Il centrodestra a trazione meloniana ha perduto….Letizia

“Auguroni a Moratti dopo aver fatto per il centrodestra il ministro, il sindaco e l’assessore” regionale, ha detto – commentandone l’annunciata candidatura alla presidenza della Lombardia col terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi- il vice presidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture e leader della Lega Matteo Salvini. Che peraltro si era molto speso direttamente non più tardi della settimana scorsa per allungare l’incompleta lista delle cariche della signora prospettandole incarichi di cosiddetto sottogoverno per distrarla, diciamo così, dall’aspirazione al Pirellone. Dove la Moratti vorrebbe sostituire a marzo il presidente uscente della Lombardia Attilio Fontana: da non confondere con l’altro Fontana, Lorenzo, sempre leghista, salito in questa nuova legislatura al vertice della Camera.

Evidentemente, se le cariche sono una tentazione forse poco commendevole per una signora già da tempo in carriera politica, vicinissima -in questo mese- al compimento dei 73 anni, Salvini non ha avuto problemi a fare opera di tentazione sfidando anche il pater noster nella nuova formulazione, che ci fa pregare il Signore di non lasciarcene indurre. E il tentatore di ogni credente, si sa, è il diavolo. Della cui figura rimane politicamente celebre la descrizione che fece nel 1973, in un congresso democristiano, il già allora segretario Arnaldo Forlani sotto sfratto ad opera del suo capocorrente Amintore Fanfani. Il quale aveva deciso di sostituirlo per replicare al vertice dello scudocrociato l’avventura di vertice interrottasi bruscamente nel 1959, avendo lui imprudentemente cumulato troppo potere, insieme, di partito e di governo. 

Forlani identificò nel diavolo il promotore del trasformismo finalizzato a trattenere o conquistare o riconquistare il potere, appunto. E lui coerentemente non tentò neppure di resistere all’assalto di Fanfani, magari sposandone la linea della ripresa del centrosinistra interrottosi alla fine del 1971 per la protesta dei socialisti contro l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale senza il loro consenso. 

Ma lasciamo da parte il passato e torniamo ai giorni nostri. I giorni di Matteo Salvini, alleati e avversari vecchi e nuovi. Dicevo della sua “lista incompleta” delle cariche ricoperte da Letizia Moratti in una quasi trentennale carriera politica. Salvini si è infatti dimenticato della non irrilevante presidenza della Rai assegnatale nel 1994 sotto le insegne del centrodestra, già prima di diventare nel 2001 ministro della Pubblica Istruzione rimanendovi sino al 2006 nei due governi Berlusconi -il secondo e il terzo- che contrassegnarono l’intera quattordicesima legislatura repubblicana. 

Mi chiedo se è non dico galante, trattandosi di un uomo alle prese con una signora, ma politicamente corretto liquidare la Moratti – come ha praticamente cercato di fare Salvini in nome e per conto del centrodestra-come una poltronista o poltronara qualunque sostituendosi a quei sanfedisti di Forza Italia, da cui appunto proviene l’ex sindaca di Milano, che liquidarono così nei mesi scorsi l’uscita dal partito, per dissenso politico, di Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Che furono sorpresi -a dir poco- dal ritiro della fiducia di Forza Italia al governo di Mario Draghi, dove loro la rappresentavano. 

Eppure, essendo scontata la vittoria del centrodestra nelle elezioni, a quel punto anticipate di qualche mese rispetto alla scadenza ordinaria, i tre ministri dimissionari lasciarono il certo per l’incerto: l’opposto quindi del poltronismo. Dei tre, Brunetta rinunciò pure a tentare la rielezione alle Camere in altre liste, come fecero invece le più  giovani Gelmini e Carfagna tornate in Parlamento col terzo polo.

Ora la Moratti legittimamente aspirante alla presidenza della Lombardia, peraltro  promessale, offertale e quant’altro al momento del soccorso ad Attilio Fontana prestato in piena pandemia Covid, decidendo di candidarsi proprio col terzo polo, con un Pd che solo per questo ne ha già contestato la corsa, è andata anch’essa più verso l’incerto che il certo, verso più una sconfitta, per quanto dignitosa e foriera di sommovimenti altrui, che verso una vittoria. Pure qui, come nel caso di Brunetta, Gelmini e Carfagna, l’opposto del trasformismo poltronistico. 

Mi chiedo perché nel centrodestra, o destra-centro che gli è subentrato, e più in particolare in Forza Italia, si ceda così spesso e così rovinosamente alla tentazione un pò beduina- lasciatemi dire- di liquidare il dissenso politico per tradimento, ingratitudine, poltronismo appunto e via scendendo di livello. E’ una pratica peraltro penalizzante sul piano del consenso, visto che l’ultimo sondaggio effettuato dalla insospettabile Alessandra Ghisleri, a lungo considerata “di fiducia” di Berlusconi, attribuisce a Forza Italia il 6,5 per cento dei voti, l’1,6 in meno delle elezioni politiche del 25 settembre, sorpassata dal terzo polo. Che pure col suo 8,2 ha guadagnato solo lo 0,4 per cento rispetto a circa un mese e mezzo fa.

Pubblicato sul Dubbio

“Sberle” a Enrico Letta e Pd anche dal Papa su migranti e opposizione alla Meloni

Non gliene va bene una al povero Enrico Letta, per quanto egli faccia finta di niente, o quasi, e rilanci su Repubblica “il percorso congressuale che si apre oggi” per portare “alla nascita del nuovo Pd e alla scelta della leadership che lo guiderà in questo tempo di opposizione e di costruzione di un’alternativa alla destra”. 

