Macron e Mattarella replicano lo spot della telefonata che allunga la vita

Sergio Mattarella da Roma ed Emannuel Macron da Parigi, entrambi al loro secondo mandato di presidenti della Repubblica d’Italia e di Francia, sono dunque tornati dopo tre anni alla pratica dello spot del telefono che allunga la vita. Anche quella delle relazioni politiche e istituzionali minacciate da improvvide iniziative -avrebbe detto la buonanima di Amintore Fanfani- di esponenti di governo non proprio all’altezza delle loro funzioni.

Tre anni fa, nel 2019, i due presidenti contennero i danni dell’allora vicepresidente del Consiglio e pluriministro Luigi Di Maio, che scortò l’amico Alessandro Di Battista in una visita a Parigi di incoraggiamento ai “gilet bianchi” in  violenta rivolta. Il telefono riuscì nel miracolo anche di fare ingoiare a Macron dopo qualche mese la promozione di Di Maio a ministro degli Esteri, addirittura. 

Ora i due presidenti al telefono hanno messo una toppa allo sbrego prodottosi nelle relazioni fra i due paesi dalla rincorsa fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il vice presidente Matteo Salvini nella gestione più dura possibile degli sbarchi dei migranti soccorsi in mare da navi del volontariato battenti bandiere di paesi europei che reclamano il diritto di non occuparsene. Essi lasciano praticamente all’Italia l’onere di un’accoglienza umanitaria e indiscriminata. 

Riusciti -forse grazie proprio a quella telefonata di tre anni fra l’Eliseo e il Quirinale, e al successivo trattato bilaterale firmato quando Mario Draghi era ancora a Palazzo Chigi- a convincere con una certa discrezione Macron a fare sbarcare per la prima volta sul territorio francese i 334 migranti soccorsi dalla nave Ocean Viking battente bandiera norvegese, Salvini prima e la Meloni dopo se ne son pubblicamente vantati.Lo hanno fatto a  tal punto da mettere il presidente d’oltralpe nei guai in Francia e un pò anche a Bruxelles. E’ seguito tutto il resto, prevedibile per politici e diplomatici di una certa esperienza, sorprendente, esagerato, aggressivo e quant’altro per gente a dir poco inesperta. 

Si vedrà ora se e in quanto tempo la toppa messa allo sbrego dai due presidenti potrà tradursi a livello comunitario nella definizione di una nuova disciplina degli sbarchi su quelli che non sono solo i confini italiani ma anche i confini meridionali e maledettamente marittimi dell’Unione Europea. 

Il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, raccogliendo -credo- notizie di buona fonte in un palazzo che conosce e frequenta come casa sua, ha scritto che nel suo intervento telefonico  Mattarella non ha pensato di “commissionare Palazzo Chigi” o di “entrare nel merito delle scelte tecniche da fare sulle aperture  dei porti, sulle navi delle ong, sulla gestione degli sbarchi e, soprattutto, sul ricollocamento condiviso delle persone”: tutte cose da definire nelle sedi proprie di governo, a livello interno e comunitario. Ma il presidente del Senato Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, muovendosi volente o nolente come un elefante in una cristalleria, ha voluto far dire a Mattarella quello che non ha detto, cioè di avere condiviso e appoggiato praticamente l’operato della Meloni e di Salvini. Benedett’uomo, perché qualche volta non si trattiene? 

“E’ abbastanza evidente -ha scritto Stefano Folli su Repubblica– che la premier subisce la pressione di Salvini, il quale pensa di trarre vantaggio da una tensione continua in cui a indebolirsi sarebbe la sua alleata-rivale. Lei ha saputo mettere nell’angolo il Carroccio durante la campagna elettorale ma oggi le parti rischiano di ribaltarsi”, avendo la Meloni paura di deludere il proprio elettorato. “Il rebus dovrà essere risolto in fretta, prima che si trasformi in un piano inclinato molto scivoloso”, ha concluso Folli facendo ottimisticamente credere che non siamo giù su quel piano. 

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Soffocanti per il governo gli abbracci di Salvini alla Meloni.

Per il centrodestra o destra-centro, col trattino come preferiscono chiamarlo i fratelli d’Italia –e concede ogni tanto Augusto Minzolini sul Giornale della famiglia Berlusconi, ma solo per irriderlo sottolineandone errori, pasticci e quant’altro- questa poteva essere una legislatura tranquilla, persino monotona per le condizioni in cui si trovano le opposizioni. Che sono divise ancor di più che nella campagna elettorale, col maggiore partito di quelle parti -il Pd- a rischio di dissoluzione. Altro che la rifondazione, rigenerazione e simili affidata ad un congresso lento come una lumaca dal segretario Enrico Letta, indisponibile a ricandidarsi alla guida di quello che lui chiama ottimisticamente  un “nuovo partito”. 

