Una manovra dedicata dal ministro dell’Economia al compianto amico Roberto Maroni

Fra le particolarità della manovra adottata dal governo di Giorgia Meloni con la legge di bilancio, oltre ad essere la prima e molto probabilmente non ultima dell’esecutivo destra-centro, vi è anche quella di essere l’unica nella storia dedicata ad un morto. Lo ha fatto il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti ricordando l’amico e collega di partito Roberto Maroni appena scomparso prematuramente, già ministro nei governi di Silvio Berlusconi e presidente della regione Lombardia: “il barbaro gentile” nel felice titolo della Nazione e degli altri  giornali del gruppo Riffeser Monti. 

Potrebbe sembrare lì per lì una intestazione irriguardosa per il defunto, considerando ciò che le opposizioni gridano contro la manovra organizzando ciascuna, almeno sino a questo momento, una manifestazione di piazza. Pertanto il segretario del Pd Enrico Letta potrà risparmiarsi il 17 dicembre di partecipare a quella non ancora indetta da Giuseppe Conte, evitando così di ripetere lo spettacolo quanto meno imbarazzante della recente manifestazione a Roma per la pace. Dal cui corteo, diversamente da un Conte festeggiato , il segretario piddino dovette sfilarsi, o fuggire, per le contestazioni subite. Della manovra Meloni -o Maroni, come Giorgetti vorrebbe chiamarla, ridotto ridicolmente  da Emilio Giannelli nella vignetta del Corriere della Sera nei panni ristretti della premier- il meno che si sia gridato è quelle “Botte ai poveri e niente più” del Riformista di Piero Sansonetti.

“Relitto di cittadinanza”, ha tradotto il manifesto da delitto di cittadinanza com’era prima dell’intervento del governo, Che ai non “occupabili” lo ridurrà a otto mensilità nel 2023 per abolirlo nel 2024. “Abbiamo ripristinato la povertà”, ha fatto sarcasticamente gridare il vignettista del Foglio alla Meloni dal balcone di Palazzo Chigi per capovolgere la “sconfitta della povertà” annunciata sullo stesso balcone quattro anni fa dall’allora vice presidente leghista del Consiglio Luigi Di Maio celebrando l’istituzione appunto di quel reddito. Non immaginava, l’incauto, che ne avrebbe pagato personalmente le spese nel 2022 ricandidandosi alla Camera praticamente col Pd su posizioni rovesciate, dopo l’uscita dal MoVimento 5 Stelle, e venendo bocciato. Ora lavorerà -per sua fortuna, grazie ad un ombrello apertogli sulla testa dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi- come “inviato”dell’Unione Europea nel Golfo Persico: a remunerazione -credo- competitiva con quella conseguita alla fine della scorsa legislatura da deputato e ministro degli Esteri. 

Per tornare alla dedica della manovra al compianto Maroni da parte del ministro dell’Economia, l’iniziativa di Giorgetti si presta anche ad una lettura retroscenista tutta interna alla Lega. Dove Maroni, nonostante i suoi brillanti trascorsi politici sul Carroccio, era ormai stato ridotto nelle retrovie politiche dal suo successore alla guida del movimento, cioè Matteo Salvini. Che dalla manovra Meloni o Maroni, come preferite, esce alquanto ridimensionato per avere certamente ottenuto qualcosa ma avere ancor più dovuto rinunciare, piegato dai rifiuti di maggiori spese oppostigli dal collega di partito responsabile dei conti del governo. 

Ai margini della manovra e della conferenza stampa illustrativa va infine registrato un certo nervosismo cui si è abbandonata la premier riducendo al minimo le domande e accusando i giornalisti -spalleggiata poi dalla Verità di Maurizio Belpietro- di essere “mastini” con lei dopo essere stati “a cuccia con Draghi”. No, cara la nostra signora presidente del Consiglio. Queste uscite -“A chi girano i Meloni”, ha titolato Libero– non sono utili a chi si ripromette di rimanere a Palazzo Chigi per cinque anni. Sono difetti di comunicazione, diciamo così, da evitare. 

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La Meloni nella tenaglia fra il ricordo di Draghi e il fantasma di Andreotti

Per quanto Giorgia Meloni l’abbia definita su Telegram “importante e coraggiosa, con particolare attenzione ai redditi bassi e alle categorie in difficoltà”, in attesa che l’Italia “torni a crescere” e a permettere di più e meglio, solo due giornali, fra i maggiori, hanno annunciato in modo neutrale la manovra di 35 miliardi di euro approvata questa notte dal Consiglio dei Ministri con la legge di bilancio. Che una volta si chiamava “legge finanziaria”. Sono stati il quotidiano della Confindustria 24 Ore, titolando “La manovra 2023”, e il Corriere della Sera annunciando nel sommario, cioè nel sottotitolo, “la manovra del governo”: non una parola di più. 

La Repubblica ha avvertito puzza dell’andreottiano “tirare a campare”, che “il divo” Giulio preferiva comunque alla prospettiva di “tirare le cuoia”, come rispose una volta da Palazzo Chigi a Ciriaco De Mita che lo incalzava; La Repubblica, dicevo, ha trovato la manovra “piccola piccola”. 

