli anni d’oro. Che fruttò al compianto e compiaciutissimo -allora- Enzo Biagi una liquidazione da nababbo passata quasi intatta agli eredi.

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Un affarone politico per la Meloni la tappa romana del viaggio di Zelensky in Europa

La intensa e doppia tappa romana del viaggio del presidente ucraino Volodymir Zelensky- su entrambe le rive del Tevere- si è conclusa in un grande affare politico per Giorgia Meloni. Con la quale non a caso l’incontro dell’ospite è stato il più lungo: più di quello precedente col presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale e di quello successivo col Papa in Vaticano. Giorgia qua e Gorgia là, grazie a Giorgia a destra e grazie a Gorgia a sinistra, ha detto Zelensky nella partecipazione all’edizione davvero straordinaria di Porta a Porta, anche sul piano scenografico. 

I voti che potranno arrivare alla Meloni e ai suoi candidati fra oggi e domani dalle elezioni in 700 o 580 che potranno essere, secondo le versioni dei giornali, i Comuni interessati a questo turno locale, per il quale si è mobilitato con un altro videomessaggio registrato in giacca e camicia da Silvio Berlusconi nell’ospedale in cui continua ad essere ricoverato; i voti, dicevo, che potranno arrivarle da queste urne procureranno alla premier e leader della destra meno successo e vantaggi d’immagine politica, interna e internazionale, di quelli ottenuti con Zelensky a Palazzo Chigi, fra cortile con tanto di onori militari, colloquio nel salotto personale e pranzo. 

Quando qualcuno degli invitati di Bruno Vespa ha cercato di trascinare il presidente ucraino nelle beghe della politica interna italiana e, più in particolare, della sua maggioranza di governo, con lo stesso Vespa che ha chiamato in causa il vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini, l’ospite ha reagito ridendo o strabuzzando gli occhi. La parola di Giorgia -sempre Giorgia- gli  basta e avanza per fidarsi dell’Italia e dei suoi impegni a favore dell’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin. Da casa o dov’altro avrà seguito la puntata straordinaria, ripeto, di Porta a Porta trasmessa dalla terrazza del Vittoriano la presidente del Consiglio sarà rimasta compiaciuta, non so se quanto o più ancora dell’applauso e delle altre carinerie riservatele il giorno prima in un’ affollatissima manifestazione dal Papa, peraltro compiaciuto di vederla vestita “quasi” come lui, in bianco. Con Zelensky invece l’abito è tornato scuro.

Chissà cosa saranno ora capaci di pensare e scrivere i rosiconi dopo quello che ho già letto ieri sulla Meloni, proprio per quell’incontro così cordiale col Pontefice, sul quotidiano Domani di Carlo De Benedetti. Dove Marco Damilano, l’ex direttore dell’Espresso ha scritto nell’editoriale: “I capi democristiani, tutti rigorosamente in abito scuro, non avrebbero mai immaginato di condividere un palco con il pontefice come ha fatto Giorgia Meloni. Ma il suo Biancofiore non è questione di armocromia, è un progetto politico”. Che sarebbe la conquista del ruolo e dei numeri che furono della Dc. Panico, evidentemente, a casa dell’ingegnere, dove stanno peraltro rovistando a modo loro, come in una monnezza, nella storia familiare della Meloni facendo le pulci anche alla madre. 

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Nella Roma blindata, e fortunata, della visita di Zelensky al Quirinale, Palazzo Chigi e Vaticano

Reale o esagerata che sia la “Opzione vaticana” gridata da Repubblica, o quella preferita dalla Stampa dell’”asse Vaticano-Colle”, si può ben essere indulgenti, una volta tanto, verso i disagi di una Roma blindata per la visita del presidente ucraino Voldymir Zelensky, impegnato fra Quirinale, Palazzo Chigi e Santa Sede. Come si diceva una volta della pioggia, prima che non esagerasse anch’essa sia a cadere sia a non cadere, potremmo anche parlare di festa blindata festa fortunata, anziché di festa bagnata festa fortunata, con l’allegria o la fiducia delle rime. Figuriamoci poi se la festa è blindata e bagnata insieme, come oggi nella Capitale.