Eppure il centrodestra o, ripeto,  il destra-centro già cammina a vista, in una unità di intenti e di azione solo apparente, in realtà con quello che il Corriere della Sera ha definito non a torto “il controcanto di Forza Italia”. Un controcanto continuo non destinato a una crisi, per carità, non disponendo Berlusconi di alcuna sponda a sinistra: non nel Pd ridotto nelle condizioni già accennate, non nel partito ormai di Giuseppe Conte, che è ancora più a sinistra del Pd, né nel cosiddetto terzo polo, troppo piccolo perché qualcuno possa pensare di costruire con esso una maggioranza alternativa a quella uscita dalle urne del 25 settembre. Ma tanto più Berlusconi diventa prigioniero dell’ultima edizione di quello che si ostina a chiamare ancora centrodestra, quanto più di dimena e tende a prendere le distanze dagli alleati. La cui mancata compattezza nel percorso parlamentare dei provvedimenti del governo, adottati sinora soprattutto con lo strumento eccezionale del decreto legge, potrebbe riservare chissà quali e quante sorprese. Le opposizioni, pur malmesse, non si lasceranno certamente scappare le occasioni per dimostrare la possibilità di incidere. Peggiore di una crisi è per un governo la condanna a galleggiare sulle proprie divisioni, a prendere decisioni destinate a non uscire indenni dai passaggi parlamentari.

Forza Italia, considerabile l’anello debole della maggioranza, la componente più in sofferenza, ha potuto contare nella scorsa legislatura su un rapporto privilegiato con la Lega di Matteo Salvini -tanto privilegiato da perdere per strada pezzi significativi come tutti i ministri che la rappresentavano nel governo Draghi- per cercare di contenere la progressiva, implacabile avanzata di Giorgia Meloni verso l’obiettivo di Palazzo Chigi. Che aveva spesso indotto Berlusconi a parlarne più ridendo, o sorridendo nel migliore dei casi, che credendoci. 

Ora che Giorgia Meloni è davvero  in quel palazzo Berlusconi -e il suo cerchio più o meno magico, a cominciare da Licia Ronzulli, cresciuta proprio per i collegamenti con la Lega- si trova di fronte a un rapporto privilegiato tra la stessa Meloni e Salvini. Che temo  il Cavaliere non avesse proprio messo nel conto: una sorpresa peggiore di una sconfitta. 

Pubblicato sul Dubbio

Non aiuta Gorgia Meloni il rapporto preferenziale con Matteo Salvini

Dalla crisi scoppiata tra Parigi e Roma sul  fronte dei migranti è emerso in tutta la sua evidenza il carattere privilegiato del rapporto tra Angela Meloni e Matteo Salvini nella coalizione governativa di centrodestra. O di destra-centro, come il partito della presidente del Consiglio preferisce ora che venga chiamato. E come lo definisce ogni tanto nei suoi editoriali anche il direttore del Giornale berlusconiano, Augusto Minzolini, ma in modo sfottente, quando egli vuole sottolineare le difficoltà o gli errori del governo.

Proprio oggi il Corriere della Sera pubblica un articolo dettagliato di Tommaso Labate sulle prese di distanza di Berlusconi e amici dalle decisioni o dagli annunci del governo.  Il richiamo in prima pagina ha un titolo che più chiaro non potrebbe essere: “Il controcanto di Forza Italia”. 

Tutte le coalizioni di governo, d’altronde, finiscono per avere rapporti preferenziali fra il partito più forte elettoralmente e qualcuno degli altri. All’epoca lontana del centrismo, per esempio, la Dc aveva rapporti preferenziali intermittenti con i liberali, mandando al Quirinale nel 1948 Luigi Einaudi, o con i repubblicani di Ugo La Malfa. All’epoca del primo centrosinistra la Dc era strattonata -salvo nella breve durata della loro unificazione- da socialdemocratici e socialisti perché privilegiasse gli uni o gli altri. 

Persino negli anni della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, fra il 1976 e i primi mesi del 1979, la Dc assumendosi da sola la titolarità del governo, composto interamente di democristiani e presieduto da Giulio Andreotti, instaurò un rapporto preferenziale con i comunisti. Ai quali – dovendoli lasciare fuori dal governo per evitare problemi con gli americani, che ne diffidavano moltissimo per i legami con Mosca-   escluse anche socialisti, socialdemocratici e repubblicani.

Nel passaggio tra il centrosinistra e la solidarietà nazionale la Dc aveva privilegiato i repubblicani con la formazione del bicolore Moro-La Malfa. Lo stesso sarebbe accaduto nel 1981 con la promozione del repubblicano Giovanni Spadolini a presidente del Consiglio, dopo avere negato due anni prima Palazzo Chigi a Bettino Craxi. Al quale tuttavia la Dc, per quanto guidata da un Ciriaco De Mita salito al vertice del partito proprio in funzione di contenimento del leader socialista, dovette cederlo nel 1983. Per toglierglielo, con le brutte maniere di due crisi di governo e di un ricorso alle elezioni anticipate, De Mita dovette aspettare quattro anni: un tempo lunghissimo  per l’abitudine che si aveva di produrre governi alla media di circa l’uno l’anno.

