Eppure c’è chi dubita anche sulla cattura del superboss mafioso Messina Denaro

Di ritorno da Palermo, dov’era giustamente volata per partecipare alla festa dello Stato per la cattura, finalmente, del superboss mafioso Matteo Messina Denaro, e compiacersi di un’operazione dichiaratamente condotta grazie anche alle intercettazioni e senza trattative, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata sentita mormorare: “E’ una vittoria che tutto il mondo vede, tranne alcuni dell’opposizione”. 

Infatti questa mattina dai banchi dell’opposizione culturale, chiamiamola così, fiancheggiatrice di quel discorso di sfiducia al governo pronunciato in Senato dall’ex procuratore generale della Procura di Palermo Roberto Scarpinato, ora parlamentare grillino, lo scrittore Roberto Saviano ha gridato in una intervista alla Stampa: “Il governo non è anti-mafia”. Gli ha per fortuna risposto sulla stessa prima pagina Mattia Feltri scrivendo, fra l’altro: “Dall’arresto di Totò Riina negli ultimi mesi della Prima Repubblica a quello di Matteo Messina Denaro di ieri, chi più chi meno, qua e là con qualche zona d’ombra, tutti i governi, con la magistratura, la polizia e i carabinieri, la mafia l’hanno combattuta e seriamente. E oggi i grandi boss sono fuori gioco, finite le stragi, finiti gli ammiccamenti. E la mafia non è stata ancora sconfitta, ok. Ma lo Stato tantomeno”. Altro che “alleato o persino al servizio della mafia”, ha scritto Mattia in un altro passaggio del suo articolo contro certa “fumisteria buona giusto per qualche serie da vendere allo scandalificio on demand”.

Con la solita bravura nella confezione dei titoli di cosiddetta copertina, mettendo semplicemente al minuscolo la località della più eclatante strage della mafia, che nel 1992 costò la vita, fra gli altri, al mitico magistrato Giovanni Falcone, il manifesto ha presentato la notizia della cattura di Denaro scolpendo:“Erano capaci”. In quel passato c’è tutto, o abbastanza. Ah, se intellettuali e politici di sinistra, vecchia o nuova, o nuovissima, avessero la stessa arguzia e misura di quei benedetti “eretici” espulsi nel 1969 dal Pci. 

Ai lettori in buona parte grillini che pendono dalle sue riflessioni il direttore del Fatto Quotidiano ha oggi raccomandato di non affrettare sollievi per l’arresto di Denaro perché solo “nei prossimi mesi, dalle sue risposte ai pm e dalle politiche del governo su 41-bis ed ergastolo ostativo, si capirà se la sua cattura è stata preceduta da trattative con chi ha più interesse al suo silenzio: i referenti istituzionali”. Eppure qd altre “trattative” sono stati intitolati processi che dovrebbero fare arrossire, per i loro risultati, inquirenti e cronisti fiancheggiatori.

Nel caso ancora fresco della cattura di Denaro Il Fatto ha già indicato chi dovrebbe arrossire, e magari dimettersi o essere rimosso: il guardasigilli Carlo Nordio per il proposito di limitare e disciplinare meglio le intercettazioni. Delle quali evidentemente non si abusa mai abbastanza, visti i miracoli che possono produrre fra tante immondizie. 

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L'”ospite” Casini benedice Bonaccini nella corsa alla segreteria del Pd

A 67 anni così ben portati, beato lui, dei quali 40 vissuti da parlamentare, ora al Senato e prima alla Camera diventandone anche presidente, e appena all’inizio di una legislatura che ha tutta l’aria di durare davvero cinque anni, trascorsi i quali saremo già alla vigilia di una nuova corsa al Quirinale, dopo quella che lui ha perso quasi per un pelo a vantaggio della conferma dell’amico Sergio Mattarella, mi ha un pò sorpreso la decisione di Pier Ferdinando Casini di scrivere un libro autobiografico, peraltro da “ultimo democristiano”. E titolato con tono nostalgico, quasi da commiato: “C’era una volta la politica”. Come se questa, alla quale lui ha pur deciso di partecipare facendosi rieleggere il 25 settembre scorso al Senato nella sua Bologna per la seconda volta ospite del Pd, inutilmente contestato col solito vezzo goliardico da Vittorio Sgarbi; come se questa, dicevo, non fosse ancora, o non fosse più politica. 