Costretto sabato ad uscire dal corteo romano della pace per sottrarsi agli insulti che gli piovevano addosso come  “assassino” e “guerrafondaio”, convinto che occorra continuare ad aiutare anche militarmente l’Ucraina nella resistenza all’invasione russa, il segretario del Pd ha cercato di recuperare consenso e posizioni a sinistra unendosi alle grida contro il governo per quanto sta accadendo a Catania. Dove dalle navi del volontariato cariche di migranti soccorsi nella loro fuga dalle coste africane il nuovo ministro dell’Interno lascia scendere i più bisognosi di aiuti reclamando che degli altri si occupino i paesi sotto le cui bandiere sono stati raccolti in mare. “E’ inaccettabile che si salvino solo minori e fragili”, ha  detto il segretario del Pd condividendo il rifiuto  di ripartire opposto anche con ricorsi al Tar dalle navi  con naufraghi ancora a bordo. 

Purtroppo per Letta  gli è arrivata addosso come una valanga, a questo punto, una protesta del Papa contro i paesi europei che intendono scaricare  ancora solo sull’Italia, come sulla Grecia, su Cipro e sulla Spagna, costituenti i confini meridionali dell’Unione, il problema del soccorso e dell’accoglienza dei migranti. “La politica dei governi  -ha detto testualmente Papa Francesco ai giornalisti, in volo per il suo viaggio nel Golfo Persico- finora è stata di salvare le vite. Credo che questo governo -ha aggiunto parlando di quello italiano ancora fresco di insediamento- abbia la stessa. Non penso voglia altrimenti. Non sarebbe umano. Ho sentito che ha già fatto sbarcare bambini, mamme, malati. Ma l’Italia, questo governo o un altro, non può fare nulla senza l’accordo con l’Europa. La responsabilità è europea”. 

Di religione cattolica e di provenienza politica democristiana, come tanti altri amici di partito, non credo che Enrico Letta possa fare spallucce e ripetere quello che ha detto contro il governo gareggiando con la componente del suo partito di provenienza comunista, ma neppure tutta, e con i grillini nella pratica dell’opposizione più dura possibile, e preconcetta. 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in Egitto per il summit dell’Onu sull’ambiente, si è naturalmente affrettata a ringraziare il Papa, direi due volte. Una per la posizione sul problema dei migranti e un’altra per la valutazione più in generale della situazione politica italiana.

“Il nuovo governo -ha detto il Papa rispondendo ad una specifica domanda- incomincia adesso. Gli auguro il meglio. Io auguro sempre il meglio a un governo perché un governo è per tutti. Gli auguro il meglio perché possa portare l’Italia avanti. E gli altri, quelli contrari al partito vincitore, che collaborino con la critica, con l’aiuto….un governo di collaborazione, non un governo dove gli tolgono il pavimento sotto i piedi e ti fanno cadere se non piace una cosa o l’altra. Per favore, su questo io chiamo alla responsabilità. E’ giusto che dall’inizio del secolo l’Italia abbia avuto venti governi? Ma finiamola con questi scherzi”. 

Le parole del Papa -deve avere pensato Giorgia Meloni leggendole- valgono per le opposizioni ma tanto più per le varie componenti della maggioranza. Dove la fase della destra-centro cominciata con la forte prevalenza elettorale del partito della stessa Meloni sugli altri non è stata per niente digerita dal centrodestra rivendicato ogni giorno, per esempio, da Silvio Berlusconi. La cui Forza Italia è stata appena abbandonata a Milano da Letizia Moratti. Che a marzo correrà per la presidenza della regione Lombardia col cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi.

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Enrico Letta perde in piazza un altro passaggio della partita con Giuseppe Conte

Diversamene dal Messaggero, che ha portato nel titolo di prima pagina gli insulti subiti da Enrico Letta partecipando al corteo romano per la pace, o di Libero, che ha sparato come un proiettile quell’”assassino” gridato al segretario del Pd, convinto che occorra ancora aiutare militarmente gli ucraini nella resistenza all’invasione russa, la Repubblica ha minimizzato riferendo di “qualche piccola contestazione” nel richiamo della cronaca della manifestazione. 

“Letta -racconta Concetto Vecchio all’interno- entra nel corteo alle 15,15, all’inizio di via Merulana. Scambia qualche parola con il leader della Cgil Landini. Solo due signori rompono il clima di civile convivenza: “Guerrafondaio! Servo degli americani”, gli dicono”. Lo stesso Letta, intervistato da Roberta D’Angelo per Avvenire,   ha detto: “E’ stato giusto esserci, anche a costo di subire piccole contestazioni. Sono molto contento di essere andato personalmente, contento che c’era tanto Pd, contento di come è andata, perché è stata una grande manifestazione con parole giuste”: quelle evidentemente pronunciate in Piazza San Giovanni da Landini e dall’ex ministro Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio. 

Richiesto di un eventuale incontro con Giuseppe Conte, nel corteo sin dalla partenza dalla ex Piazza Esedra, Letta ha risposto: “Eravamo in punti diversi e non ci siamo incrociati, come con tanti altri”. Sentite invece la reazione del presidente del Movimento 5 Stelle ad analoga richiesta nel racconto del già citato Concetto Vecchio, di Repubblica: “Con Letta vi siete incontrati? chiediamo a Conte, alle prese con gli ultimi selfie. “No”, dice con esibita fierezza”. Ripeto: con esibita fierezza. 