Anche nella cosiddetta seconda Repubblica le coalizioni di governo sono vissute di rapporti privilegiati fra il partito più forte e qualcuno degli altri, ben prima quindi che a Palazzo Chigi, in quella che  non si sa più se definire terza o quarta Repubblica, come da un’omonima trasmissione televisiva, arrivasse Giorgia Meloni e instaurasse una relazione politica preferenziale col leader della Lega. Che è stata così risarcita di tutti i voti che le sono stati sottratti dalla stessa Meloni nelle urne del 25 settembre, e nei precedenti turni elettorali regionali o comunali. 

Il rapporto privilegiato con la Lega da parte della presidente del Consiglio è tale da fare scrivere oggi a Claudio Tito su Repubblica di un “governo salvinizzato”. E da farlo apparire probabilmente  tale anche a Emmanuel Macron, spiazzato e irritato, prima ancora che dalla Meloni, dal trionfalistico annuncio di vittoria dato da Salvini all’annuncio della disponibilità dell’Eliseo a fare sbarcare per la prima volta in un porto francese   oltre 300 migranti soccorsi al largo delle coste africane da una nave del volontariato.

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Forte, e in aumento, la nostalgia di Mario Draghi fra gli italiani

In un sondaggio di Demos ancora fresco di stampa l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, 75 anni compiuti il 3 settembre scorso, quando era ancora a Palazzo Chigi, quasi irriconoscibile ora nella sua semplicità di passante ripreso davanti al recinto di un cantiere, è salito di otto punti in un mese nella graduatoria del gradimento popolare: in particolare, dal 63 al 71 per cento. Lo segue, distanziata di 12 punti, due in più rispetto a ottobre, la donna -prima assoluta alla guida di un governo italiano- che ne raccolse la successione, e la campanella d’argento del Consiglio dei Ministri, in una cerimonia improntata alla massima cordialità, e continuità politica. Eppure al governo Draghi la leader della destra italiana, diversamente dagli alleati Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, si era opposta per tutta la sua durata, nella scorsa legislatura, fatta eccezione per la politica estera, specie dopo l’aggressione russa all’Ucraina. 

Giuseppe Conte, che alla testa del MoVimento 5 Stelle non ha mai perdonato a Draghi di averlo sostituito a Palazzo Chigi il 13 febbraio 2021, è distanziato di ben 27 punti dal suo successore. La distanza era di 20 il mese scorso. 

Lasciamo perdere, per brevità e umanità, i dettagli  -con le variazioni fra novembre e ottobre- del resto della graduatoria, limitandoci a registrare i più recenti 35 punti di Salvini, 31 di Berlusconi, 30 di Carlo Calenda, 26 di Enrico Letta , 23 di Matteo Renzi e 13 di Beppe Grillo. 

Vedremo fra un mese, nel caso prevedibile in  cui Demos tornasse a sondare il gradimento degli italiani, se e quanto sarà costato a Draghi il colpo dato, sul fronte dei migranti, dal suo amico Emmanuel Macron ai rapporti con l’Italia, accusata di “disumanità” e altre nefandezze per avere in qualche modo costretto Parigi, magari con troppa furbizia, a fare attraccare per la prima volta in un porto francese una nave del volontariato, battente bandiera norvegese, con 234 migranti soccorsi al largo delle coste africane. Ne è nata, come si sa, una brutta crisi comunitaria in cui finora l’Italia è riuscita a trovare la solidarietà solo della Grecia, di Cipro e di Malta. E’ un fronte che, per la comune protesta contro i metodi dei soccorsi delle navi del volontariato, si è procurato da Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, la qualifica di “disumanitario”. Eppure il Papa in persona ha di recente esortato pubblicamente l’Europa a non lasciare sole l’Italia, appunto, la Grecia, Cipro, Malta e la Spagna a provvedere agli sbarchi dei migranti e a quel che ne consegue. La Spagna, non aderendo al “fronte disumanitario” denunciato da Avvenire, ha evidentemente ritenuto di essere stata a torto chiamata in causa dal Pontefice. Affari, o misteri, di Madrid. 

Vedremo inoltre fra un mese se e quali variazioni di gradimento di Draghi risulteranno dopo la ritirata dei russi anche da Kherson, dove si festeggia il ritorno all’Ucraina grati pure all’Italia per gli aiuti politici e militari forniti al governo di Kiev nella resistenza e poi controffensiva contro le truppe di Putin. Di questi aiuti italiani Draghi può ben intestarsi il merito per come gestì sin dal primo momento a Palazzo Chigi il problema apertosi con l’aggressione russa, nello scorso mese di febbraio. Non se ne può certo vantare Conte, anche se ha disinvoltamente tentato di farlo. E neppure, a dire la verità, all’interno del centrodestra Berlusconi, con le sue ripetute esternazioni personali, o Salvini, o entrambi. 