La Stampa, dello stesso gruppo editoriale ma fisicamente più vicina alla casa e forse anche al cuore della proprietà costituita dagli eredi di Gianni Agnelli, è stata ancora più riduttiva con quella “manovrina”, dettata dalla “solita logica del catenaccio”. Che è poi quella alla quale aveva dovuto attenersi a Palazzo Chigi anche Mario Draghi respingendo le sollecitazioni a fare più debito. Che lui distingueva, e distingue ancora, fra buono e cattivo preferendo naturalmente il primo, più contenuto, al secondo. più pesante e dispendioso. 

“La vera manovra di Meloni è nascondere le retromarce” -rispetto alle tante promesse elettorali del centrodestra, o destra-centro, e sue personali-  ha titolato con impietosa franchezza Il Foglio.  Che è stato un pò fiancheggiato sul Secolo XIX dalla vignetta nella quale Stefano Rolli fa dire alla presidente del Consiglio, seguita da un imbavagliato Matteo Salvini: “Abbiamo le mani legate”. Anzi, legatissime. 

Una “manovra in difesa” l’ha pertanto definita il Giornale della famiglia Berlusconi. “La strada giusta” ha titolato meno scomodamente Libero con l’editoriale del direttore Alessandro Sallusti. 

Concorrente con “la mannaia” del manifesto e col giudizio negativo del Fatto Quotidiano è stato il giornale dei vescovi italiani, Avvenire, con quei “660mila poveri” che il governo avrebbe “scaricati”, riducendo per esempio a otto nel 2023 le mensilità del reddito di cittadinanza per gli abilitati al lavoro e proponendosi di toglierlo del tutto nel 2024 con una “disumanità” che Giuseppe Conte si è naturalmente affrettato a denunciare. Seguiranno manifestazioni di protesta alle quali il Pd, in attesa del “nuovo gruppo dirigente” reclamato dall’ex presidente del Consiglio per tornare ad allearvisi, è stato sfidato ad unirsi. 

Naturalmente la storia o vicenda della manovra, o legge di bilancio, non è finita questa notte con l’approvazione in Consiglio dei Ministri, dove Giorgia Meloni è stata inutilmente esortata dalla sua ministra del Lavoro a valutare di più i rischi di “tensione sociale”. Ora la stessa Meloni, per non parlare del ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, dovrà fare i conti col percorso parlamentare delle misure appena adottate. Un percorso che sarà tanto breve, dovendosi evitare entro la fine dell’anno il ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio, quanto a rischio di incidenti o, quanto meno, di imprevisti perché la maggioranza è pur sempre composita. E a Palazzo Madama, con tutti i senatori imbarcati nel governo come ministri e sottosegretari, i margini sono, come al solito, dannatamente stretti. 

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Bonaccini è davvero partito. E Conte non ha gradito per niente

Dalle parti di Giuseppe Conte, la cui leadership viene oggi definita dal Foglio “pericolosa ma di successo”, non risulta gradita la candidatura alla segreteria del Pd appena annunciata, o confermata, dal presidente della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Che l’ha lanciata nel circolo del partito al quale è iscritto, nel Modenese, e poi nella trasmissione televisiva di Lucia Annunziata, su Rai3. 

“Bonaccini è un altro Letta: non sceglie fra Conte e Calenda”, ha protestato, in apertura di prima pagina, Il Fatto Quotidiano notoriamente adorante dell’ex presidente del Consiglio. Che aspira a guidare lui la sinistra dall’alto delle  cinque stelle grilline, pur volando queste ormai molto al di sotto della quota delle elezioni politiche del 2018, avendo dimezzato i voti nelle urne del 25 settembre scorso e ancor più ridotto la rappresentanza parlamentare. Le Camere si sono  d’altronde ristrette di loro con la riforma costituzionale imposta nella scorsa legislatura proprio da Conte agli alleati di turno al governo: prima i leghisti di Matteo Salvini e poi il Pd dell’allora Nicola Zingaretti.  

All’interno, non bastando la mancata scelta fra Conte e Calenda rimproveratagli in prima pagina, il giornale parastellare ha praticamente liquidato Bonaccini come un “rottamatore” di scuola renziana, sostenuto non a caso nella sua corsa alla segreteria dai post-renziani rimasti nel Pd e guidati dall’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Dello stesso Renzi, d’altronde, Bonaccini fu il principale collaboratore e sostenitore, come coordinatore, nella scalata vincente del 2013 al Nazareno, la sede del partito, e al vicino Palazzo Chigi. 

Conte evidentemente non vuole rottamatori nel Pd che pensa di svuotare o di mettere poi al guinzaglio, come un cane neppure tanto di razza, visto l’incrocio “mal riuscito”, secondo Massimo D’Alema, fra i resti di quello che era stato il Pci e di quella che era stata la sinistra democristiana. Conte ha posto -coerentemente e prudentemente, dal suo punto di vista- come condizione per riprendere i rapporti interrottisi con la caduta del governo di Mario Draghi un “cambio di gruppo dirigente”.  E ciò all’interno -si deve presumere- della nomenklatura ormai consolidata al Nazareno alternando o sovrapponendo, secondo i casi, i  tradizionali accordi fra le correnti. Delle quali  invece Bonaccini, che non ha mai attivamente partecipato ad alcuna di esse, neppure a quella di Renzi che si guardò bene dal seguire nella scissione del 2019, ne ha piene, anzi pienissime le scatole. Egli ne ha appena bollato i capi -tutti, indistintamente- come pavidi, a dir poco, avendo preferito partecipare anche alle elezioni di settembre nei blindatissimi “listini” bloccati, non nei collegi uninominali dove si rischiava di più la bocciatura. 