Ecco, qui c’è tutto il senso della manifestazione di ieri a Roma, o di quel “corteo a caccia di sogni”, come l’ha definito sulla Stampa il buon Domenico Quirico. All’insaputa o a dispetto di gran parte di quei centomila che sono sfilati per le strade della Capitale pensando alla pace in Ucraina, si è giocato un altro passaggio della gara fra il pur dimissionario segretario del Pd e Giuseppe Conte su chi debba essere considerato il capo dell’opposizione o, più specificamente, della sinistra. L’impressione è che anche questo passaggio sia stato vinto da Conte, per quanto dalle urne del 25 settembre il Pd sia uscito con più voti e parlamentari del movimento grillino. 

La posizione di Enrico Letta sulla guerra in Ucraina, più che a quella di Conte -smanioso di votare in Parlamento contro il decreto del governo in cantiere per l’invio di altre armi all’Ucraina per sostenerne le ragioni in vista di un negoziato di pace con Mosca, se e quando potrà aprirsi- è vicina a quella di Carlo Calenda, Matteo Renzi, Letizia Moratti e gli altri che hanno organizzato e partecipato ieri ad un’altra manifestazione per la pace a Milano. Dove invece il Pd è stato rappresentato più modestamente, direi senza volere offendere l’interessato, dall’indipendente Carlo Cottarelli eletto senatore nelle liste lombarde del Nazareno. 

“Milano, soltanto un migliaio di persone con Calenda, Renzi, Moratti e Cottarelli. Tutti gli altri erano già partiti per il fronte ucraino”, dice sarcasticamente in prima pagina “la cattiveria” del Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio, soddisfatto del “pieno di applausi” fatto da Conte a Roma, ha scritto di Enrico Letta schieratissimo con gli ucraini contro Putin: “Quando la pianteranno anche gli americani, lui continuerà da solo. Come Hiroo Onoda, il soldato giapponese arrestato nel 1974 nella giungla filippina perché non voleva credere che la guerra fosse finita da 29 anni”. L’alternativa quindi alla quale sarebbe destinato il segretario del Pd è fra un carcere e un manicomio, da riaprire apposta per lui in Italia.  

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I miliardi della Meloni e le piazze di Conte, Enrico Letta e Calenda

Purtroppo i 32 miliardi di euro, di cui 23 di maggiore deficit, annunciati dal Consiglio dei Ministri di ieri, in continuità col governo di Mario Draghi, per fronteggiare l’emergenza energetica, avvertita come caro-bollette dalle famiglie, saranno pure “il bazooka di Giorgia” esposto nel titolo di apertura del Giornale della famiglia Berlusconi ma non basteranno di certo né a risolvere alla radice il problema specifico, né a ricompattare davvero la maggioranza nel difficile percorso parlamentare delle misure urgenti disposte su raduni, ergastolo “ostativo” dei detenuti di mafia, lotta al Covid e riforma del processo penale, né a cambiare i rapporti con le opposizioni. Che pure quei 32 miliardi avevano reclamato opponendo la loro urgenza a quella data dal governo ad altri problemi. 

“Al tridente dell’opposizione serve una scuola serale”, ha titolato Il Foglio su un articolo nel quale Giuliano Ferrara ha messo a nudo le contraddizioni che alla fine vanificano l’azione -nell’ordine della loro consistenza elettorale e parlamentare- sia del Pd ancora guidato da Enrico Letta, sia del MoVimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte, sia del cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi.

Le debolezze al plurale dell’opposizione al singolare indicata nel già citato titolo del Foglio non potevano essere meglio rappresentate dalle due piazze che si contendono oggi, fra Roma e Milano, la battaglia per la pace in Ucraina: anche a costo della resa o comunque di una sconfitta del Paese aggredito dalla Russia, come si attribuisce, a torto o a ragione, alla piazza di Roma, o solo se alle condizioni volute o comunque accettate a Kiev, come si attribuisce alla piazza di Milano politicamente ascrivibile a Calenda. 

Fra le due piazze, salvo sorprese all’ultimo momento, Enrico Letta ha preferito quella di Roma “dichiaratamente apartitica ma dalla forte valenza politica”, come l’ha definita sostenendola Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. Al quale interessa poco o niente, forse, il fatto che sia riuscito a mettervi sopra il cappello Conte, come se ne fosse il capo. L’impressione che ne ha ricavato -credo non a torto, o non del tutto a torto- Stefano Rolli nella sua vignetta sul Secolo XIX, sotto il titolo “L’Ulivo della pace”,  è di un Conte con un grosso bastone d’ulivo, appunto, dominante di fronte ad un Enrico Letta intimidito.