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La crisi italo-francese sui migranti guasta la festa per il ritiro dei russi da Kherson

Proprio nei giorni in cui potrebbe festeggiare, insieme con gli ucraini così tanto aiutati, la ritirata dei russi da Kherson, l’Europa è investita dalla crisi scoppiata nei rapporti tra Francia e Italia sul problema dei migranti. Una crisi seguita in Italia con particolare delusione dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, cui La Stampa attribuisce questo commento: così distruggono l’asse con l’amico Macron.

In effetti Draghi e Macron hanno costituito nei mesi scorsi una coppia politica affiatatissima, non a caso firmatari di un patto fra Italia e Francia  al Quirinale. Che si era sviluppato a tal punto da incrinare davvero il tradizionale, lungo asse preferenziale fra Parigi e Berlino nell’Unione Europea. 

All’improvviso, uscito Draghi da Palazzo Chigi e subentratagli Giorgia Meloni pur con ostentata cordialità, è bastata una nave di soccorso battente bandiera norvegese con 234 migranti, la Ocean Viking, a rimettere in crisi i rapporti italo-francesi con scambio di accuse pesanti. Da Parigi hanno definito “disumano” il rifiuto di Roma di fare approdare in un porto italiano, allungandone  il percorso, la nave che ieri ha potuto attraccare a Tolone. Hanno inoltre disposto per ritorsione, sempre a Parigi, un rafforzamento dei controlli  ai confini terrestri già vigilatissimi fra Italia e Francia, hanno revocato l’accoglienza promessa di 3500 migranti raccolti nei mesi scorsi dall’Italia ed hanno invitato i governi degli altri paesi dell’Unione a imitarli. Da Roma ha risposto personalmente la presidente del Consiglio definendo “sproporzionata” e “aggressiva” la reazione francese all’incidente, equivoco e quant’altro verificatosi fra lei e Macron nella gestione dell’affare Ocean Viking. 

L’incidente è consistito, in particolare, nel rappresentare come un successo italiano la disponibilità strappata dalla Meloni in persona a Macron a fare approdare in Francia la nave volontaria di soccorso di naufraghi nel Mediterraneo, mettendolo in difficoltà nei rapporti con le opposizioni interne e con gli altri paesi dell’Unione. 

“Meloni vittima dell’ansia dimostrativa”, ha titolato La Stampa in una felice sintesi del commento del professore Giovanni Orsina. Un’ansia dimostrativa provocata anche dalla concorrenza che si fanno la stessa Meloni e il leader della Lega Matteo Salvini, vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, nel contrasto all’immigrazione clandestina, o nella difesa dei confini che purtroppo per l’Italia sono più d’acqua che di terra, e perciò esposti ad una gestione, diciamo così, più complicata e rischiosa. Su cui peraltro speculano con rivoltante cinismo i cosiddetti scafisti, cioè i trafficanti di carne umana. Che, ben remunerati, fanno partire le loro vittime dalle coste africane su mezzi del tutto inadeguati, contando appunto sui soccorsi delle navi del volontariato. 

Non a torto, sotto questo aspetto, Giorgia Meloni ha accusato Macron, col suo tipo di reazione, di tendere all’”isolamento” più dell’Italia che degli scafisti. E se questa è stata la replica della presidente del Consiglio, ancora più dura è stata quella dei giornali che ne condividono la linea. “Ipocrisia all’Eliseo” ha titolato il Giornale di famiglia di Silvio Berlusconi. “Sono pazzi questi francesi”, ha gridato Libero. 

Più sofisticato, diciamo così, è stato un pur analogo titolo della Verità di Maurizio Belpietro con quel Macron che “fa il pazzo”, più di esserlo davvero. Se, come e quando sarà possibile comporre anche questa crisi con i cugini d’oltr’Alpe non si sa. A Mattarella e a Draghi, ragionevolmente immaginati in un’azione di ricucitura dietro le quinte, si è aggiunto il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che ha preannunciato al Messaggero un incontro con l’omologo francese. “Le liti, vere o costruite, avvengono più spesso proprio tra affini”, ha detto. Ed ha aggiunto, traducendo da un motto latino: “ l’ira degli amanti è l’integrazione dell’amore”. 

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Il lavoro, dietro le quinte, di Mattarella e Draghi per ricucire i rapporti con Parigi

Più ancora del ministro degli Esteri Antonio Tajani davanti alle quinte, al Consiglio europeo di lunedì con i suoi omologhi dei paesi dell’Unione, chissà quanto dovranno lavorare dietro le quinte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, suoi amici ormai anche personali, oltre che politici, per calmare Emmanuel Macron. E fargli abbassare quel braccio ad ombrello che gli ha attribuito sulla prima pagina del Corriere della Sera il vignettista Emilio Giannelli all’indirizzo dell’Italia, con la fraternitè della rivoluzione francese tradotta in fraterni…tiè!!!.