Caso o non caso, certo è che Zelensky – il “nazista” di cui Putin voleva liberarsi l’anno scorso in pochi giorni per sostituirlo con “persone perbene”, secondo l’infelice espressione di un Silvio Berlusconi che voleva sembra informato e insieme comprensivo verso l’amico di Mosca- scorazza a suo modo per Roma mentre i russi scappano in Ucraina da Bachmut, pur dopo averla messa a ferro e fuoco. 

Se gli ucraini non fossero stati tempestivamente e seriamente aiutati dagli occidentali, compresa l’Italia governata prima da Mario Draghi e poi da Giorgia Meloni, in una continuità tanto sorprendente per molti quanto felice, a quest’ora Zelensky non sarebbe forse neppure vivo e a Roma non si potrebbe parlare e persino lavorare per la pace, essendo già caduta tutta l’Ucraina sotto il dominio russo. 

Neppure i vignettisti dei giornali italiani avrebbero potuto e potrebbero divertirsi. Com’è accaduto ieri a Stefano Rolli, sul Secolo XIX, rappresentando Zelenscky smanioso di farsi prestare dal Papa le Guardie Svizzere, e oggi a Emilio Giannelli, sulla prima pagina del Corriere della Sera, immaginando l’ospite ucraino perquisito da due preti prima di incontrare “Sua Santità” che -dicono due monsignori- “si è raccomandato: niente armi!”. Una Santità, peraltro, reduce dall’esperienza dell’incontro, ieri, con la premier italiana vestita quasi alla stessa maniera e in straordinaria confidenza. 

Benvenuto quindi a Roma al presidente proveniente da Kiev. O “Welcome, mr Zelensky”, come lo hanno salutato in rosso quelli del Foglio “orgogliosi -nel titolo- del sostegno italiano all’Ucraina, nonostante Salvini”, per contenersi nella maggioranza e non occuparsi pure dell’opposizione divisa fra il si perdurante del Pd, anche della Schlein, e il no dei grillini e frattaglie di sinistra. 

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Incredibile attacco a Mattarella per il richiamo ai complici dei terroristi

Reduce da un convegno su Aldo Moro in cui era stato uno dei relatori e motivato dall’intervento di un “Tizio” -ha scritto lui stesso- intervenuto fra il pubblico per evocare i complici appena lamentati dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella parlando al Quirinale ai familiari delle vittime del terrorismo, Domenico Cacopardo ha sferrato un duro attacco al capo dello Stato su ItaliaOggi.  Di cui è collaboratore da tempo, e dove ha condiviso la necessità sostenuta dal “Tizio” di fare finalmente i nomi di quanti tradirono lo Stato negli anni di piombo. 

“Mattarella -ha scritto Cacopardo, 87 anni compiuti in aprile, già magistrato e collaboratore, con incarichi anche di Gabinetto, di ministri e presidenti del Consiglio di quando lavorava, da Massimo D’Alema a Giovanni Spadolini in ordine alfabetico- ha ancora una volta sbagliato. Nell’interpretare le sue funzioni e nello svolgerle, Lui è stato eletto presidente della Repubblica, e quindi non può fare proprie le parole in libertà che sono circolate e circolano in giro pr il Paese, si tratti di Brigate rosse, si tratti di mafia. E la sua insinuazione è in sostanza manifestazione di un permanente sospetto, più volte dichiarato non rispondente alla realtà dei fatti dalla Cassazione. Vedi il caso di Mario Mori e collaboratori”. 

Ma si tratta appunto del generale Mori e dei collaboratori appena assolti in via definitiva dall’accusa di essere stati partecipi della mafia nelle fantomatiche trattative per strappare concessioni allo Stato con le stragi. Qui, a proposito del discorso di Mattarella al Quirinale, si tratta di Moro, al singolare, che nel 1978 i brigatisti rossi riuscirono a catturare fra il sangue della scorta, in una mattanza per strada, e ad uccidere poi anche lui, come un cane nel bagagliaio di un’auto, dopo 55 lunghissimi giorni di prigionia in un covo promosso dai carnefici a “carcere del popolo”.