Con la presunzione peraltro di conoscerlo bene, e da quando lui non era ancora diventato deputato ma aveva già fatto strada nella sua Dc, facendo una volta perdere la testa in una riunione di corrente al segretario del partito Flaminio Piccoli, e raccontandomi poi l’accaduto in modo così divertente da ispirare un fulminante controcorrente di Indro Montanelli sul Giornale; con la presunzione, dicevo, di conoscerlo bene mi sono chiesto perché mai questo indomito campione, per me, del buon senso, della moderazione e dell’amicizia avesse deciso di mettersi o manifestarsi a riposo, soddisfatto ma anche stanco di quattro decenni parlamentari e smanioso di fare magari nella prossima legislatura il presidente dell’associazione degli ex deputati o senatori. 

No, mi son detto, qui c’è qualcosa che non mi torna. O non torna con la furbizia politica e umana che in tanti attribuiscono da sempre a Pier Ferdinando, per niente dispiaciuto peraltro di essere soprannominato proprio per questo Pierfurby, all’inglese maccheronico divertente come il latino, anch’esso maccheronico, cui si ricorre per definire le tante, troppe leggi elettorali che si sono susseguite dopo quella che contribuì con le ghigliottine giudiziarie a uccidere la cosiddetta Prima Repubblica. 

Senza neppure bisogno di comperare il libro -cosa che comunque farò- e di leggerlo per intero, mi è bastata una delle recensioni o delle anticipazioni scorse domenica nei giornali per riscoprire, diciamo così, la furbizia  non dell’”ultimo democristiano”, come lui stesso -ripeto- si è definito, ma del penultimo, vivendo ancora, grazie a Dio, l’ultranovantenne Arnaldo Forlani. Della cui segreteria del partito, fra il 1989 e il 1992,  Casini fece parte convinta e anche preziosa.

Mi ha aperto gli occhi o la malizia, come preferite, la parte conclusiva dell’articolo dedicato al libro di Casini su Repubblica da Giovanna Casadio, pur dedicato anche nel titolo alla ricostruzione della caduta del governo di Mario Draghi. Che Pier Ferdinando cercò di evitare sino all’ultimo, presentando  infine col consenso dell’interessato, che vi pose la questione di fiducia, una mozione che servì a mettere in chiaro paternità e responsabilità della crisi sfociata infine nelle elezioni anticipate.

Ebbene, a conclusione del suo articolo la Casadio ha citato parole di Casini non su Draghi ma sul tormentone, a dir poco, del congresso del Pd. Dal quale mi era parso di capire qualche tempo fa che Casini da ospite volesse tenersi defilato, ma al quale sembra che abbia finito per voler mettere almeno un dito,  o poche parole, con tutta la prudenza dell’ospite ma anche nella consapevolezza, per niente sbagliata, che la partita del Nazareno, chiamiamola così, non è per niente marginale nello scenario italiano e forse anche europeo della politica, o di quel che ne resta a leggere il titolo del libro del senatore. 

Ecco, testuali, le parole di Casini sulla polveriera del Pd: “Bonaccini rappresenta il meglio del riformismo emiliano, e non è cosa da banalizzare”, specie per un bolognese come l’ex presidente della Camera. “Elly -ancora parola di Casini riferita naturalmente alla Schlein, concorrente di Bonaccini dopo essergli stata vice presidente alla regione- è nuova, potrebbe infondere entusiasmo ma dovrebbe scongiurare la deriva radicale per non allontanare i moderati”. O non allontanarne altri ancora dopo quelli che, nonostante il significato certamente politico della ospitalità rinnovata a Casini, hanno già abbandonato elettoralmente il Pd preferendo votare addirittura la Meloni. Lo va ripetendo da tempo, chiedendo inutilmente un esame anche di questo problema, non un ospite ma un postdemocristiano e popolare sturziano come Pier Luigi Castagnetti, accasatosi regolarmente nel Pd dal primo momento.