Più che “isterici”, come ha titolato la Verità di Maurizio Belpietro, o “vigliacchi”, secondo Libero di Alessandro Sallusti, o “bulli” secondo il Giornale, che ha usato anzi il singolare prendendosela solo o direttamente con Macron, i nostri cugini d’oltr’Alpe sono permalosi. Ed hanno reagito, magari esagerando un pò, ad una oggettiva imprudenza esibizionistica compiuta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal vice presidente Matteo Salvini cantando vittoria per il porto di Marsiglia, diventato poi il porto di Tolone, aperto alla nave del volontariato battente bandiera norvegese Oceanic Viking, carica di più di 230 migranti soccorsi in mare al largo delle coste africane e probabilmente destinati, nelle intenzioni dell’equipaggio, a qualche porto italiano. 

Un pò perché obiettivamente e giustamente  sorpreso dalla mancanza di tatto della Meloni e di Salvini, un pò perché scavalcato nel suo malumore dalle reazioni comunitarie di Bruxelles alla condotta italiana, un pò perché messo in difficoltà dall’opposizione della destra di casa, che in materia di sovranismo, chiamiamolo così, è concorrente della destra italiana, Macron ha rialzato con le parole e gli atteggiamenti “il muro delle Alpi” su cui ha titolato Avvenire. E si è persino prestato alla lettura personalistica di Repubblica con l’annuncio “Macron rompe con Meloni”.

Alla nave battente bandiera norvegese è stato ugualmente permesso di sbarcare i migranti in Francia, dopo una certa tentazione di dirottarla  di fatto verso qualche porto sardo. Ma in compenso sono stati rafforzati i già vessatori controlli del confine terrestre italo-francese, a Ventimiglia e dintorni, e annullata -o sospesa, si spera- la già programmata attribuzione al governo di Parigi di più di tremila migranti approdati nei mesi scorsi, o ancor prima, in Italia. 

Questa vicenda, oggettivamente incresciosa, è stata paragonata dal Foglio anche nella titolazione a quella dei “gilet gialli” anti-Macron che, per quanto avessero messo a ferro e a fuoco Parigi e altre parti del territorio francese, furono omaggiati come eroi, con tanto di visita, dall’allora vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, accompagnato o forse più al seguito dell’allora amico personale e collega di partito Alessandro Di Battista. Era in carica il primo governo di Giuseppe Conte. 

Al richiamo in patria, per protesta, dell’ambasciatore francese in Italia  il presidente Sergio Mattarella al Quirinale dovette sudare le proverbiali sette camicie per una ricucitura dei rapporti cui non bastava, a quel punto, l’allora presidente del Consiglio Conte. Che si trovava come, se non peggio delle condizioni attribuite oggi dal Fatto Quotidiano, suo estimatore nostalgico, a Giorgia Meloni. Che il vignettista Riccardo Mannelli ha rappresentato truce e romanesca come una “faccetta nera” borbottante mor “tacci tua”. Sono, per carità, i diritti della satira, o -da quelle parti- i doveri della lotta politica.

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Il Novecento raccontato da Ugo Intini per consolarsi della politica di oggi

Come gli è capitato di fare nel 2014 con una bella e orgogliosa storia del suo Avanti!,   intrecciandola in 754 pagine con quella dell’Italia della Monarchia e della prima Repubblica, praticamente ghigliottinata dalla magistratura a mani cosiddette pulite, così Ugo Intini -che nel quotidiano socialista ha percorso tutta intera la carriera giornalistica, da redattore a direttore- ha fatto con i suoi Testimoni di un secolo, ancora fresco di stampa, edito da Baldini+Castoldi. 

In 684 pagine scritte -come gli ha riconosciuto sul Sole-24 Ore Sabino Cassese- “in maniera avvincente, con verve e acume, grande attenzione per i particolari” ha ripercorso la storia del Novecento, non solo italiano, attraverso 48 protagonisti sistemati in una metaforica galleria di ritratti. Protagonisti -ha avvertito Cassese- “oltre a comprimari e l’autore del libro, auctor e agens”. 

Del Psi del garofano guidato da Bettino Craxi all’insegna dell’autonomia e del riformismo Intini non è stato solo un dirigente,  e portavoce del segretario, ma anche un ispiratore: per esempio, con il suo saggio, a quattro mani col compianto Enzo Bettiza, sulla compatibilità fra liberali e socialisti. Era il lib-lab. Dal centro-sinistra col trattino degli anni sessanta, che si diede come segno distintivo i liberali sostituti al governo dai socialisti, si passò negli anni Ottanta, con Craxi in persona a Palazzo Chigi, al centrosinistra senza trattino  -il famoso pentapartito-comprensivo dei liberali. Fu un’evoluzione pragmatica e ideologica al tempo stesso. 