A un Bonaccini così deciso a spazzare a casa sua e a non far liquidare il partito dai concorrenti esterni, peraltro offrendo onestamente ad amici e compagni la prospettiva di una “traversata nel deserto”, all’opposizione dopo tanta indigestione di governo all’interno o alla guida di varie maggioranze; a un Bonaccini, dicevo, così deciso sarebbe in fondo naturale da parte di Conte l’interlocuzione con un segretario del Pd scelto nel mazzo dei capicorrente come Dario Franceschini o Andrea Orlando. Dai quali il presidente della regione Emilia Romagna realisticamente non si aspetta un grande, o alcun aiuto, facendo più affidamento -ha detto- sui sindaci e sui segretari di circolo o, più generalmente, sui dirigenti periferici, a maggiore contatto dei vertici con la base e gli elettori. 

Una traversata nel deserto non è naturalmente una passeggiata, a meno che il deserto non sia finto. Però, senza volere enfatizzare niente, se ieri Bonaccini poteva contare su un sondaggio di Alessandra Ghisleri che gli attribuiva il 25 per cento delle intenzioni di voto, cioè una su quattro, oggi Ilvo Diamanti su Repubblica gliene attribuisce già una su tre.

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Abbreviata di un mese la imprevedibile corsa alla segreteria del Pd

La candidatura di Stefano Bonaccini a segretario del Pd in vista delle primarie, appena anticipate da marzo al 19 febbraio, è stata tante volte preannunciata ormai che la notizia sarebbe oggi solo quella della smentita dal luogo nativo in cui dovrebbe concretizzarsi: Campogalliano, vicino Modena. 

Se eletto davvero, l’attuale presidente della regione Emilia Romagna sarebbe il secondo strappo nella storia dei comunisti e post-comunisti italiani alla regola di non affidarsi a livello nazionale ad un emiliano fattosi le ossa come amministratore nella sua terra, perché sospettabile di imborghesimento. O comunque di indulgenza per una società opulenta e allegra: l’opposto di quella alla quale per generazioni erano stati abituati a pensare emuli e sognatori della rivoluzione bolscevica del 1917. 

Il primo strappo a quella specie di regola fu compiuto con Pier Luigi Bersani, ma a Pci ormai sciolto, travolto anch’esso dal crollo del muro di Berlino, messosi per un pò con i suoi simboli all’ombra di una quercia e alla fine accoppiatosi nel Pd con i resti della sinistra democristiana e cespugli vari.

Il buon Bersani è stato ed è, per carità, una persona simpaticissima. Mi sono sempre chiesto, da quando lo conobbi cenando una sera a Sain Vincent col comune amico Carlo Donat-Cattin, che cosa avesse del vero comunista col suo costante, indefettibile buon umore. Le sue metafore hanno fatto letteratura in politica: dal giaguaro di Arcore da smacchiare alle bambole da pettinare e, infine, alla destra travestita da mucca ormai accasatasi nella sede nazionale del Pd, al Nazareno, vagando fra corridoi e stanze, a cominciare da quella del segretario. 

Purtroppo toccò proprio a Bersani perdere nel 2013 -o non vincere, come lui preferì dire- il primo confronto elettorale col movimento grillino che ora, meno di dieci anni dopo, contende al Pd la guida della sinistra, sorpassandolo ogni tanto nei sondaggi. Nove anni fa, nella sua bonomìa e ostinazione, anche a costo di spazientire l’ex compagno di partito Giorgio Napolitano al Quirinale, Bersani volle tentare di allestire con l’appoggio o l’astensione dei grillini un governo che lui stesso definì “di minoranza e combattimento”. Fu solo deriso da quella specie di marziani appena sbarcati a Montecitorio, che volevano addirittura già condizionare la scelta del successore di Napolitano alla Presidenza della Repubblica. Non fu la fine della legislatura appena avviata, come si poteva persino auspicare dai virtuosi della democrazia, ma quella della segreteria Bersani al Nazareno sì. 

Molta acqua, certo, è passata da allora sotto i ponti. E’ caduto persino il soffitto di cristallo del monopolio maschile della guida del governo anche dalle nostre parti. Abbiamo una donna  a Palazzo Chigi, e per giunta di destra destra, protestano a sinistra, ma forse anche ad Arcore e dintorni. Eppure Bonaccini, se gli riuscisse la scalata alla segreteria, avrebbe più gatte da pelare in casa che fuori. 

L’ultimo sondaggio effettuato sulla corsa al Nazareno è quello di Alessandra Ghisleri pochi giorni fa, che attribuisce a Bonaccini un non proprio esaltante 25,9 per cento di preferenze fra i potenziali o volontari elettori. Lo segue, col 21,4 per cento, la sua giovane ex vice alla regione e deputata Elly Schlein. Che, a dire il vero, e senza volerla offendere, ma persino con una certa simpatia, sembra più adatta allo stato confusionale in cui si trova il Pd con i suoi tre passaporti -svizzero, americano e italiano- e l’allegramente ammessa bisessualità. Chi più di lei, peraltro neppure iscritta al partito, o non ancora, potrebbe davvero rivoltarlo come un calzino e riproporlo alle elezioni in chissà quale modo? 