Pubblicato sul Dubbio 

Finita la latitanza anche di Matteo Messina Denaro, a 30 anni dalla cattura di Totò Riina

Sono proprio “sfigate”, come si dice a Roma, le opposizioni al governo di Gorgia Meloni, esterne e persino interne alla stessa maggioranza garibaldinamente ammonite dalla presidente del Consiglio che “qui si fa l’Italia o si muore”. E anche  avvertite che la premier a Palazzo si difenderà da attacchi e manovre “costi quel che costi”, come fece Mario Draghi a difesa dell’euro da presidente della Banca Centrale a Francoforte. 

Il governo, peraltro all’indomani del compleanno della premier, è riuscito dove hanno mancato tutti quelli che l’hanno preceduto negli ultimi trent’anni, dopo la cattura del capo della mafia Totò Riina, morto in carcere. E’ stato preso adesso il suo successore Matteo Messina Denaro, responsabile di una lunga serie di delitti e stragi mafiose. E’ stato catturato, in particolare, in una clinica privata di Palermo, dove era in terapia. 

La cattura dello storicamente infausto successore di Riina smentisce, fra l’altro, l’altra infausta previsione o condanna politica del governo Meloni pronunciata nell’aula del Senato prima del voto sulla fiducia dall’ex procuratore generale di Palermo, ora parlamentare grillino, Roberto Scarpinato. Che aveva indicato nella formazione del  nuovo governo il segno di un abbassamento o persino caduta della lotta alla mafia. 

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L’evoluzione sempre più draghiana di Giorgia Meloni alla guida del governo

Già soprannominata “Draghetta”, diminutivo femminile di Draghi, per la continuità più volte verificatasi, e persino vantata, rispetto al presidente del Consiglio che l’ha preceduta a Palazzo Chigi -sopravvivendo per più di un anno e mezzo peraltro all’opposizione della destra, oltre che alle insofferenze della maggioranza formatasi attorno a lui per impulso del capo dello Stato- Giorgia Meloni rischia di essere chiamata “Draga” o “Dragona” ora che ne ha adottato la formula del “costi quel costi”. Che è la traduzione in italiano del famosissimo e inglese “Whatever it takes” annunciato nel 2012 da Draghi, appunto, come presidente della Banca Centrale Centrale Europea per salvare l’euro minacciato dalla speculazione internazionale sul debito pubblico dei paesi comunitari, a cominciare da quello italiano. 

Il “costi quel che costi” della Meloni, pronunciato peraltro nel giorno del suo 46.mo compleanno, è stato levato come una bandiera per promettere un fortissimo contrasto a tutti i tentativi, esterni ma anche o soprattutto interni ala maggioranza, di far finire “la luna di miele” del governo con gli italiani, come si è augurato Il Fatto Quotidiano sia pure con un prudente e realistico punto interrogativo. Cui invece non è ricorsa Repubblica scommettendo sulla capacità distruttiva della “destra spaccata” -ha titolato- sull’azione di governo: dal caro benzina all’autonomia differenziata delle regioni, dalla ratifica del trattato sul fondo europeo salva-Stati alle nomine. E chi più ne ha, più ne metta, con o senza il pugno personale di Silvio Berlusconi contro la presunta troppo giovane e inesperta leader della destra che lo ha reso minoritario nella coalizione, anche se ancora in grado per i numeri parlamentari di crearle guai irrimediabili. 

Le spaccature nel centrodestra, e persino forse nella stessa destra presa da sola, ci sono davvero, per carità. Sono spaccati, per esempio, sul problema o urgenza delle autonomie differenziate delle regioni leghisti e forzisti, di cui pure da tempo si parla di un progetto federativo per contenere il primato della Meloni nella coalizione di governo. Ma è vero anche quello che ha fatto notare già nel titolo del suo editoriale sul Messaggero il professore Alessandro Campi scrivendo della “dialettica nel governo che illude l’opposizione”. La cui crisi, in effetti, è evidentissima nei rapporti fra le varie componenti, e all’interno di ciascuna di esse, particolarmente il Pd sulla lunghissima strada del suo congresso.