“Mattarella -ha insistito Cacopardo- è il capo dello Stato e non un Travaglio qualsiasi. E ha quindi il dovere, nel pronunciare determinate frasi, di farle seguire da fatti concludenti, cioè da riferimenti precisi e circostanziati che confermino le sue generiche parole. Altrimenti, ricorda tanto il vizio parlamentare (e palermitano) di mascariare senza aggiungere un briciolo di prova. Ed è giunto il momento che lo faccia: parli chiaro e cessi con le allusioni”. Di cui quindi avrebbero  ragione a lamentarsi anche i terroristi ancora vivi, e fermi nel sostenere di avere voluto e saputo fare tutto da soli nei terribili anni di piombo.

Trovo alquanto stravaganti questi soccorsi, volenti o nolenti, a parole anch’essi, prestati a tanta e tale gentaglia, anche a costo di attaccare un presidente della Repubblica peraltro palermitano d’anagrafe, vista la citazione della città siciliana fatta tra parentesi da Cacopardo. Il quale non è il solo, fuori e dentro i giornali, a pensarla così di Mattarella, anche se è stato il solo a scriverlo così esplicitamente e duramente. Non ho parole per commentare. Le lascio all’immaginazione dei lettori, sulla cui sagacia scommetto, specie se anziani abbastanza per avere vissuto quegli anni terribili prodotti con le loro sole presunte forze dai terroristi. 

Pubblicato sul Dubbio

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In attesa di Zelensky a Roma, fra Vaticano, Quirinale e Palazzo Chigi

Chissà se i putiniani più o meno di complemento in servizio anche in Italia, o gli antiatlantisti che reclamano di non essere confusi con i putiniani perché dà fastidio anche a loro, grazie a Dio, il successore di Stalin più che di Pietro il Grande cui l’uomo del Cremlino vorrebbe somigliare, troveranno qualcosa da dire e scrivere anche contro l’imminente tappa romana del viaggio del presidente ucraino Zelensky in Europa. Che incrocia notizie e voci sulle iniziative di pace alle quali, per quanto smentite o ignorate a Mosca, sta lavorando il Papa in persona. Il quale non sta certo a Palazzo Chigi o al Quirinale, ma a poca distanza in fondo dall’uno e dall’altro, con cui comunque ha buone relazioni, a dir poco.

Il Pontefice avrà sicuramente riso di cuore alla vignetta in cui oggi Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX immagina il presidente ucraino deciso a chiedere aiuti militari anche alla Santa Sede, accontentandosi delle ben poco armate Guardie Svizzere. 

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Il paradossale lavoro…sporco della Meloni per l’aspirante alla sua successione

L’imbarazzo della scelta per la migliore rappresentazione delle polemiche -per ora nulla di più, in attesa di un progetto ben definito del governo- sul cantiere della riforma costituzionale aperto da Giorgia Meloni consultando le opposizioni è fra un commento di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera e una vignetta del Foglio, entrambi in prima pagina. 

L’incipit del commento di Cazzullo sembra un controcorrente dell’indimenticabile  Indro Montanelli , un pò più lungo del solito, ai tempi ormai lontani del Giornale da lui fondato nel 1974 lasciando proprio il Corriere spostatosi troppo a sinistra con la direzione di Piero Ottone. “Quando Charles de Gaulle -racconta Cazzullo- impose alla Francia la svolta presidenzialista uscì un pamphlet che monopolizzò la discussione pubblica. Si intitolava “Le coup d’Etat permanent”. L’autore considerava la riforma come un golpe ripetuto tutti i giorni, e giudicava i nuovi meccanismi costituzionali incompatibili con la democrazia. Il suo nome era Francois Mitterrand, e grazie a quella riforma e a quei meccanismi sarebbe stato presidente della Francia per quattordici anni”. 

La vignetta del Foglio è ispirata non dal commento di Cazzullo, ancora sconosciuto a  Makkox mentre la confezionava, ma dalla Meloni stessa, che il giorno prima aveva detto alla segretaria del Pd Elly Schlein di aspettarsi i ringraziamenti per la strada che le stava spianando con un lavoro paradossalmente sporco, utile più al futuro della sua concorrente che al proprio presente. Il vignettista ritrae la presidente del Consiglio, in abito una volta tanto tutto femminile, non certo in tenuta militare di degaulliana memoria, sfinita di questo e di altri lavori ancora e scettica dell’opportunità di spianare così tanto, garantendole “più poteri”, la strada al premerosà” inteso come premier rosa: la Schlein, appunto. Che in teoria dovrebbe aspirare a succederle nel 2027, essendo davvero improbabile un turno di elezioni anticipate, per quanti errori dovesse o addirittura volesse compiere l’attuale inquilina di Palazzo Chigi vanificando la maggioranza conquistata nelle urne il 25 settembre scorso.