Seguono, distanziati di moltissimo, e anche a dispetto di alcune indisponibilità dichiarate a correre, Vincenzo De Luca col 5,9 per cento, Francesco Boccia col 4,5, Paola De Micheli  col 3,3, Dario Nardella col 2,5, Peppe Provenzano coll’1,5 e Marco Ricci con lo 0,8 per cento. Auguri a tutti. 

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Perfino Goffredo Bettini comincia a sbottare contro Giuseppe Conte

Persino Goffredo Bettini, l’uomo che ha sussurrato un pò a tutti i cavalli della sinistra, persino al bizzarrissimo Matteo Renzi, adottando alla fine un esterno, davvero estraneo ad ogni tradizione di quel campo come Giuseppe Conte, sta riconoscendo che ora il presidente del MoVimento 5 Stelle esagera nell’avversione al Pd. “La mia autonomia politica nei confronti di Conte è forte. E’ totale”, ha appena detto al Foglio prima di partecipare all’odierna assemblea nazionale del suo partito, dove potrebbe essere ridotto di qualche settimana, almeno, il lungo percorso congressuale per sostituire Enrico Letta alla segreteria con qualcuno dei candidati già emersi o con altri a sorpresa. 

“La cordialità umana resta”, ha detto Bettini parlando sempre del rapporto con l’ex presidente grillino del Consiglio, ma…..”Politicamente, e penso alla decisione di correre in solitaria nel Lazio, Conte -ha spiegato Bettini- potrà dare qualche soddisfazione al suo partito ma finirà per rafforzare il governo di centrodestra”, facendo conquistare dalla coalizione guidata adesso a livello nazionale da Giorgia Meloni anche la regione Lazio del governatore uscente Nicola Zingaretti: quello che prendendo molto sul serio lo stesso Bettini aveva definito l’anno scorso Conte “il punto di riferimento più alto dei progressisti”. Ora invece la sua è “una strategia inutilizzabile” a giudizio anche dell’uomo del Pd orgoglioso -ha detto sempre al Foglio- della sua “durata”, per quanto alcuni vogliano che “taccia”. “Io sono ancora qui. Io resto”, ha aggiunto assicurando anche che il suo “desiderio di pensare la politica sarà insopprimibile”. Non credo, a questo punto, saltando nel partito di Conte per aiutarlo a sorpassare davvero il Pd, come ogni tanto avviene in qualche sondaggio fra gli applausi del Fatto Quotidiano. 

L’ultimo sondaggio, in ordine di tempo, è quello appena sfornato da Alessandra Ghisleri, che ne riferisce oggi personalmente sulla Stampa attribuendo al Pd il 17,4 per cento delle intenzioni di voto, con l’aumento di quasi un punto rispetto ad una quindicina di giorni fa, e al partito di Conte il 16,5: mezzo punto in meno dell’altra volta. Giorgia Meloni e i suoi fratelli d’Italia sono invece ancora sopra di circa due punti ai risultati elettorali del 25 settembre col 28,5, La Lega di Matteo Salvini al 10,2, con poco più di un punto sopra, e Forza Italia di Silvio Berlusconi distanziata ancora di più col 6,1: quasi due punti e mezzo dietro anche al cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. 

Per tornare al Pd e alle sue pene si è fatto sentire anche il segretario uscente per rispondere alla scrittrice Michela Murgia, che ieri sulla Stampa aveva scritto della “scomparsa” ormai del patito del Nazareno e lo aveva sfidato a dire finalmente “qualcosa di sinistra”, senza farsi scavalcare dagli intellettuali come lei. Enrico Letta si è difeso, sullo stesso giornale, rivendicando il merito di avere avviato col congresso “la rigenerazione di un partito che accetta, unica forza politica tra quelle uscite sconfitte dal voto, di mettersi in discussione per capire che cos’è che non ha funzionato e cambiare”.

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Leone rimosso e Cossiga promosso dopo la tragica fine di Moro

Premetto di essere stato amico di Francesco Cossiga prima, durante e dopo  il suo settennato al Quirinale. E di essere stato testimone delle sofferenze procurategli dalla tragica fine di Aldo Moro. Che causò le sue dimissioni da ministro dell’Interno, predisposte in verità anche nel caso in cui l’allora presidente della Dc fosse sopravvissuto alla prigionia nelle mani dei brigatisti rossi. Cossiga si sentiva comunque responsabile “oggettivamente” -diceva- di quell’attacco riuscito del terrorismo allo Stato. A volte sognava di essere stato lui a sparare all’amico.

Una mattina mi trovai in drammatica difficoltà a contenere il  pianto di Francesco al Quirinale, scoppiato all’improvviso mentre evocavamo insieme i giorni della detenzione di Moro nella “prigione del popolo”. Così i brigatisti nella fanatica visione che avevano della loro missione di sangue chiamavano il covo dove avevano nascosto e “processato” l’ostaggio per condannarlo a morte. 

Non sapevo se e a chi rivolgermi per fermare quel pianto, senza riuscire peraltro a capire bene  il senso delle parole che Cossiga pronunciava fra i singhiozzi commentando, in particolare, le tensioni vissute con la famiglia Moro, in particolare la moglie. 