E’ una crisi quella del Pd in cui un ospite illustre come l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, eletto due volte a Palazzo Madama come indipendente nelle liste del Nazareno, ha ritenuto di dovere intervenire con un libro autobiografico di “ultimo democristiano” per cercare di dare una mano, praticamente, al candidato alla segreteria e presidente della loro comune regione Stefano Bonaccini: “il meglio del riformismo emiliano, e non è cosa da banalizzare”, secondo il senatore.

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Giorgia Meloni vendica Garibaldi….e ammonisce avversari ma anche alleati

A distanza di tantissimo tempo dalle storiche elezioni politiche del 18 aprile 1948, quando a lei per nascere mancavano ancora una trentina d’anni, Giorgia Meloni ha vendicato  Giuseppe Garibaldi. Che in quella occasione fu adottato come simbolo del loro “fronte popolare” da comunisti e socialisti con una effigie peraltro sfruttata dalla propaganda democristiana molto efficacemente perché, rovesciandola, Garibaldi diventava non il defunto ma il vivo e vegeto Giuseppe Stalin, con tutta la paura che metteva il despota del Cremlino.

Alla guida della destra, oltre che del governo, La Meloni in collegamento con una manifestazione di partito a Milano si è a suo modo riappropriata di Garibaldi, appunto, paragonando    chi le mette i bastoni fra le ruote -“non solo all’opposizione”, ha precisato alludendo a quello che Repubblica ha definito su tutta la sua prima pagina “Lo strappo di Berlusconi- a Nino Bixio. Che il 15 maggio 1860, nella storica spedizione dei Mille, consigliò a Garibaldi il ritiro durante la battaglia di Calatafimini, per la preponderante superiorità numerica delle truppe borboniche. E si sentì rispondere dal generale: “Qui si fa l’Italia o si muore”. Che Libero ha tradotto, per adattare la frase alle difficoltà in cui si trova la “garibaldina”  presidente del Consiglio, in un più modesto “Qui si fa l’Italia o muoio”. 

Immagino il sorriso ironico del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quanto meno sfiorato anche lui dalle polemiche contro la Meloni per la facilità o rapidità con cui egli ne firma i decreti legge, compreso quello sui carburanti, e le correzioni imposte dalle proteste di turno. Particolarmente impietosa è, a questo  proposito, la vignetta di Nico Pillinini sulla pur periferica Gazzetta del Mezzogiorno, approdata nelle rassegne parlamentari della stampa. 

Ancora più indietro nella storia per arricchire le cronache politiche è andato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano arruolando a destra, persino come “fondatore” del suo pensiero, il necessariamente inconsapevole Dante Alighieri, prontamente difeso in una intervista alla Stampa da Corrado Augias. Ma Enrico Letta, in una vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX, ne ha approfittato per arruolare Francesco Petrarca a sinistra, o almeno nel  suo tormentatissimo partito.

La confusione nel Pd, alla ricerca congressuale della sua vera identità e non solo di un nuovo segretario, atteso non so se più per i passi  indietro o chissà per quali altri salti nel vuoto, ha dato l’occasione ad Aldo Grasso per una riflessione -nella sua rubrica domenicale del Corriere della Sera in prima paginaper quella che lui ha chiamato “la carica dei retromarcisti”, di ogni colore o schieramento. Assai pregevole la conclusione, che vi propongo: “I politici retromarcisti si comportano come i gamberi. Il loro orizzonte è dietro le spalle. A differenza dei gamberi, però, danno la colpa alla cattiva comunicazione e non arrossiscono se, metaforicamente, finiscono in pentola”. 

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Miracoli politici a Roma e a Palermo, fra pompe di benzina e tribunali

Miracoli politici a Roma, tra Palazzo Chigi  e dintorni, e a Palermo, nell’aula bunker dell’Ucciardone. Dove si si svolge il processo al ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini per sequestro di persona, contestatogli dalla magistratura, col beneplacito del Parlamento nella scorsa legislatura, per avere trattenuto nell’agosto del 2019 come ministro dell’Interno 147 migranti sulla nave spagnola Open Arms ostacolandone lo sbarco a Lampedusa.