Di fronte sia al commento di Cazzullo sia alla sua mezza traduzione o imitazione sul Foglio fa ridere davvero la vignetta del Fatto Quotidiano contro “la sora Costituente” Meloni, disegnata da Riccardo Mannelli alla presa sfottente con i suoi critici e avversari. E ancora più da ridere fa la serietà, gravità e quant’altro di Barbara Spinelli. Che sullo stesso  Fatto, sempre in prima pagina, ammonisce che “la democrazia decidente” invocata dalla Meloni con la sua riforma costituzionale è “una trappola”, non un trappolone forse solo per ragioni grafiche, o di spazio. 

Lo stesso si può dire e scrivere del “presidenzialismo tecno-populista” lamentato, denunciato e quant’altro sulla Stampa da Daniela Padoan, esperta dichiarata su Wikipedia di razzismo e totalitarismi del Novecento, e secolo evidentemente successivo. 

Non abusate del Quirinale, per cortesia, contro la riforma costituzionale

  La popolarità che è riuscito a guadagnarsi Sergio Mattarella al Quirinale ha sicuramente contribuito all’affievolimento del favore che aveva sino a qualche anno fa il presidenzialismo inteso come elezione diretta del capo dello Stato. La sua “compostezza assorbente e collante”, come l’ha appena definita sul Foglio Giuliano Ferrara, ha spuntato le armi a Giorgia Meloni, dirottatasi da sola fra lo stupore e persino l’irritazione dell’alleato leghista Matteo Salvini verso il premierato, inteso come presidente del Consiglio eletto dai cittadini, lasciando al presidente della Repubblica l’elezione indiretta, da parte delle Camere e di una delegazione dei Consigli regionali. 

“Nell’esperienza del nostro paese il ruolo di arbitro del Presidente della Repubblica è stato spesso decisivo. Limitarlo sarebbe sbagliato”, ha detto ad Annalisa Chirico, sempre del Foglio, l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Anche se, in verità, l’elezione diretta era voluta anche per potenziare quel ruolo, aumentare il numero e il tono dei fischi ai giocatori scorretti, sino a sciogliere più facilmente le squadre e a mandarle negli spogliatoi, cioè alle urne. 

Con un certo fastidio il vice presidente ora forzista del Senato Maurizio Gasparri ha detto alla Stampa che “la sinistra vuole far passare l’idea che chi è presidenzialista è contrario a Mattarella, ma non è così, nessuno è contro Mattarella”. A tutela del quale, in effetti, nelle originarie intenzioni della Meloni c’era la riserva di fare scegliere dai cittadini il successore dell’attuale presidente solo alla scadenza del suo mandato. Che è il secondo per un totale quindi di 14 anni: quanto forse neppure durerà il regno dell’appena incoronato Carlo III d’Inghilterra. 

Va detto anche in difesa dell’ottima reputazione guadagnatasi dall’attuale capo dello Stato – salvo critiche, attacchi e insolenze rivoltegli ogni tanto dal Fatto Quotidiano, che non gli perdona di avere a suo tempo voluto sostituire a Palazzo Chigi Giuseppe Conte con Mario Draghi- che il presidenzialismo crebbe di popolarità o fascino negli anni scorsi non per sfiducia nei presidenti di turno ma per dissenso dal metodo con cui le Camere, e i partiti alle loro spalle, lo sceglievano, e lo scelgono: senza una disciplina, per esempio, delle candidature, come se il presidente nascesse dal cavolo raccontato ai bambini o scelto dallo Spirito Santo come il Papa attraverso i Cardinali al Conclave. 