Ha forse ragione, per carità, Luca Telese -anche come familiare del compianto segretario del Pci Enrico Berlinguer- ad avere visto su TPI nell’Eterno notte di Marco Bellocchio appena trasmesso dalla Rai un eccesso di “revisionismo”. Da cui Moro sembra risultare “vittima” non del “piombo dei brigatisti”, che uccisero anche lui 55 giorni dopo averne sterminato la scorta per strada, ma del “feroce regime democristiano-comunista-atlantico”. Che lo voleva morto ancor più dei terroristi casualmente o deliberatamente complici, anzi esecutori di un complotto politico internazionale ordito contro il tessitore in Italia di una linea politica che disturbava un mondo esteso dagli Urali agli Stati Uniti, oltre Atlantico. 

Ma anche Telese deve rendersi conto che quella tragedia si consumò fra troppi misteri rimasti ancora tali dopo tanti anni anche per la irriducibile indisponibilità dei terroristi via via catturati, processati, condannati e tornati in libertà a raccontare fino in fondo la verità. Cioè a rivelare le complicità di cui ebbero oggettivo bisogno negli apparati di sicurezza per compiere la loro impresa di una potenza molto meno geometrica di quella descritta quasi con ammirazione da certi spettatori politici che se non avevano simpatia per i terroristi, poco ci mancava. 

Ci fu qualcosa, al di là degli stessi fatti indagati dalla magistratura -dalla famosa seduta spiritica riferita da Romano Prodi, per esempio, alle voci sul covo brigatista individuato ma non assaltato, o di quell’altro covo inutilmente segnalato, scoperto alla fine per una perdita d’acqua e risultato la centrale dell’operazione del sequestro- che lasciò sulla tragedia Moro l’impressione torbida di un complotto non internazionale ma tutto interno. E anche di una volontà per niente forte di chiarire in sede giudiziaria e/o politica le responsabilità a tutti, veramente tutti i livelli, senza riguardi per niente e per nessuno. 

Si preferì decapitare politicamente il presidente della Repubblica Giovanni Leone, con pretesti non so se più risibili o vomitevoli, solo per avere lui tentato di graziare una detenuta compresa nell’elenco dei “prigionieri” da scambiare con Moro. E non si ebbe un solo istante di esitazione, di dubbio, di scrupolo a far salire al Quirinale, dopo i sette anni di Sandro Pertini succeduto al dimissionario Leone, proprio l’ex ministro dell’Interno che si era assunto con le dimissioni la responsabilità “oggettiva” del sequestro di Moro e della sua fine. Ma già prima  del Quirinale Cossiga aveva potuto insediarsi a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio e a Palazzo Giustiniani come presidente del Senato. 

Vi confesso di essermi sentito profondamente a disagio, a dir poco, nelle sequenze finali di Esterno notte a vedere, dopo le sequenze della prigione, del cadavere di Moro, dei funerali pubblici e privati, il Cossiga autentico, in immagini riprese dal vivo, non quello recitato nel “megametraggio”, come lo ha definito Telese, giurare davanti al Parlamento in seduta congiunta insediandosi alla Presidenza della Repubblica. Sono immeritevole, a posteriori, della sua amicizia? O sono, più semplicemente, un giornalista sconcertato della sua stessa incapacità, in fondo, di avvertire subito l’anomalia, se non l’enormità, di quella scelta? Che fu fatta insieme da Cossiga, accettando, dai suoi colleghi eleggendolo e dagli amici condividendola, compreso l sottoscritto, senza immaginare le distanze che potevano aumentare fra Palazzo e popolo, il cosiddetto estabilishment e la gente comune. 

Pubblicato sul Dubbio

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Beppe Grillo promette di essere il peggiore, chissà se solo in teatro

In una maglietta nera da non confondere, per favore, per una camicia di uguale colore fra  quelle evocate durante tutta la campagna elettorale dall’antifascismo militante, che scambiava per una riedizione della marcia su Roma di 100 anni fa la scalata di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, Beppe Grillo ha annunciato sul suo blog in terza persona il ritorno in teatro a febbraio. L’esordio sarà il 15 di quel mese a Orvieto, da dove il comico genovese, e ancora garante del MoVimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte, arriverà a Roma il 27 marzo attraverso Bologna, Napoli, Milano, Firenze e Sanremo. Ma il programma non è ancora completo.

Il nome dello spettacolo comico del super comico – “il più spiazzante, caustico e odiato di tutti i tempi”, si è autodefinito Grillo- può apparire un pò a doppio senso a chi apprezza magari l’artista, lasciandosene divertire, ma non il politico. “Io sono il peggiore”, dice il titolo del nuovo spettacolo che l’autore promette pieno di “rivelazioni”, dove “tutti sono coinvolti e nessuno è escluso”. Esso spazierà “dalla religione alle silenziose guerre economiche, passando per il metaverso, fino al lato oscuro dell’ambientalismo”. Speriamo che a febbraio sarà finita la guerra in Ucraina e Grillo potrà quindi risparmiarsi di interferirvi con i suoi missili verbali, o di sovrapporsi al pacifismo di Conte: il professore che egli aveva sottovalutato, strapazzandolo non più tardi dell’anno scorso come un incapace, o quasi. Ora, da garante Grillo ne è diventato quasi un dipendente, con quel contratto di consulenza, o simili, che ha negoziato fra telefonate e missioni a Roma. 