Sino a quando l’opposizione -sempre al singolare del Foglio– sarà questa, pur nella forzata limitatezza degli interventi sul caro-bollette e dintorni; pur nell’aggrovigliata nuova edizione del contrasto all’immigrazione clandestina gestita dal ministro dell’Interno alle prese con tre navi al largo di Catania, delle quali due battenti bandiera tedesca e una norvegese; pur nell’accidentato, a dir poco, varo delle misure urgenti su raduni, carcere ostativo, reintegro dei medici no vax negli ospedali e rinvio della riforma del processo che porta il nome della ex ministra della Giustizia Cartabia; nonostante tutto questo, ripeto, Giorgia Meloni potrà sentirsi relativamente tranquilla. E fingere di non capire all’interno della maggioranza che pure guida -forte non solo di Palazzo Chigi ma anche della crescita del suo partito, giù salito nei sondaggi dal 26 per cento delle elezioni del 25 settembre al 28,7 appena rilevato dalle ricerche di Alessandra Ghisleri- il nuovo monito rivoltole da Silvio Berlusconi. Il quale, con l’aria di volere solo assicurare il controllo pieno che avrebbe del proprio partito, da cui ogni tanto continua pur ad uscire qualcuno insoddisfatto delle sue decisioni o dei suoi metodi, ha confermato -come racconta con tanto di virgolette il Corriere della Sera- un “sostegno convinto al governo di centrodestra”. Non quindi di “destra-centro”, come lo rappresentano orgogliosamente i fratelli meloniani d’Italia, e non solo le opposizioni denigratoriamente.

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Sorpresa a Bruxelles: Giorgia Meloni è terrestre, non marziana

Giorgia Meloni dev’essere arrivata ieri a Bruxelles- o sbarcata come nel titolo del manifesto sovrapposto alla foto con la presidente della Commissione europea Ursula von der Layen- abbastanza in apprensione se ha chiuso la trasferta compiacendosi di aver saputo dimostrare di essere una terrestre, non la marziana che temeva di essere apparsa a distanza. Sotto sotto, a dispetto di una campagna elettorale esplosa a Milano con quel grido contro “la pacchia” di una Unione Europea sostanzialmente al guinzaglio degli interessi tedeschi, la premier italiana deve essere arrivata a Bruxelles temendo che la pacchia stesse finendo o fosse finita per lei, come nel titolo dedicatole oggi dal Foglio.

Invece la premier italiana non è stata soltanto riconosciuta e trattata da terrestre in incontri quindi non scambiabili per quelli di terzo tipo del famoso film di Steven Spielberg del 1977, l’anno peraltro di nascita di Giorgia Meloni. E’ riuscita ad ottenere o strappare, come preferite, anche una “tregua” che Repubblica ha definito “armata”, nel contesto del “gelo” attribuito agli interlocutori pur rasserenati dal fatto che l’ospite non venisse da Marte, fornita di chissà quali misteriose armi. 

Una tregua senza aggettivi è stata quella annunciata da Avvenire, il giornale dei vescovi italiani un pò più ottimista o meno prevenuto, pur in ansia per la nuova vertenza apertasi fra Roma e Berlino sul terreno dei migranti tanto a cuore al Papa. Che li vorrebbe tutti accolti nei porti italiani, pur riconoscendo ogni tanto che non li potremmo trattenere tutti noi, colpevoli solo di vivere lungo i confini meridionali dell’Europa. 

Si vedrà se e quali effetti produrrà anche su questo terreno la missione di approccio, conoscenza e simili compiuta dalla Meloni nella capitale dell’Unione, che è pur sempre Bruxelles e non Berlino, anche se è tedesca la presidente della Commissione. Ma una tedesca che parlicchia italiano dopo tutte le vacanze che trascorre da noi, diversamente dalla conterranea Angela Merkel. Le cui vacanze in Italia non l’hanno mai invogliata a imparare la nostra lingua. 

Di ritorno dalla trasferta a Bruxelles la presidente del Consiglio ha trovato buone ma anche  brutte notizie per lei. Buone, per esempio, come quelle di Alessandra Ghisleri, il cui ultimo sondaggio -riferito personalmente sulla Stampa di oggi- danno la Meloni un indice di fiducia personale del 40,6 per cento: quasi un punto in più rispetto a dieci giorni fa, nonostante quindi, o proprio a causa delle polemiche scoppiate sulle misure adottate dal Consiglio dei Ministri sui raduni non autorizzati, sul reintegro anticipato dei medici no vax negli ospedali e sull’ergastolo “ostativo” dei detenuti per mafia. E’ salita anche l’attrazione elettorale del partito della Meloni, ormai in marcia col suo 28,7 per cento verso e forse anche oltre il 30.

Le cattive notizie per la presidente del Consiglio sono invece quelle provenienti da Forza Italia, dove aumentano le riserve, perplessità e paure derivanti dalla nuova fase del centrodestra orgogliosamente rivendicata dagli alleati rovesciandone la denominazione. Alla “scommessa del destra-centro” è dedicato con un certo sarcasmo l’editoriale odierno del direttore del Giornale della famiglia di Silvio Berlusconi. Che attribuisce proprio alla voglia o all’interesse della Meloni di marcare questa nuova identità dell’alleanza di governo risalente al lontano 1994 gli errori delle ultime misure adottate dal Consiglio dei Ministri, e destinate ad un difficile percorso parlamentare.

“La vera scommessa di Giorgia Meloni -ha scritto Minzolini- è quella di governare questo Paese non più con un approccio moderato, ma con un’identità marcata di destra.” Mi dovete avvertire- è la preghiera che rivolge quotidianamente alle persone più vicine- se cambio”. Questa è la novità….Il tempo dimostrerà se si è trattato di una scommessa vincente o di un azzardo”. L’attesa non sembra ottimistica. 