Scritto tutto questo, e preso atto che “il Colle non si tocca”, come ha annunciato la ministra  Casellati alla Stampa, consiglierei a chi ha usato e sta usando la popolarità meritatissima di Mattarella per liberarsi del fantasma del presidenzialismo di non esagerare attribuendo allo stesso Mattarella più o meno esplicitamente una certa ostilità alla riforma di una Costituzione che continuerebbe ad essere “la più bella del mondo”. Auspici di riforme costituzionali si trovano infatti in entrambi i messaggi di giuramento del Presidente in carica. 

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Mattarella ha riproposto il mistero di chi tradì Aldo Moro 45 anni fa

Con quella gigantografia di Aldo Moro che lo sovrastava mentre parlava ai familiari delle vittime del terrorismo, peraltro reduce dall’omaggio in via Caetani alla sua memoria nel 45.mo anniversario della morte e del ritrovamento del suo cadavere a metà strada fra le sedi nazionali della sua Dc e del Pci ch’egli aveva portato due mesi prima nella maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale”; con quella gigantografia alle spalle, dicevo, era naturale pensare che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si riferisse anche o particolarmente alla tragica vicenda dello statista democristiano parlando dei “complici” impuniti del terrorismo. Che che tanto sangue riuscì a versare negli anni di piombo fra stragi, agguati personali e feroci esecuzioni. Tale fu quella appunto di Moro, ucciso 55 giorni dopo il sequestro, e lo sterminio della scorta, con raffiche attorno al cuore studiate, come ha potuto accertare l’ultima commissione parlamentare d’indagine presieduta da Giuseppe Fioroni, perché l’agonia fosse la più lunga e dolorosa possibile. 

“Frase choc a 45 anni dalla morte- Mattarella su Moro: “Complici nello Stato”, ha titolato Libero in prima pagina su un articolo in cui Filippo Facci, con l’aria di risparmiare al  presidente della Repubblica l’invito a riferire in Parlamento su ciò che sa e non ha voluto o potuto riferire dettagliatamente, ha scritto che ora si potrà affermare che gli uomini dello Stato hanno ammazzato i cittadini dello Stato perché “lo sanno tutti e l’ha detto pure Mattarella”. 

Si tratta naturalmente di un paradosso, come capita spesso a Facci di scriverne e dirne facendo storcere il naso anche al direttore di turno, che però glielo concede sapendo che il lettore può gradire. Eppure sotto sotto, lasciatomelo dire senza volere togliere nulla a nessuna di tutte le altre vittime del terrorismo e dei suoi complici occulti che Mattarella ha diligentemente citato nel suo intervento al Quirinale, anch’io ho avuto la sensazione che egli avesse pensato in particolare a Moro. Cui -è bene ricordare anche questo sul piano umano- la sua famiglia era particolarmente legata. Il padre, Bernardo, ne era stato un ministro molto apprezzato e devoto, a tal punto da accettare senza fiatare il sacrificio chiestogli di rinunciare alla conferma, fra un governo e l’altro dei suoi, quando per ragioni interne di partito Moro dovette accontentare gli appetiti correntizi aumentati, quasi per compensazione, con la crescita politica della sua leadership. Anche il fratello di Sergio Mattarella, Piersanti, fatto uccidere dalla mafia nel 1980 alla guida della regione siciliana, era stato convinto e apprezzato moroteo.

Già un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, parlò una volta del tragico sequestro di Moro e del suo altrettanto tragico epilogo come di una vicenda tessuta da raffinatissime menti: espressone, questa, adoperata anche da Giovani Falcone nel 1989 commentando l’attentato sventato contro di lui, e i colleghi e ospiti svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, nella residenza estiva affittata all’Addatura.

Come si fa, Dio mio, a dubitare ancora, e tanto meno a lamentare la genericità dei richiami di Mattarella ai complici, che i terroristi avessero potuto disporre di aiuti esterni alla loro organizzazione sanguinaria -e che aiuti- nella preparazione del sequestro Moro e nella sua lunga gestione, protrattasi per quasi due mesi in una città come Roma? Una città grande di certo, ma non abbastanza, diciamo la verità, per spiegare la mancata scoperta del covo in cui era stato rinchiuso l’ex presidente del Consiglio, o della sua scoperta -peggio ancora- ma della mancata decisione di assaltarla, anche a costo della morte dell’ostaggio temuta umanamente dalla famiglia. Che aveva preteso dal primo momento una liberazione sicura e negoziata, rompendo praticamente col partito e col governo, al cui ministro dell’Interno Francesco Cossiga, salito a quel posto proprio per Moro, venne la  ciclotimia per i sospetti, le accuse e quant’altro di non avere fatto abbastanza sia per prevenire il sequestro con una più accurata protezione sia poi per salvare la vita all’ostaggio. 