Vi confesso che la prima cosa che sono andato a cercare nella galleria dei ritratti del mio amico Ugo è stata la parte relativa alla tragedia di Tangentopoli gestita giudiziariamente, mediaticamente e politicamente in modo che diventasse una tragedia soprattutto socialista, pur essendo arcinota la diffusione generale del finanziamento illegale dei partiti, all’ombra di una legge a dir poco ipocrita sul loro finanziamento pubblico. Che stanziava a questo scopo meno della metà di quanto si sapeva che essi costassero. 

Mi ha sorpreso, in verità, una certa comprensione di Intini verso Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale nel 1992, cioè all’alba già avanzata di Tangentopoli, grazie alla preferenza del Pds-ex Pci rispetto alla candidatura del laico Giovanni Spadolini, ma grazie anche, o ancor più, all’assenso dei socialisti. Che fu motivato -ha spiegato Intini- dalla fiducia che Scalfaro da ministro dell’Interno di Craxi si era guadagnato tirando fuori dagli archivi del Viminale e dintorni un documento che confermava la convinzione dei socialisti, a cominciare dallo stesso Intini, che il nostro comune amico Walter Tobagi, del Corriere della Sera, fosse stato assassinato da aspiranti brigatisi rossi il 28 maggio 1980 per negligenza anche degli apparati di sicurezza della Repubblica. Ai quali era stato segnalato in tempo il progetto quanto meno di rapirlo. 

Scalfaro che, consultando inusualmente nella crisi d’inizio della nuova legislatura anche il capo della Procura di Milano, rifiutò a Craxi il ritorno a Palazzo Chigi pur proposto dalla Dc di Arnaldo Forlani e dagli altri alleati, secondo Intini “ebbe certamente un ruolo nel salvare il salvabile” in quegli anni terribili. Anche se, “almeno sul piano economico -ha aggiunto Intini- il merito è andato al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi”, mandato da Scalfaro a Palazzo Chigi nel 1993. 

Ho storto il muso pensando a quanto quel rifiuto di Scalfaro di conferirgli l’incarico nel 1992 avesse indebolito Craxi nella caccia al “cinghialone”, come lo chiamava il magistrato simbolo dell’inchiesta Mani pulite: Antonio Di Pietro. Poi ho capito l’illusione procurata da Scalfaro a Intini con una difesa dei partiti espressa con queste parole “Demonizzarli, criminalizzarli è terribilmente pericoloso, poiché senza partiti non c’è democrazia”. “Credevamo che questo fosse un argomento decisivo”, ha scritto Intini al plurale. “Ma ci sbagliavamo di grosso”, ha aggiunto, “perché non sapevamo che sarebbero arrivati i grillini a teorizzare la democrazia diretta, a individuare i parlamentari come il vertice della casta e a imporre a titolo punitivo e simbolico il taglio”. No, Ugo, prima ancora dei tagli grillini al Parlamento abbiamo avuto in Italia la demonizzazione dei partiti temuta sì da Scalfaro ma da lui non contrastata, o non contrasta a sufficienza.

Pubblicato sul Dubbio

L’involontario soccorso russo al governo Meloni in difficoltà sul fronte dei migranti

E’ durata poco la schiarita che sul fronte dei migranti era stata avvertita a proprio vantaggio non solo da Giorgia Meloni ma persino dal manifesto, a sinistra, nella disponibilità annunciata da Parigi a fare sbarcare a Marsiglia i 234 soccorsi nel Mediterraneo dalla nave Ocean Viking, battente bandiera norvegese. Che ora   sembra in rotta non più verso il porto francese  ma verso le coste italiane, questa volta della Sardegna e non della Sicilia. Il sindaco di Porto Torres si è quasi già messo su una banchina ad aspettare. E ciò per un intervento di Bruxelles contro la linea del governo Meloni che ha in qualche modo scavalcato l’Eliseo, costringendolo ad una polemica con Roma che ha, fra l’altro, coperto il presidente Emmanuel Macron dagli attacchi della destra conterranea. 

Adesso è di nuovo “rotta di collisione”, com’è tornato a scrivere il manifesto. Collisione non solo e non tanto con Parigi ma -ripeto- con Bruxelles, dove il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani potrebbe vedersela fra qualche giorno con gli omologhi dei paesi aderenti all’Unione. E non sarà un confronto facile, visto che neppure sulle parole sono d’accordo il governo  di Roma e gli altri, l’uno parlando di “migranti” da distribuire fra i vari paesi comunitari e gli altri di “naufraghi” da accogliere comunque nel porto più sicuro e vicino alle acque in cui sono stati soccorsi. 