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In attesa di sapere se anche il Covid, almeno in Italia, è di destra o di sinistra

Vista la premura avuta, in vista della seduta del Consiglio dei Ministri, di ammonire a non abbassare la guardia nella lotta al Covid- sia che si concepisca di destra la pandemia, riguardosa quindi verso il governo di Giorgia Meloni, sia che la si concepisca di sinistra, pronta quindi alla recrudescenza per metterlo nei guai e forse anche abbatterlo- qualcuno si sarà stupito della rapidità con la quale Sergio Mattarella ha controfirmato tutte le misure trasmessegli da Palazzo Chigi. E ciò anche a costo di deludere giuristi di una certa autorevolezza prontamente espostisi con dubbi sull’urgenza invocata dal governo ricorrendo allo strumento del decreto legge. 

Certo, sarebbe stato clamoroso se il presidente della Repubblica, anche dopo la cordialità manifestata a Gorgia Meloni nella cerimonia del giuramento suo e dei ministri al Quirinale, avesse obbiettato qualcosa tornando  in qualche modo sulla prudenza consigliata in materia sanitaria. Ma proprio per questo, cioè per il clamore politico che avrebbe provocato, e non per un’altra carineria verso la prima donna arrivata alla guida del governo nella storia d’Italia, Mattarella dev’essersi sottratto alla tentazione di uno strappo, se davvero avvertita. 

Del resto, con avvedutezza tutta politica maturata anche sbagliando, come le capitò cinque anni fa unendosi all’allora capo grillino Luigi Di Maio nella minaccia di un impeachment di Mattarella per avere rifiutato la nomina di Paola Savona a ministro dell’Economia nel primo governo Conte, cui pure lei era interessata solo come oppositrice; con avvedutezza tutta politica, dicevo, la Meloni si era già preoccupata di alleggerire le misure predisposte per svoltare nel contrasto al Covid. In particolare, aveva rinunciato a a sollevare dall’obbligo della mascherina la frequentazione degli ospedali e delle residenze assistenziali sanitarie. Anche questo probabilmente ha contribuito a ridurre le presunte o prevedibili resistenze del Quirinale. 

Una certa astuzia la Meloni l’ha avuta anche abbinando l’intervento sul contrasto al Covid, e quello contro i raduni illegali, alle  norme sul cosiddetto carcere ostativo. Che sono di una urgenza incontrovertibile, dovendosi occupare di questa materia la Corte Costituzionale fra qualche giorno, dopo avere più volte sospeso una sua decisione, con le forbici in mano rispetto alle disposizioni in vigore sino all’altro ieri sui detenuti mafiosi. E ciò per rispettare le competenze legislative del Parlamento, dove le norme riscritte dal governo dovranno essere convertite, cioè ratificate o modificate, entro i 60 giorni stabiliti dalla Costituzione. 

A consigliare a Mattarella il via libera a tutte le misure adottate dal governo può avere  infine contribuito la consapevolezza, subito avvertita da uno con la sua esperienza, di una certa fluidità della maggioranza, particolarmente tra i forzisti di Silvio Berlusconi, di fronte alle decisioni governative più contestate dalle opposizioni. Che potrebbero pertanto riceverne un aiuto nel passaggio parlamentare della conversione non dico per sopprimerle, ma almeno per cambiarle. 

Certo, conoscendone ormai tutti anche la capacità di essere ironico, come lui stesso  una volta si compiacque  con una scolaresca in visita al Quirinale durante il suo primo mandato, Mattarella avrà sorriso pure lui della possibilità, accennata all’inizio, che potremmo avere di scoprire, nella vicenda apertasi con le decisioni del Consiglio dei Ministri, il colore politico di questo maledetto Covid, e varianti.  Se la pandemia dovesse riprendere sarà un affare politico per le opposizioni, imbrattandosi anch’essa del rosso della sinistra. Se, al contrario, non dovesse sorprenderci con una recrudescenza anche la pandemia, salvando praticamente il governo, sarebbe imbrattata del nero col quale si sta cercando di dipingere, sempre da sinistra, il destra-centro subentrato al centrodestra. Che però, a dire il vero, si era anch’esso guadagnato il nero, da parte della sinistra e dintorni, alle elezioni e all’esordio a Palazzo Chigi, nel lontano 1994, di Silvio Berlusconi  “sdoganatore” -si gridò- di fascisti, parafascisti e simili. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 5 novembre

La premier italiana come una sarta nella prima missione a Bruxelles

Con la solita efficacia di scrittura e di immagine Antonio Polito ha scritto sul Corriere della Sera –a proposito degli appuntamenti odierni a Bruxelles con la presidente del Parlamento continentale, la presidente della Commissione esecutiva e il presidente del Consiglio Europeo- che Giorgia Meloni “farà bene a usare questo primo contatto per prendere le misure dell’abito da indossare” nelle successive riunioni collegiali, “perché non potrà essere quello sfoggiato nell’esordio da premier a Roma”. Che è l’abito della sfida, della durezza su tutti i fronti: la Meloni “fiera del pugno di ferro” rappresentata dalla Stampa in riferimento alle misure adottate con urgenza su raduni, carcere “ostativo” dei detenuti di mafia e rientro anticipato dei medici no vax negli ospedali in Italia. Esse hanno provocato non poche proteste, e riserve anche nella maggioranza ad opera dei forzisti di Silvio Berlusconi, alle quali la premier ha reagito dicendosi “orgogliosa” delle decisioni prese, pur sapendo che sono  destinate, specie in materia di raduni non autorizzati con più di 50 persone punibili sino a 6 anni di carcere, ad essere modificate in Parlamento. 