A Roma Giorgia Meloni è riuscita a calmare i benzinai in rivolta contro “il fango” -hanno gridato annunciando uno sciopero di due giorni- che la presidente del Consiglio avrebbe rovesciato su di loro attribuendo a manovre speculative, e mobilitando la Guardia di Finanza, l’aumento dei prezzi dei carburanti provocato invece dal ripristino delle accise, cioè delle imposte, ridotte dal precedente governo. Lo sciopero dei benzinai del 25 e 26 gennaio  è stato congelato dopo un primo incontro fra le parti e sarà prevedibilmente annullato dopo il prossimo. 

A Palermo invece sono approdati per testimoniare contro Salvini, che rischia 15 anni di galera, gli ex alleati dell’era grigioverde Giuseppe Conte e Luigi Di Maio: il primo sospendendo per qualche ora le sue ostilità ormai abituali o prevalenti contro il Pd nella rincorsa a sinistra per concentrarle contro il leader leghista; il secondo interrompendo i preparativi per l’assunzione, da ex ministro, ex parlamentare, ex pentastellato, dell’incarico prospettatogli a Bruxelles di inviato europeo nel Golfo Persico. 

Entrambi i testimoni politici, pur ignorandosi a vicenda nelle nuove vesti di avversari  per la scissione consumatasi nell’estate scorsa, hanno praticamente portato fuoco o acqua -si vedrà nel prosieguo del processo- all’accusa sostenendo che  Salvini fece tutto da solo nell’estate del 2019, senza il consenso del governo. In particolare, egli ritardò lo sbarco dei migranti dalla nave spagnola di soccorso a scopo sostanzialmente elettorale, nell’ambito di una crisi  da lui stesso concepita e avviata con l’obiettivo di andare alle urne e fare il pieno di voti. Ma l’operazione, come si sa, fu sventata dal Pd di Nicola Zingaretti e ancora di Matteo Renzi sostituendo i leghisti nel secondo governo Conte. E poi votando contro Salvini per mandarlo a processo per sequestro di persona, ripeto, mentre alcuni magistrati peraltro si scambiavano messaggi per dubitare del reato contestato all’ormai ex ministro dell’Interno ma convenire al tempo stesso sulla opportunità giudiziaria, oltre che politica, di tenere  sotto tiro il leader leghista

Il Pd, una volta contribuito a mandare Salvini sotto processo, ma poi rotta l’alleanza politica con i grillini, pur lavorando molti al Nazareno per riprenderla al momento opportuno, se n’è uscito ieri in un salotto televisivo augurando al ministro di essere assolto, data la natura tutta politica della vicenda dei migranti,  ma sostenendo lo stesso l’opportunità del processo. Siamo forse al terzo miracolo politico.

A quasi 10 anni dalla morte Andreotti torna statista sul fronte giustizialista

Massimo Fini, un giornalista e scrittore   fra i più urticanti, della cui pur scomodissima collaborazione ho avuto il privilegio di godere negli ormai lontani anni della direzione del Giorno, è ciò che soleva dire il compianto Giovanni Malagodi, che ne produceva nei tempi liberi dalla politica: i buoni vini  migliorano invecchiando.

Sulla strada ormai degli 80 anni è capitato a Massimo di condividere una fila postale con Stefano Andreotti, il secondogenito del “divo Giulio” nato esattamente 104 anni fa e morto quasi da dieci, dopo essere stato sette volte presidente del Consiglio, non ricordo più quante volte ministro, una volta capogruppo della Dc alla Camera, e un’altra volta quasi candidato al Quirinale, nel 1992, mai segretario del suo partito, non si è mai capito bene se per scelta o per mancanza d’occasione. E infine imputato eccellente di associazione mafiosa e di omicidio, assolto per l’una e per l’altro. Pazienza se ancora oggi l’accusatore ormai pensionato Gian Carlo Caselli sostiene, ogni volta che qualcuno gliene dà il motivo scrivendo appunto delle assoluzioni, che quella per mafia vale poco o niente per via della prescrizione che avrebbe risparmiato al senatore a vita -altra carica collezionata da Andreotti-  la condanna per fatti, conoscenze e quant’altro risalenti a prima del 1981. 