Quel diavolo di avvocato pugliese, pur a voti dimezzati rispetto alle elezioni del 2018, rischia di riuscire dove Grillo fallì personalmente e miseramente nel 2009, quando iscrivendosi d’estate alla  sezione di Arzachena, in Sardegna, tentò l’opa sul Pd anche allora -come oggi- appena messo sui binari di un congresso per le dimissioni di Walter Veltroni da segretario. Il turno adesso è di Enrico Letta, di cui Conte ha reclamato e già ottenuto la testa, visto che l’interessato si è dimesso, per tornare ad allearsi col Pd o assorbire quel che potrebbe restarne dopo l’ennesima scissione. Che spettacolo, signori, e senza neppure pagare il  biglietto, come dovranno invece fare gli estimatori di Grillo per andare a vederlo e sentirlo al teatro.

Per stare al nome del nuovo spettacolo del comico, fra le cose “peggiori” del grillismo politico ne abbiamo appreso proprio oggi una riferita sul Corriere della Sera da Francesco Verderami. Che ha scoperto e diffuso ciò che a luglio, quattro mesi fa, distratti dalla crisi del governo Draghi fortemente voluta da Conte insieme con le elezioni anticipate, era sfuggito a tutti. 

Alla Camera, notoriamente presieduta dal grillino Roberto Fico, che ora da ex la domina, diciamo così, dal suo ufficio mozzafiato ricavato nell’altana del palazzo di Montecitorio, si varò una “previsione pluriennale” di spesa invariata sino al 2024 anche per il finanziamento dei gruppi, pur essendo stati tagliati i seggi di un terzo con la riforma tanto voluta dai pentastellati per risparmiare. Così a parità di onere ma non di seggi, scesi in particolare da 630 a 400, i gruppi otterranno per ogni deputato non più 40 mila ma 77 mila euro l’anno, per un totale di quasi 31 milioni di euro. Bazzecole, direte, ma la questione non è tanto di quantità quanto di qualità. 

E’ un pò come se i gruppi avessero giocato al lotto e vinto. E i partiti avessero perduto voti e guadagnato più soldi.  Così, fra l’altro, mettendoli a carico dei gruppi parlamentari come collaboratori, Conte ha potuto procurare qualcosa come 70 mila euro l’anno, o circa tremila euro netti al mese, ad  amici di partito che, avendo già maturato due mandati parlamentari, non hanno potuto neppure tentare il terzo candidandosi. E non hanno al momento altro mercato a cui proporsi alle stesse condizioni. “Io sono il peggiore”, dice  – e ripeto- l’insospettabile spettacolo di Grillo.  

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Il Pd “dei baroni” e della “borghesia” a scuola serale da Carlo De Benedetti

Non è la prima volta che Carlo De Benedetti si esprime negativamente sul Pd di cui pure rivendicò la tessera d’iscrizione numero 1 sentendosi a casa sua col fondatore e primo segretario Walter Veltroni. Di cui condivideva appieno la vocazione cosiddetta maggioritaria, che avrebbe dovuto liberarlo di tanti alleati minori e fastidiosi, già costati la vita al primo governo di Romano Prodi, e ne avrebbero di lì a poco demolito anche il secondo.  

Peccato che, oltre a non prevedere, o addirittura a volere -come qualcuno lo accusò- anche la seconda decapitazione di Prodi, l’ancor fresco primo segretario del Pd derogò  subito alla vocazione maggioritaria apparentandosi elettoralmente con Antonio Di Pietro. Che non gli portò molta fortuna, facendogli peraltro lo scherzo di rimettersi subito in proprio con gruppi parlamentari autonomi, nella presunzione -disse, ahimè ascoltato- di marciare divisi per meglio colpire uniti. Sono finiti come sono finiti l’uno e l’altro: l’uno, Veltroni, avendo tuttavia il paracadute della cultura che gli ha permesso di produrre film, libri, editoriali del Corriere della Sera di tutto rispetto, l’altro dividendosi fra uno studio legale di cui ho letto e sentito parlare assai poco, meno comunque di quanto mi fossi aspettato, e le sue raccolte d’olive, nella mitica Montenero di Bisaccia. Che hanno fatto da sfondo a tante rievocazioni giornalistiche delle sue ormai lontane gesta di magistrato. 

Accusato all’inizio di una lunga intervista ad Aldo Cazzullo con cui ha voluto  tornare al capezzale del grande ammalato, di avere “conquistato la borghesia”, a cominciare da lui che spero non si offenda a sentirsi definire borghese, e di avere “perso il popolo”, il Pd è stato rappresentato dall’editore di Repubblica e ora di Domani  come “un partito di baroni imbullonati da dieci anni al governo senza aver mai vinto un’elezione”. E “la segreteria Letta” ancora in carica per il disbrigo degli affari congressuali “un disastro”. E il Pd, ancora lui, modellato a sua immagine e somiglianza dall’ex presidente del Consiglio ritiratosi per un pò a Parigi per dimenticare Matteo Renzi che lo aveva sgarbatamente rimosso da Palazzo Chigi, “arrogante”, “supponente” e responsabile, con la sua corsa solitaria nell’ultima campagna elettorale, della “vittoria della destra”. 

In verità, qualche compagno o amico di strada Enrico Letta l’ha cercato e voluto riuscendoli pure a trattenere, diversamente da Carlo Calenda e Matteo Renzi ritrovati solo per pochi giorni. Il segretario del Pd li ha perduti preferendo a loro la minuscola sinistra di Nicola Fratoianni e l’altrettanto minuscolo verde Angelo Bonelli. Ma De Benedetti forse non se n’è accorto, come anche di Emma Bonino e di Benedetto Della Vedova incollati al  + di Europa, non non del loro elettorato. 