La durezza in sede europea è quella, evocata in un titolo sulFoglio, della “pacchia finita” gridata in piazza dalla Meloni a Milano in campagna elettorale contro una Unione Europea solitamente piegata agli interessi dei tedeschi. Con i quali già Mario Draghi -che l’ha preceduta a Palazzo Chigi lasciandole in eredità un contenzioso sostanzialmente ancora aperto proprio con Berlino sulla crisi energetica e il tetto necessario al prezzo del gas- le ha consigliato nella cordiale e collaborativa transizione fra i due governi di imitarlo nel pugno chiuso in un guanto di velluto. O -per restare all’immagine di Polito sul Corriere- indossando un abito non troppo stretto. 

Le circostanze hanno purtroppo voluto che la missione di approccio, diciamo così, della Meloni a Bruxelles, già di per sé non scambiabile per “una passeggiata”, come ha titolato il manifesto, coincidesse con uno scontro a livello diplomatico proprio con i tedeschi sul problema vecchio e spinosissimo dell’immigrazione clandestina. Che non è una questione bilaterale, la cui controparte per l’Italia varia da un caso all’altro, ma generale, continentale perché chi, da solo o soccorso in mare da una nave volontaria, punta sui porti italiani  come confini meridionali dell’Europa. 

Della nuova controversia invece bilaterale fra Italia e Germania -la cui bandiera sventola sulla nave Humanity 1 diffidata dal Viminale, come ai tempi del ministro dell’Interno Matteo Salvini, dallo sbarcare da noi 179 migranti, di cui 105 minori, senza una preventiva loro distribuzione fra i Paesi dell’Unione- si è occupato con particolare e significativa evidenza Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. Il suo titolo al centro della prima pagina dice. “Meloni: navi ong pirata- Berlino: soccorsi subito”. 

Ma all’Humanity 1 per parità di condizioni, con il coinvolgimento questa volta anche della Norvegia, si sono nel frattempo aggiunte altre due navi. Il totale dei migranti trattenuti in mare senza poter contare su uno sbarco regolare nei porti italiani è di circa un migliaio. 

Come la Meloni nella sua “avventura di governo spero lunga, sicuramente difficile”, ha detto nella cerimonia di giuramento dei sottosegretari a Palazzo  Chigi, voglia risolvere questo problema si sa: con la distribuzione dei migranti fra i vari paesi europei già prima delle loro partenze dalle coste africane, grazie a un blocco navale concordato fra gli Stati affacciati sul Mediterraneo. I disperati oggi gestiti dai cosiddetti scafisti, cioè dai rivoltanti commercianti di carne umana, dovrebbero poter attendere ordinatamente, e davvero liberi, non imprigionati e trattati come bestie, che apposite commissioni europee ne  controllino provenienza e richieste di espatrio e li destinino ai vari paesi dell’Unione. Sarebbe bello, certo. Ma neppure il cammino verso una simile soluzione, per dirla col manifesto, è “una passeggiata”.

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Il gioco delle trappole ordito o attribuito alla Meloni con le misure su raduni e Covid

Fra le misure adottate dal governo con una priorità che il Pd avrebbe preferito fosse stata assegnata al caro-bollette, quelle contro i raduni illegali hanno provocato le reazioni più dure: ancora di più del rientro delle migliaia di medici “no vax” negli ospedali, dove pare che non tutti sono lì ad aspettarli a braccia aperte considerandoli dei rinforzi nella lotta alla perdurante pandemia da Covid. C’è piuttosto “tensione” per questo, come dice un titolo di prima pagina del Corriere della Sera, comunque secondario rispetto a quello dedicato alle polemiche sull’intervento contro i “rave party”.

“La legge manganello” ha protestato contro questo intervento la Repubblica inseguendo o inseguita, come preferite, dal Fatto Quotidiano con la “Galera per i ragazzi”. Che, non bastando evidentemente, è stata condita con una vignetta di Riccardo Mannelli sul manganello e con un fotomontaggio in cui, da sinistra a destra, il ministro dell’Interno, la presidente del Consiglio  e il vice presidente e leader della Lega sono travestiti da agenti di Polizia attrezzati per gli scontri. 

A leggere il direttore Claudio Cerasa sul Foglio, sotto il titolo in rosso “Come trollare la sinistra”, Giorgia Meloni avrebbe calcolato tutto questo, con la perfidia di una politica consumata, per provocare eccessi di reazione identitaria e ricavarne vantaggi. “La sinistra in questa logica -ha scritto Cerasa- diventa la parte politica che difende l’illegalità dei rave, che vuole offrire canne libere per tutti…. che vuole combattere l’ergastolo ostativo perché vuole difendere i mafiosi, che sogna di ripristinare appena possibile dolcissimi lockdown, che sogna di tappare ancora le nostre bocche con le mascherine solo per mettere le nostre vite nelle mani dello Stato, che vuole assecondare i diktat delle case farmaceutiche inoculando tutti i nostri figli con ogni genere di vaccino non sufficientemente testato” ed altro ancora. 

Sembrano fatti apposta per confermare questa interpretazione o analisi del direttore del Foglio i titoli del Giornale di famiglia di Silvio Berlusconi e di Libero. Il primo rappresentando “Il Pd sulle barricate in difesa dei rave” e per “il ritiro delle norme”. Il secondo rappresentando, ancora più in generale, “La sinistra allo sbando”. 

Verrebbe la voglia di congratularsi con la Meloni, dal punto di vista di Cerasa e forse anche suo, per avere così esattamente e rapidamente raggiunto l’obbiettivo di mettere gli avversari in cattiva luce sul versante dell’”elettorato di buon senso”, come ieri sulla Stampa chiamava quello reale e potenziale della “destra pragmatica” Flavia Perina. Che la conosce bene avendone diretto per anni il giornale ufficiale, ai tempi di Gianfranco Fini: Il Secolo d’Italia. 