La casuale condivisione di quella banale fila postale col figlio, che neppure conosceva ma di cui ha scoperto il nome  sentendolo pronunciare dall’impiegato allo sportello, ha felicemente rinverdito nella memoria di Massimo Fini il ricordo del padre.  Nel quale egli si era imbattuto giovanissimo in un ippodromo romano facendogli cadere gli occhiali e aveva poi avuto modo anche di intervistare da giornalista cominciando ad apprezzarne acume, gentilezza, puntualità,  cultura, ironia e altro ancora. Tanto da fargli scrivere, a conclusione di un articolo pubblicato il 12 gennaio sull’insospettabile o sorprendente, come preferite, Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio che Andreotti “in qualsiasi altro Paese d’Europa sarebbe stato un grande statista. Da noi è stato uno strano ircocervo: mezzo statista e, forse, mezzo delinquente”.Un enigma, avrebbe detto Winston Churchill. 

Non poteva scrivere meglio il buon Massimo, e fare uscire sul suo giornale il pur meno buono Marco per quella mania che ha, fra l’altro, di storpiare nomi e storie di persone non gradite pensando di fare solo dell’ironia.

C’è tuttavia qualcosa dell’articolo di Massimo Fini che al pur compiaciuto -per il resto- Mattia Feltri non è piaciuto scrivendone nella sua brillantissima rubrica quotidiana sulla prima pagina della Stampa. E’ il sollievo espresso da Massimo di non essergli mai capitato di seguire la politica frequentando le Camere nelle fila, diciamo così, della stampa parlamentare. Dove io e altri abbiamo evidentemente sprecato sessant’anni della nostra via professionale. 

Lo spazio percorso da noi poveri sfortunati, a dir poco, è stato definito da Mattia, che lo bazzica senza le lenti del qualunquismo, “il chilometro quadrato più onesto d’Italia”, essendo il Parlamento “popolato da gente con un senso dello Stato e delle istituzioni e con un rispetto delle leggi e del ruolo disastrosamente bassi, ma molto più alti che nel resto del Paese”. Egli ha citato a testimonianza delle sue convinzioni le consolanti sorprese confidategli da alcuni grillini arrivati a Montecitorio e a Palazzo Madama con la convinzione di dovere risanare chissà quali fogne, cominciando col ridurre i seggi parlamentari per velocizzare pulizie e quant’altro. 

Ah, il qualunquismo, malattia infantile o senile, come preferite, del moralismo sparso fra piazze, scuole, associazioni più o meno culturali, redazioni di giornali e tribunali, in un miscuglio di ipocrisia e infamia. E’ inutile poi stupirsi dell’assenteismo elettorale, dei giornali che vendono sempre meno copie, per quanto infarcìti di antipolitica, e di edicole che chiudono, tanto poco ormai si ha voglia in Italia di essere informati.  Gli stessi strumenti elettronici vengono compulsati spesso, o maniacalmente, da ragazzi, giovani e anziani più per giocare che per sapere o conoscere.

Pubblicato sul Dubbio  

Ripreso da http://www.startmag.it il 28 gennaio

Giorgia Meloni scivola impietosamente sulla benzina, ma….

Anche per quella curiosa decisione di difendersi nel cortile di Palazzo Chigi, asserragliata come in una fortezza, con un sostanziale monologo camuffato da intervista al Tg1, si può ben dire che Giorgia Meloni è scivolata sulla benzina, con o senza il fuoco immaginato nel titolo di copertina del manifesto.

Una volta tanto la presidente del Consiglio si è meritata anche la derisione del Fatto Quotidiano col fotomontaggio di lei e del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti “accisi da soli” con i pistoloni delle pompe di carburante.

Pure il Pd si è meritato lo sfottò del giornale di Marco Travaglio in quel passaggio dell’editoriale in cui gli si contesta la paralisi congressuale e il conseguente vantaggio da opposizione lasciato tutto e solo ai grillini, “malgrado l’oggettivo handicap -ha continuato a sfottere Travaglio- di avere un leader che passa ben due giorni a Cortina e indossa pure il maglione a collo alto”.

Meritati sono anche “il governo in panne” sparato dalla Stampa e la “retromarcia sulle accise” rinfacciata da Repubblica. Dove è francamente difficile non condividere anche il commento affidato ad una grande firma come Luca Ricolfi e intitolato “La prova del fuoco “ per l’esecutivo. 