Neppure la scelta preferenziale di Mario Draghi non dico come alleato, perché  non era nella partita elettorale, ma come una persona abbastanza competente e autorevole sul piano internazionale per vantarsi di sostenerlo, è stata giusta secondo De Benedetti. E’ stato -ha detto al Corriere della Sera– come “guardare al passato”, anziché al “futuro” di cui hanno “bisogno” gli italiani. E così l’ingegnere ha sistemato anche l’ex presidente della Banca Centrale Europea.  Volete mettere la capacità divinatoria e accattivante di Giuseppe Conte da Volturara Appula? Le 5 Stelle sì erano la scelta giusta, rifiutata per la già citata arroganza e, in più, per “stupidaggine”. 

Forte di tutto questo armamentario polemico e accademico, in senso professorale, di scuola politica a cominciare dall’abc, De Benedetti ha concesso qualche consiglio salvifico per almeno il futuro immediato.  E’ quello per esempio, di lavorare subito per far “cadere Matteo Salvini” sposando la candidatura di Letizia Moratti alla presidenza della Lombardia, e con lui l’intero governo “disastroso”, “obbrobrioso” e quant’altro che porta il nome di Giorgia Meloni. La quale avrà pure incantato, con o senza la sua figliola Ginevra, qualcuno al G20 di Bali, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti tanto ammirati, anzi amati da De Benedetti, ma rimane una sprovveduta, a dir poco, che  aveva scambiato Emmanuel Macron per uno che “deve governare l’immigrazione nel Mediterraneo” e non la Francia, dove “ha una forte opposizione di destra, con Le Pen e Zemmour”. 

Con questo pò pò di avversari in patria, anzi in Patria con la maiuscola, “era chiaro -ha  mandato a dire De Benedetti del presidente francese alla premier italiana e ai suoi ministri- che gli sarebbero saltati al collo con una nave che era al largo delle coste italiane. Eppure l’ha fatto. E il governo italiano ha dimostrato un’ignoranza politica tremenda. Ha perso un alleato, con un errore che un bambino delle elementari avrebbe evitato”. Torniamo insomma all’abc. “Una figura da cioccolatai”, ha detto ancora l’ingegnere senza spiegarci che cosa mai gli abbiano fatto in fondo i cioccolatai. 

Mah, vedremo se De Benedetti accorderà ai “baroni” del Nazareno anche qualche supplemento serale di lezione su come uscire dalla crisi in cui si sono cacciati. Certo, di solito ai partiti non piace farsi dare lezioni da fuori. Se ne accorse a suo tempo addirittura Eugenio Scalfari, d’accordo con l’allora amico ed editore De Benedetti, consigliando al Pds-ex Pci di votare Giovanni Spadolini al Quirinale piuttosto che Oscar Luigi Scalfaro. Quelli, i post-comunisti, fecero il contrario. Era il 1992. E da lì ne nacquero di cose. 

Pubblicato sul Dubbio

I delusi del successo di Giorgia Meloni al G20 in Indonesia

Giorgia Meloni ha cantato “successo”, credo non a torto, a conclusione del G20 di Bali che l’ha fatta esordire a livello mondiale, caricandola anche della simpatia guadagnatasi come mamma portando con sé la figlioletta Ginevra. E mettendo a tacere le immancabili critiche in Italia, dove l’animosità politica prevale solitamente su tutto,  col monito sacrosanto che la gestione della sua bambina è affare personalissimo. 

Le richieste di incontri bilaterali che la premier ha ricevuto in terra indonesiana sono state tante che per soddisfare quella del presidente cinese ha dovuto rinviare la partenza. E nel vederlo in foto a tu per tu con lei, veniva voglia di scambiare Xi per un Guido Crosetto rosso: l’attuale ministro italiano della Difesa che alla fondazione dei fratelli d’Italia sollevò la Meloni fra le sue braccia come King Kong nei famosissimi film. 

L’unico praticamente a rimanere sulle sue, almeno fra quelli su cui si aveva una certa curiosità a sapere di più, è stato il presidente francese Emmanuel Macron. Che al tavolo dell’incontro fra i leader occidentali si è risparmiato di vedersela trovata accanto, separata dal cancelliere tedesco Scholz. 

Se ne sarà dispiaciuto a distanza -credo, anzi spero- il buon presidente della Repubblica Sergio Mattarella vedendo le immagini da Roma, con tutto il gran da fare in cui si è speso personalmente al telefono per chiudere l’incidente fra i governi italiano e francese sulla vicenda della nave Oceanic Viking. Che per una volta ha potuto sbarcare i suoi migranti soccorsi nel Mediterraneo in un porto francese anziché nel solito scalo italiano preferito dalle organizzazioni volontarie battenti le bandiere più diverse. A questo punto, francamente, cioè al punto in cui Macron ha voluto fare arrivare e mantenere la tensione, diventa francamente difficile dire se è più disumano il trattamento italiano dei migranti per mare o quello francese dei migranti per terra, particolarmente lungo i confini fra i nostri due Paesi. 

Sul perdurante “gelo con Macron” hanno preferito titolare la Repubblica e la Stampa, come per darne la colpa, o comunque il demerito, alla premier italiana, forse troppo giovane o inesperta per essere presa sul serio dal presidente francese per più di quell’incontro galeotto a Roma su una terrazza del Gianicolo. Che avvenne -per quanto mi risulta- soprattutto per i buoni uffici dell’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, considerato  da Macron all’altezza della sua amicizia e della sua considerazione. 