In obiettive difficoltà sul versante dei migranti -di cui è controverso anche il carattere emergenziale, date ormai la cronicità degli sbarchi sulle coste italiane e la loro consistenza inferiore ai migranti che raggiungono via terra gli altri paesi dell’Unione dalle loro terre povere o insanguinate dalle guerre, come da febbraio scorso anche l’Ucraina-  Gorgia Meloni e il suo governo ancora ai primi passi si stanno tuttavia rifacendo in qualche modo su un altro fronte. Che è proprio quello della guerra in Ucraina. Dove i fatti, pur nella loro indubbia drammaticità, a costo di tante vite umane, stanno confermando la convinzione atlantista che gli aiuti militari occidentali all’Ucraina non siano incompatibili ma complementari al perseguimento di una pace giusta, da negoziare non per darla vinta a Putin ma per salvare l’Ucraina invasa dalle sue truppe. 

“La grande ritirata russa”, ha titolato Repubblica riferendo di quella che è ormai è una fuga da Kerson: tanto vasta e precipitosa, coinvolgente quarantamila militari, da avere insospettito il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi generali. Che temono un’operazione finalizzata a fare abbassare la guardia all’Occidente, ridurne l’impegno e preparare una nuova, più cruenta offensiva, magari nel contesto anche di una situazione politica negli Stati Uniti più difficile per il presidente Joe Biden. Che però sembra uscito dalle elezioni di cosiddetto medio termine meno male delle previsioni dei suoi avversari. Il principale dei quali peraltro, l’ex presidente Donald Trump, sicuramente più comodo a Putin come interlocutore, non è per niente -con i suoi candidati- il beneficiario dei guadagni elettorali e parlamentari di questo appuntamento con le urne. 

“Russi in rotta, ucraini in festa”, ha titolato Libero in modo un pò riduttivo sul piano politico, omettendo o sottovalutando la festa di quanti in Italia- sicuramente più a Milano che a Roma nelle manifestazioni per la pace che si sono contrapposte sabato scorso- hanno sostenuto e sostengono con maggiore convinzione e coerenza  la causa del Paese aggredito da un Putin avvolto nel fantasma imperiale di Pietro il Grande, o dei più recenti Stalin e compagni. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Anche con i migranti si finisce come a “Scherzi a parte”

Al netto degli aspetti drammatici del problema dei migranti, anche di quelli che riescono a sopravvivere all’ignobile mercato che ne fanno i cosiddetti scafisti, sembra di stare ancora una volta a “Scherzi a parte” assistendo ai fatti delle ultime ore e alla rappresentazione offerta dai giornali con titoli opposti ma aventi tutti una qualche attinenza alla realtà. 

Per quanto sostenuto dal Papa in persona con parole chiare di comprensione e di sostegno pronunciate di fronte a quella che è stata definita persino una “selezione disumana” tra i “fragili” fatti scendere in un primo momento dalle navi e quelli lasciati a bordo, il governo di Giorgia Meloni ha dovuto “cedere” facendo sbarcare tutti. E’ il titolo del Giornale berlusconiano diretto da Augusto Minzolini, confezionato forse con una venatura compiaciuta, essendo agrodolci la partecipazione e il sostegno dei forzisti al “destra-centro” che è diventato il centrodestra guidato dalla leader della formazione dei fratelli d’Italia, succeduta al Movimento Sociale di Giorgio Almirante e all’Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini aumentandone di parecchio i voti. 

Se di “cedimento” ha parlato Il Giornale, a maggior ragione la Repubblica ha potuto titolare “la Ue piega il governo” e La Stampa “Meloni si arrende”. Un titolo quest’ultimo rafforzato in fondo alla prima pagina dalla rubrica del buon Mattia Feltri. Che ha così commentato la linea patriottica condotta, reclamata e quant’altro, in particolare, da Matteo Salvini anche dalla sua nuova postazione di ministro delle Infrastrutture, riuscito a salvare la competenza sulla Guardia Costiera: “Cari amici del governo, dovreste soprattutto difendere i confini fra la cattiveria e il ridicolo”. E “un altro confine” è appunto il titolo dell’urticante articolo. 

“Vittoria” ha invece titolato Libero riconoscendo a Giorgia Meloni il merito di avere strappato al presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, da lei già incontrato a Roma, la decisione di aprire il porto di Marsiglia ad una nave piena di migranti soccorsi in mare, che diversamente avrebbe forse puntato anch’essa sui porti italiani. Una nave dalla quale comunque Macron ha tenuto a precisare, con allusione polemica a Roma, che farà sbarcare tutti, senza la selezione dei “fragili” quanto meno tentata nel porto di Catania dall’ex capo di Gabinetto di Salvini al Viminale, ora ministro dell’Interno. 

Col volenteroso titolo di Libero a sostegno del governo Meloni coincide sorprendentemente, per la sua identità politica, il giudizio del manifesto. Che sotto il titolo di copertina “Porto franco” ha testualmente pubblicato, nel sommario: “Parigi rompe il fronte europeo e assegna Marsiglia come porto per la Ocean Viking. E’ la vittoria della linea dura di Meloni e Piantedosi che in serata fanno sbarcare gli ultimi migranti a Catania”, quasi come contropartita quindi di quanto strappato a Parigi. Chissà se Giorgia Meloni ha telefonato per ringraziare la direttrice del manifesto Norma Rangeri.