“Non credo -ha scritto, fra l’altro, Ricolfi- che i primi passi falsi del governo Meloni, dalla marcia indietro sul Pos alla riscrittura delle norme sul rave party, abbiamo turbato troppo l’elettorato: sono cose abbastanza marginali, che toccano in modo diretto poche persone. Alquanto diverso è invece il caso delle accise sui carburanti”. Di cui non avranno ragione a lamentarsi i proprietari dei Suv, delle Ferrari, delle Maserati, Mercedes, Bmw e via paperonizzando, ma ragione al quadrato i ben più numerosi automobilisti piccoli e medi, i trasportatori e i consumatori che si vedranno scaricare addosso gli aumenti conseguenti dei costi e prezzi delle merci. 

Dio mio, presidente del Consiglio, ministri e relativi collaboratori e consiglieri, che cosa vi è saltato in mente di fare, aggravando tutto con la caccia ai presunti speculatori, pochi o molti che siano? Una caccia che ha sporcare di “fango”, come hanno protestato gli interessati, tutta la categoria dei benzinai scesi in sciopero per il 25 e il 26 gennaio, in due giorni centrali dell’ultima settimana del mese. 

Tuttavia, se fossi nei grillini tanto esaltati da Travaglio come protagonisti e vincitori di questa curiosa partita autolesionista del governo, non mi farei tante illusioni sul ricavato di questo brutto affare della Meloni. Alla quale Beppe Grillo in persona, non meno autolesionista della premier, continua sul suo blog a rimproverarle solo o soprattutto, in una vignetta in cui si fanno parlare due cinghiali ora cacciabili anche nelle città, di essere arrivata a Palazzo Chigi come i presunti progenitori di più di un secolo fa, promotori e autori della marcia su Roma.  Con questo tipo di opposizione la Meloni può anche scivolare sulla benzina e rialzarsi. 

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Meloni nei guai per la benzina, Letta ancora di più per il congresso del Pd

Per quanto fresca ancora di sorrisi incoraggianti e di benedizioni del Papa, Giorgia Meloni si è infilata nei guai coll’affare delle riduzioni fiscali sulla benzina prima ridotte e poi eliminate sottovalutando, quanto meno, gli effetti di un’operazione compiuta pur con le solite, migliori intenzioni del mondo. Per non sottrarre risorse -sostiene-  ad altri interventi sociali. 

Saranno pure esagerate quelle “bugie” elettorali rinfacciatele con un titolo contundente da Repubblica, ma non mi sembra francamente adeguata come risposta quell’agenda esposta dalla Meloni in persona con la promessa scritta di fare chiarezza, se non ho letto male. Lei è la presidente del Consiglio, o il presidente del Consiglio al maschile come preferisce sentirsi chiamare, e non più un’adolescente che apre il diario, o qualcosa di simile, davanti allo specchio per esprimere lodevoli propositi. Meglio avrebbe fatto, a mio modestissimo avviso, ad improvvisare una conferenza stampa, viste la serietà del problema e le sue ricadute sociali e politiche, ed esporre le proprie ragioni al livello istituzionale che ha così tenacemente perseguito e infine conquistato.

Scritto tutto questo sulla Meloni, permettetemi tuttavia di aggiungere una certa sorpresa nel vedere così ilarmente soddisfatto in certe foto sui giornali il segretario Enrico Letta per la prosecuzione del cosiddetto percorso congressuale  del suo partito: congressuale e “costituente”, ha aggiunto sfidando così tutti quelli -e non sono pochi, provenienti soprattutto dalla Dc, come lui-che contestano quell’aggettivo, a 15 anni dalla fondazione del Pd. 

Non saranno certamente i 7 giorni aggiunti al già lungo percorso congressuale, spostando dal 19 al 26 febbraio, le primarie per l’elezione del nuovo segretario, a produrre un maggiore chiarimento fra candidati, anime, correnti e quant’altro. O a proteggere meglio il congresso dalle ricadute delle elezioni regionali in Lombardia e Lazio che si svolgeranno fra un mese esatto. 