Un pò troppa puzza sotto il naso nei riguardi della Meloni al G20, figlia o non figlia al seguito, ha mostrato di averla in Italia sul Riformista anche Claudia Fusani. Che, confermando il cliché delle donne che diffidano di loro più degli uomini, o le femmine dei maschi, ha scritto abbastanza velenosamente in prima pagina: “Giorgia Meloni dimentica per qualche giorno i problemi con la Francia e si atteggia a grande statista internazionale al G20 di Bali. “Un successo” ha detto. Ma la sua presenza conta poco, una gregaria”. Carinerie di genere, diciamo. 

Da Bali comunque la premier italiana è potuta partire anche col sollievo di avere toccato con mano, per quel poco che è durata la presenza del ministro degli Esteri russo al summit mondiale, lo scarso favore per Putin e la sua guerra all’Ucraina, che gli aggrediti stanno fronteggiando con gli aiuti militari pure dell’Italia. Peraltro la gestione dell’incidente occorso in Polonia con “pezzi di missili” caduti a poca distanza dalla frontiera con l’Ucraina bombardata dai russi ha dimostrato che gli americani -contrariamente a quanto scrivono e dicono i putiniani d’Italia- non muoiono per niente dalla voglia di cavalcare quel conflitto. Che avrebbero addirittura provocato per inguaiare sia Putin sia l’Europa. Le cose non stanno per niente così dietrologicamente. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

I paterni consigli di Joe Biden a Giorgia Meloni nel G20 di Bali

Grande deve essere stata l’emozione di Giorgia Meloni a Bali partecipando al G20: certamente superiore a quella pur forte e dichiarata il 22 ottobre scorso a Mario Draghi che l’aspettava in cima allo scalone di Palazzo Chigi per le consegne. Superiore anche all’incontro un pò furtivo col presidente francese Emmanuel Macron su una terrazza al Gianicolo, non immaginando né l’uno né l’altra che avrebbero poi avuto uno scontro a dir poco imbarazzante sulla questione dei migranti. Superiore anche alla missione in Egitto per la conferenza dell’Onu sul clima, che le ha consentito il primo approccio col presidente al Sisi che ha un pò di incresciosi problemi aperti con l’Italia per l’abitudine che hanno, da quelle parti, di ammazzare italiani senza volerne dare  conto, o di trattenere in carcere troppo a lungo studenti attesi all’Università di Bologna per completare gli studi. Il plurale è un pò una forzatura, lo ammetto, ma serve a dare l’idea di quanto quella terra sia diventata pericolosa per noi, nonostante i tanti buoni affari fra i due paesi: petrolio, ma anche armi.   

A Bali la presidente del Consiglio ha potuto, fra l’altro, incontrare per un’ora abbondante il presidente americano Joe Biden reduce da elezioni di medio termine che gli hanno consentito di affrontare fiduciosamente la seconda parte del mandato alla Casa Bianca. Dalle corrispondenze del Corriere della Sera abbiamo appreso della consolante assicurazione di Biden di aiuti all’Italia per gli approvvigionamenti di gas, per quanto non proprio a buon mercato, dicono e scrivono i critici dei buoni rapporti con gli Stati Uniti, di cui saremmo più spremuti che protetti. Dalle corrispondenze di Repubblica abbiamo invece appreso di un  quasi paterno invito di  Biden alla Meloni -viste le loro età- di “tenere a bada i tuoi alleati”, pur potendo contare sulla  fiducia americana. 

Per quanto appaia ogni svanito, tra passi incerti e amnesie imbarazzanti, sino a sbagliare i nomi dei Paesi dove si trova, o ai quali vorrebbe riferirsi parlandone da lontano, Biden è risultato bene informato di quanto sta accadendo in Italia attorno e persino dentro il governo Meloni. Dove l’atlantismo, per esempio, è tanto dichiarato quanto spesso disatteso in rapporto, per esempio, alla guerra in Ucraina, appena sconfinata con “pezzi di missili” -dicono le cronache- caduti in Polonia. La cui partecipazione alla Nato comporta rischi seri per Putin e per le sue truppe già costrette a rovinose ritirate. 

Sono ormai lontani i tempi in cui Silvio Berlusconi, partner ormai minore ma pur sempre determinante della coalizione di centrodestra, o di destra-centro, che ha portato la Meloni a Palazzo Chigi, poteva vantarsi di atlantismo aureo, di amicizia personale con presidenti americani ai quali offriva riproduzioni di statue romane. Ora il Cavaliere, tra smentite, precisazioni ma anche conferme in cene pseudo-riservate, dissente dai troppi aiuti occidentali all’Ucraina e dal troppo livore contro un Putin in fondo, ma molto in fondo costretto da sfortunate coincidenze a fare il cattivo, originariamente convinto di potere rapidamente e quasi tranquillamente sostituire Kerensky e amici a Kiev con un pò di più brave persone. Non parliamo poi di Matteo Salvini, per quanto adesso un pò distratto, diciamo così, dal controllo dei confini marittimi italo-europei minacciati dai migranti e dalle navi del volontariato che li soccorrono in mare  con sospetta puntualità rispetto alle rotte e ai mezzi usati da scafisti ben remunerati per i viaggi della disperazione. 

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