C’è però qualcosa che non funziona in questa rappresentazione, in questo gioco della o delle trappole attribuito alla Meloni. Ed è -a dispetto dei titoli già ricordati del Giornale e di Libero- la partecipazione neppure tanto nascosta di una parte della maggioranza e dello stesso governo alle critiche, riserve e quant’altro rispetto alle misure adottate con decreto legge e già pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale per essere state rapidamente controfirmate dal Capo dello Stato. Del quale buone fonti mi hanno riferito la convinzione che siano destinate ad essere modificate nella conversione parlamentare. Infatti già oggi Il Messaggero assicura in un sottotitolo in prima pagina che “si studia la riduzione della pena” massima di sei anni per promotori e attori di raduni illegali di più di 50 persone. Già in Consiglio dei Ministri il vice presidente forzista Antonio Tajani si era esposto con osservazioni critiche al testo delle norme predisposte dal ministro dell’Interno convincendo delle sue argomentazioni la Meloni. Che tuttavia al termine della riunione, commentando anche  la nomina dei sottosegretari, aveva avvertito di aspettarsi “lealtà” dagli alleati. 

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Le sorprese della Meloni nel varo delle prime misure del suo governo

Il buon Massimo Franco sul Corriere della Sera ha visto nelle misure adottate dal Consiglio dei Ministri “un inizio molto identitario”, concedendo che “forse non poteva essere diversamente”. Un inizio identitario di destra cioè, essendo diventata di “destra-centro” la coalizione originariamente di centrodestra fondata nel 1994 e a lungo condotta personalmente, fra Palazzo Chigi  e l’opposizione, da Silvio Berlusconi. 

Certamente di destra può essere sommariamente interpretata,  con i canoni di certa sinistra, la durezza con la quale il Viminale, diversamente dalla precedente titolare, ha gestito la vicenda del “rave party” a Modena. Che si spera sia stata l’ultima edizione di questo tipo di raduni con licenza di droga e simili.

Eppure, poiché le reazioni politiche e mediatiche contano per farsi un’idea o un giudizio, l’apertura di un giornale come Il Fatto Quotidiano, che riflette spesso e a volte persino anticipa le posizioni di Giuseppe Conte, impegnato ora a correre più a sinistra di tutti, non sembra proprio un grido di protesta. Essa, pur definendo  nel sommario “ruspa” quella del ministro Matteo Piantedosi a Modena, ha soltanto  riferito: “Il reato di rave party, poi ergastolo e Covid” . Questo e non altro di più, ripeto, il giornale di Marco Travaglio ha registrato delle “prime misure del Cdm”. Le proteste di un giornale di opposizione di sinistra stile Conte si sono scaricate, col solito fotomontaggio e il resto, solo sull’“L’Armata Brancameloni” dei 39 sottosegretari, otto dei quali destinati ad essere viceministri, nominati per completare il governo cercando di accontentare il più possibile, o scontentare il meno possibile, i partiti della maggioranza. Da uno dei quali Giorgia Meloni ha accettato anche la designazione di Vittorio Sgarbi ai beni culturali, o alla Cultura tout court, come si preferisce dire ora a Palazzo Chigi. 

La competenza del mio amico Vittorio di sicuro c’è. Spero, per la Meloni, che arrivi anche il contenimento comportamentale e caratteriale dell’interessato, protagonista in passato come parlamentare e sottosegretario di episodi ispirati non proprio alla moderazione. Stavolta tuttavia Sgarbi se la dovrà forse vedere con un presidente del Consiglio -come la Meloni preferisce essere chiamata, al maschile- meno paziente. 

Ma torniamo alla prudenza, tutto sommato, del giornale più vicino a Conte nel registrare e riferire sulle prime misure del nuovo governo. E’ proprio indicando quello che il direttore in persona Piero Sansonetti ha chiamato addirittura “l’asse Meloni-Travaglio”, che un quotidiano orgogliosamente garantista come Il Riformista ha gridato contro il governo: “Giustizia: passa la linea fasciogrillina”. E ha aggiunto, tra parentesi, coinvolgendo nella protesta il nuovo ministro della Giustizia, pur famoso per le sue posizioni generalmente osteggiate dai suoi ex colleghi  magistrati d’accusa: “E Nordio? Se la dorme”. 

Il nuovo ministro, già candidato al Quirinale dalla Meloni, avrebbe concesso troppo proprio ai suoi ex colleghi d’accusa rinviando l’applicazione della riforma Cartabia del processo penale e non difendendo abbastanza il diritto reclamato -e un pò sostenuto anche dalla Corte Costituzionale- da condannati di mafia all’ergastolo di sottrarvisi con benefici derivanti da una lunga detenzione. E’ il problema del cosiddetto “ergastolo ostativo”: una cosa complicatissima che evidentemente neppure Nordio riesce a spiegare bene al pubblico, se è così facile anche per lui essere strapazzati dal buon Sansonetti. 

Speriamo, per Nordio naturalmente, così tanto voluto da Giorgia Meloni come Guardasigilli, al punto da impegnarsi in un braccio di ferro con Berlusconi che voleva al suo posto la ex presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, dirottata alla fine al Ministero delle Riforme; speriamo per Nordio, dicevo, che appaia più sveglio a Sansonetti nel prosieguo dell’azione di governo. 