Non è neppure il caso di vantarsi più di tanto dell’astuzia con la quale si è riusciti a bocciare “senza spaccature” la proposta degli imitatori, inseguitori e quant’altro dei grillini di fare del Pd una specie di copia del MoVimento 5 Stelle digitalizzando le primarie, cioè il congresso.  Il voto on line sarà, grazie a Dio per un partito quale ancora Enrico Letta considera il suo, non la regola ma un’eccezione riservata, con tutte le modalità da fissare, agli invalidi, ammalati, anziani, studenti fuori sede, eccetera. Ma la sola idea delle primarie on line partorita all’interno del Pd dopo tutto quello che si è visto e si è detto nello stesso Pd della democrazia di stile e contenuto grillino, dà la misura della crisi in cui si trova il partito del Nazareno, già sorpassato d’altronde dal MoVimento 5 Stelle nei sondaggi, preferendosi di solito l’originale all’imitazione. Ha proprio ragione Stefano Folli a scrivere oggi su Repubblica, in prima pagina, della “sinistra che non c’è e il suo declino”. 

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Se anche un’udienza del Papa finisce nel mercato politico del governo Meloni

In ore o giorni in cui alla presidente del Consiglio capita di essere rappresentata da un vignettista -come Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno- minacciata d’un colpo alla testa dal pistolone del benzinaio, a rischio insomma di impopolarità per i prezzi alle stelle dei carburanti attribuiti dalle opposizioni alla mancata o scarsa avvedutezza del governo nella gestione del problema; in ore o giorni di questo tipo, dicevo, qualcuno si è posto il problema di quanto Giorgia Meloni abbia potuto guadagnare nel mercato del consenso dalle immagini e dalle cronache dell’udienza in Vaticano. Mica quella in  sostanziale clandestinità ottenuta da Padre Georg ossessionato dai diavoli dentro le sacre mura, ma un’udienza ben programmata e ben ripresa da fotografi e operatori televisivi. E raccontata anche nelle minuzie più formalistiche. 

Il Corriere della Sera, per esempio, ha tenuto ad avvertire del carattere “privato” dell’evento, secondo “la formula che Francesco preferisce usare quando incontra i presidenti del Consiglio”, ha spiegato Ester Palma in una cronaca finita nel reparto estero delle rassegne stampa parlamentari, essendo il Vaticano fuori dai confini italiani. 

Nel reparto della politica interna è finita invece la cronaca di Libero affidata a Renato Farina, che si è a lungo speso per sottolineare il carattere “ufficiale” della visita: sia di quella al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, con tanto di delegazioni delle due parti, sia di quella immediatamente precedente al Papa svoltasi in una sala abbastanza vasta per contenere anch’essa un bel pò di persone, familiari e collaboratori, che la presidente del Consiglio ha tenuto a presentare uno per uno a Francesco prima di rimanere sola a parlare “cordialmente” con lui per 35 minuti. Ma “non di Ong”, ha tenuto a precisare in un richiamino in prima pagina La Stampa, anche se si stenta a crederlo avendo trattato, sempre cordialmente, per pubblica ammissione o annuncio il Papa e la premier italiana del problema dei migranti. Il cui arrivo in Italia non è certamente estraneo alle attività di soccorso delle navi del volontariato internazionale, furenti per le nuove modalità disposte dal governo per non restringere ai soli porti meridionali, e alle relative strutture sovraffollate di   accoglienza, le operazioni di sbarco “sicuro”. 

Poco credibile mi pare anche l’informazione del Fatto Quotidiano secondo cui il Papa avrebbe “regalato” alla premier italiana “lezioni di pace” in riferimento evidentemente al conflitto in Ucraina. Di cui Francesco parla ogni giorno pubblicamente attribuendone le responsabilità alla Russia non certo in difformità dalla posizione del governo italiano.

Trovo tuttavia odiosamente strumentale ai fini della solita bagarre politica questa storia di come e quanto possa essere ritenuto un affare vantaggioso o cattivo per la Meloni un’udienza del Papa: una questione non a caso sollevata nel salotto televisivo non proprio neutrale di Lilli Gruber, sulla 7.  

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