Conosco e appezzo da tempo il magistrato Guido Salvini, espertissimo di terrorismo e consulente, non a caso, dell’ultima commissione parlamentare d’indagine già citata. Non più tardi dell’altro ieri, intervistato dal Quotidiano Nazionale che raggruppa Il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione, egli ha così  concluso le sue riflessioni sul sequestro Moro e sul suo epilogo. “Molto probabilmente le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, dopo che le brigate rosse annunciarono la piena collaborazione di Moro al suo interrogatorio potevano temere che avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel punto Moro era politicamente morto. Più ancora che morto, era divenuto ingombrante. Poteva essere lasciato morire”. 

Pubblicato sul Dubbio dell’11 maggio

Giorgia Meloni si è ripresa l’agenda aprendo il cantiere della riforma costituzionale

Sarà pure stata “in salita”, come l’ha definita il Corriere della Sera titolando l’editoriale di Massimo Franco, per “il muro di Schlein” su cui ha preferito gridare Repubblica sintetizzando forse un pò troppo la posizione assunta dalla segretaria del Pd nel suo primo incontro con la presidente del Consiglio, ma la partenza del governo verso la  promessa riforma costituzionale è avvenuta. 

“Ascolto, ma vado avanti”, ha detto la stessa Giorgia Meloni, a conclusione del primo giro di incontri con le opposizioni. Neppure Repubblica ha potuto ignorare queste parole sotto il titolo di apertura dedicato al muro, ripeto, della Schlein. La quale considera altre le priorità del Paese, includendo tuttavia fra queste una riforma della legge elettorale destinata a incrociare in qualche modo quella della Costituzione, pur potendole bastare una legge ordinaria e non costituzionale. Tuttavia la segretaria del Pd non potrà sottrarsi nelle aule parlamentari al confronto quando il governo maturerà e avanzerà le sue proposte. Su cui  una cosa si può già dire da ora: le opposizioni non saranno compatte. 

Dal cosiddetto terzo polo sono già arrivate aperture al governo, sino a procurarsi l’accusa di volergli fare da “spalla”. Premierato o presidenzialismo che sarà, Cancellierato alla tedesca o cos’altro ancora, una riforma arriverà prima o poi al pettine del Parlamento in una legislatura che ha bruciato, se proprio vogliamo usare questo termine negativo, solo otto dei 70 mesi a sua disposizione, equivalenti alla durata quinquennale del mandato conferito dagli elettori ai senatori e ai deputati il 25 settembre scorso. 

Un dato che nessun titolo polemico di giornale di oggi potrà cancellare, neppure la “falsa partenza” gridata dal Secolo XIX, dello stesso gruppo editoriale di Repubblica e della Stampa, dove peraltro l’ex direttore Marcello Sorgi ha scritto che “la premier adesso è più sola”; un dato, dicevo, che nessun titolo polemico o riduttivo potrà negare o cancellare è la decisione con la quale la Meloni ha voluto dettare davvero la sua agenda. E ciò anche a costo di ridimensionare per forza di cose la figura della ministra titolare, diciamo così, del tema delle riforme. Che è l’ex presidente del Senato e mancata presidente della Repubblica Maria Elisabetta Alberti Casellati, forzista di prima fila nella recentissima convention alla quale si è mostrato in camicia e giacca Silvio Berlusconi nei 21 minuti di messaggio televisivo registrato nella stanza dell’ospedale milanese dov’è ricoverato, per quanto in condizioni decisamente migliori dell’arrivo. 

Più volte, nonostante la rappresentazione fattane come di una “Ducia” da Giuliano Ferrara sul Foglio, la Meloni si era vista dettare prima di ieri l’agenda da imprevisti, come la tragedia di Cutro per citare il più clamoroso.

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