A mezza strada tra la sconfitta, la resa e quant’altro della Meloni e la vittoria sono collocabili con i loro annunci La Verità di Maurizio Belpietro e Avvenire dei vescovi italiani. “Parigi cede, il governo italiano pure” è, in particolare, il titolo della Verità. “Tutti giù per terra” è quello di Avvenire, mutuato da un vecchio gioco di bambini che ancora si pratica negli asili e dintorni. Dove evidentemente il giornale della Conferenza Episcopale ha mandato, almeno per oggi, i governanti d’Italia e, più in generale, d’Europa.

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Inascoltate, anzi tradite le parole di Papa Francesco sul problema dei migranti

Pazienza per Putin che, forte delle incoraggianti benedizioni di Cirillo, il “suo” Papa, se ne sbatte del Pontefice di Santa Romana Chiesa, Francesco, che gli chiede inutilmente di smetterla di radere al suolo l’Ucraina, ucciderne o deportarne la popolazione, decorare gli autori delle stragi e altre porcherie. Ma è a dir poco sconcertante che in Italia, diventata ormai anche la sua terra, da cui d’altronde proviene la propria famiglia, e la cui lingua egli predilige spesso anche all’estero, il Papa non riesca a spegnere il fuoco delle polemiche sulla “crisi disumanitaria” riesplosa sul fronte dei migranti, come l’ha chiamata su tutta la prima pagina Avvenire, il giornale dei nostri vescovi. O “l’inferno dei migranti”, come ha preferito titolare la laicissima Stampa evocandone diavoli e fiamme. 

Ciò di cui si è compiaciuto il Papa, il fatto cioè che il governo italiano, pur contestando la pretesa di navi battenti bandiere straniere di scaricare nei nostri porti tutti i naufraghi soccorsi in mare, abbia fatto scendere donne, bambini e malati, è stato bollato dalle opposizioni, ma sotto sotto anche da qualche frangia della maggioranza, come una strumentalizzazione dei “fragili”, una  odiosa “discriminazione”, una violazione di leggi internazionali, una disumanità, per ripetere il linguaggio di Avvenire.  

Dalla già citata Stampa di Torino al Riformista si sono levate grida di protesta per ciò di cui il Papa non si è per niente doluto: l’apprezzamento e il ringraziamento della presidente del Consiglio Giorgia Meloni per le parole di comprensione pronunciate da Francesco nei riguardi del governo e per l’appello rivolto agli altri paesi europei a non lasciare sola l’Italia a fronteggiare il problema comunitario dell’immigrazione. “La destra smetta di usare il Papa”, ha titolato di preciso la Stampa. “Il Papa meloniano?” si è chiesto con sfacciata forzatura il Riformista per rispondere: “E’ la bufala dell’anno”. 

Sul fronte degli oppositori o dei critici del governo c’è una specie di gara a chi protesta di più, o più convintamente. Luigi Manconi, per esempio, ha scritto per Repubblica una lettera aperta ad Enrico Letta per sfidarlo a fare “rinascere il Pd in quel porto” catanese dove si sta consumando il braccio di ferro fra le navi del volontariato battenti bandiere straniere e il governo italiano. Le une convinte -ripeto- che possano scaricare da noi tutti i migranti che trasportano e l’altro convinto che,  a dir poco, debbano essere coinvolti nell’obbligo dell’accoglienza anche i paesi sotto le cui bandiere  sono stati prestati i soccorsi in mare ai quali i cosiddetti scafisti, cioè i mercanti di carne umana, destinano le loro vittime facendole partire dalle coste africane su mezzi inadeguati. 

Non è bastato evidentemente a Manconi ciò che lo stesso Enrico Letta aveva scritto il giorno prima proprio su Repubblica in apertura del lungo percorso congressuale di un Pd deciso a “reagire subito a una destra che ha esordito nel peggiore dei modi, muovendosi su un terreno ideologico reazionario, nostalgico, passatista. Un disegno che mira a dividere il Paese e a condannare la nostra comunità nazionale a un preoccupante arretramento in termini di etica, diritti, civiltà”. 

“L’esempio più drammatico -aveva aggiunto il segretario piddino nella sua invettiva –  è quanto sta avvenendo in queste ore nel Mediterraneo, con il ritorno  da parte del governo Meloni a un utilizzo politico becero e barbaro dei drammi di donne, uomini, bambini inermi. Un fatto gravissimo al quale stiano reagendo e reagiremo con la massima determinazione”. Eppure Enrico Letta quando scriveva queste parole conosceva già quelle più misurate usate nei riguardi del governo italiano dal Papa parlandone con i giornalisti sull’aereo che lo riportava in Italia dalla visita in Bahrein.  

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