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Se anche Berlusconi accorre al capezzale del Pd temendone la fine

“Un Pd in bambola, suonato come un pugile, è un pericolo per Giorgia Meloni perché regala la golden share della controparte politica al M5s di Giuseppe Conte, il quale -dal draghicidio in poi- è tornato a crescere grazie ai “no” a prescindere”. Così ha scritto Marco Zucchetti in un editoriale recente del Giornale della famiglia Berlusconi invitando “tutti”, sin dal titolo, a temere “il coma” in cui si trova il partito di Enrico Letta, messo sui binari di un congresso destinato a concludersi con le primarie solo il 12 marzo, fra quattro mesi e mezzo. 

“Un’enormità”, ha avvertito inutilmente l’ex presidente del Pd Matteo Orfini in un intervento all’ultima direzione al Nazareno lamentando, fra l’altro, la sottovalutazione del pericolo costituito da un Giuseppe Conte “ipocrita e trasformista”. Che da “punto di riferimento più alto dei progressisti” indicato dall’ex segretario del Pd Nicola Zingaretti è diventato il concorrente di Enrico Letta, e di chi gli succederà, alla guida dell’opposizione. Una gara -direi- nella quale, se la perdesse, il Pd passerebbe dal coma alla morte, dal reparto di terapia intensiva, dove è finito dopo la sconfitta elettorale del 25 settembre scorso, all’obitorio. Altro che “il nuovo Pd” propostosi dal segretario uscente in veste di “garante e arbitro” di tutto il percorso congressuale di “rifondazione”: un segretario liquidato con derisione da Libero come un “beduino vagante all’infinito nel deserto della sinistra”. 

Ma il pericolo avvertito dal Giornale per il coma del Pd davvero investe soltanto  Giorgia Meloni a causa di una “controparte” egemonizzata da Conte nella sua ultima versione di sinistra estrema, o quasi? E’ troppo malizioso pensare che ancor più della Meloni -certamente consapevole della durezza dello scontro con Conte, durante il cui discorso alla Camera sulla fiducia lei ha dato della “merda” secondo una ricostruzione labiale non smentita- il pericolo minacci Berlusconi? Il quale potrebbe trovarsi ancora più stretto di adesso nel destra-centro che è diventato il suo originario centrodestra se non potesse contare su un Pd dialogante per soluzioni d’emergenza in caso di crisi. 

D’altronde, pur avendo inaugurato la stagione del bipolarismo, basata sulla contrapposizione alla sinistra, Berlusconi non ha avuto molte remore a partecipare col Pd a maggioranze chiamate “larghe” o “di solidarietà nazionale”, secondo le circostanze.  Lo fece nell’autunno del 2011 cedendo Palazzo Chigi a Mario Monti e appoggiandone un governo tecnico osteggiato invece dalla Lega ancora di Umberto Bossi. Lo rifece nel 2013 col primo e unico governo di Enrico Letta, da lui preferito a un Matteo Renzi che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano era pronto già a chiamare a Palazzo Chigi se ne avesse avuto la designazione da una maggioranza riconosciutasi nella inopportunità di chiudere la legislatura appena cominciata. Il povero  Pier Luigi Bersani aveva ingenuamente creduto di poter formare con l’aiuto dei grillini un governo definito “di minoranza e combattimento”. 

Nel 2018 di fronte alla vittoria  elettorale imprevista delle 5 Stelle Berlusconi concesse praticamente alla Lega, nel frattempo passata sotto la guida di un Matteo Salvini che lo aveva peraltro sorpassato nelle urne, la licenza di un governo con Conte pur di evitare le elezioni anticipate, anche allora.  E quando, nel 2021, nel corso della stessa legislatura, fallì anche il secondo governo di Giuseppe Conte consentito a sorpresa dal Pd, Berlusconi non esitò un istante a aderire al governo e alla maggioranza “anomala” voluta dal presidente della Repubblica, nella impossibilità o indisponibilità alle elezioni anticipate in periodo di pandemia acuta,  mandando Mario Draghi a Palazzo Chigi. Allora Berlusconi si trascinò appresso la Lega nella maggioranza col Pd. Ne vollero rimanere fuori -o ne furono  esclusi per un veto dei grillini, secondo alcune fonti – i fratelli d’Italia della Meloni, non so se più fortunati o astuti nella conduzione di un’opposizione destinata a consegnare loro il centrodestra e, insieme, il primo governo peraltro a conduzione femminile nella storia d’Italia: un vero e proprio bingo. 

Di questo bingo della destra  Berlusconi, non a caso distintosi per imprevedibilità e nervosismo nei primi passi della nuova legislatura, e ancora tentato – parlandone con Bruno Vespa- da distinzioni sul versante della guerra in Ucraina, sembra francamente più un prigioniero, per quanto applaudito come un patriarca dal governo Meloni in piedi al Senato, che un beneficiario. E ancor più lo sarebbe se il Pd uscisse anche dalla scena dell’opposizione per dissolversi nel vuoto, o accettare la subordinazione ai grillini. La cui avventura, del resto, era cominciata nel 2009 con la tentata iscrizione dello stesso Grillo al Pd, in Sardegna, per scalarne la segreteria nazionale lasciata da Walter Veltroni. Al governo, in quei tempi, c’era ancora Berlusconi col suo centrodestra, per quanto già insidiato dalle ambizioni di Gianfranco Fini. 

Pubblicato sul Dubbio

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