Lo scempio russo dell’Ucraina che continua contro ogni distrazione

Per quanti sforzi si compiano, con la complicità delle cronache politiche, economiche, giudiziarie e di nera, di distrarci da ciò che accade in Ucraina, cioè nel cuore dell’Europa, dove da più di 100 giorni si trascina una guerra di evidente aggressione e invasione, e vengono bombardate dai russi anche scuole e ospedali per la conquista di territori ridotti a cumuli di rovine e fosse comuni, è proprio questo scempio che continua a consumarsi. 

Papa Francesco

Ad ogni tentativo di interruzione, in qualsiasi sede compiuto, dalla Turchia al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite, ed anche in Vaticano, dove il Papa sta per incontrare una delegazione del governo di Kiev per parlare di una sua missione in quel Paese, visto che a Mosca è inutile che pensi di andare a disturbare praticamente le preghiere e le benedizioni del Patriarca Cirillo per gli invasori, dal Cremlino e dintorni si risponde ponendo come condizione preliminare la rinuncia alle sanzioni occidentali adottate contro la Russia. Che purtroppo, per i governanti di Mosca, non possono essere centrate dai missili contrassegnati con la Z di Putin come i depositi delle armi spedite dall’Occidente all’Ucraina per sostenerne la resistenza. Che per essere efficiente deve poter includere anche la possibilità di contrattaccare, perché diversamente sarebbe solo il prolungamento di un’agonia.

Macron e Draghi ieri all’Eliseo

Ebbene, di queste sanzioni proprio i governanti russi non stanno dicendo da più di tre mesi che sono inutili, o più dannose a chi le adotta che a chi le subisce? Se questa fosse la verità, imposta da Putin col silenzio anche alla governatrice della Banca centrale russa, che si era permessa all’inizio di dubitarne, perché impiegare tante energie diplomatiche per contrastarle? Perché non lasciare noi occidentali “imbecilli”, come ha appena gridato l’ex presidente russo Mevdved, impiccarci da soli e preparare così la nostra “scomparsa”, cioè la vittoria della Russia? C’ è qualcosa che chiaramente non torna né nei ragionamenti né nei conti della controparte, chiamiamola così. Come non tornano neppure i conti delle enormi quantità di grano ucraino bloccate dalla guerra, sottratte dai russi ai loro depositi, cioè rubate, mentre altri cercano di assicurarne lo sblocco e il trasporto a Paesi che rischiano la fame.Nè tornano, per fortuna dell’Occidente, i calcoli o le scommesse di Mosca sulle divisioni dell’Europa fra chi vorrebbe salvare quanto meno la faccia a Putin, come il presidente francese Emmanuel Macron, e chi neppure a quella tiene più di tanto, visto il modo liquidatori col quale si è visto trattare al telefono ogni volta che lo ha chiamato: il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. Le foto dell’incontro e dell’abbraccio fra i due ieri a Parigi debbono avere prodotto a Mevdved chissà quale altra sfuriata. mitigata forse solo dalla scommessa sull’altro suicidio che l’Europa avrebbe deciso di mettere in cantiere programmando dal 2035 la produzione di auto non più a benzina o nafta. 

Dalla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno

Non parliamo poi, e infine, del suicidio tutto italiano delle presunte “liste di proscrizione” dei sostenitori diretti o indiretti di Putin che, in qualche modo predisposte dai soliti servizi segreti, sarebbero state affidate per la loro diffusione al Corriere della Sera. “I soggetti per cui si straparla di proscrizione -ha telegrafato lo scrittore Gianrico  Carofiglio, già magistrato e parlamentare del Pd, alla Gazzetta del Mezzogiorno- sono ogni sera nel talk show”, per cui “un pò di decenza linguistica non guasterebbe”. Davvero. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Tranquilli, noi “bastardi occidentali” sopravviveremo anche a Putin e Medvedev

Antonio Polito sul Corriere della Sera
Titolo del manifesto

Temo per quell’energumeno di Dmitry Medvedev, il numero 2 di Putin forse aspirante alla successione, naturale o forzata che possa rivelarsi, che noi occidentali gli sopravviveremo, per quanto “bastardi”, “imbranati” e “degenerati”, come ci ha appena definiti in sintonia con quello che dice, addirittura pregando, il Patriarca di Mosca Kirilii sino a far bestemmiare Papa Francesco a Roma. Gli sopravviveremo come, bene o male, ad altri inquilini del Cremlino e a quei fanatici che non a torto Antonio Polito ha ricordato oggi sul Corriere della Sera commentando proprio l’odio di Mevdev: quel “gruppo di ragazzi arabi” che 21 anni fa “si imbarcò su quattro aerei di linea negli Stati Uniti, convinti di poterci distruggere perché abbiamo paura della morte, mentre loro, gli attentatori delle Torri gemelle, la desideravano fino al martirio”. 

Titolo di Repubblica su Medvedev
Titolo del Foglio

E pensare che 21 anni fa, appunto, proprio vedendo in televisione quelle due torri di New York che bruciavano come fiammiferi nella famosa rappresentazione scritta all’istante da una testimone eccezionale come Oriana Fallaci, avevo quasi rimpianto la Mosca sovietica. Dove- pensai- nessuno avrebbe mai permesso che dal Medio Oriente e dintorni potesse partire un ordine bestiale come fu quello di Osama Bin Laden. Non ci crederete, ma lo stesso pensiero mi è venuto leggendo l’esplosione d’odio, o d’ambizione a succedere a Putin, di quel Mevdev scambiato non più tardi di venerdì scorso in  Italia per “un uomo di pace” da Matteo Salvini, come gli ha rinfacciato  oggi Il Foglio in prima pagina. 

Questi post-sovietici sono decisamente peggiori dei loro fratelli maggiori, padri o nonni. Il Cremlino è forse diventato davvero quel “palazzo di merda” gridato in diretta televisiva domenica sera da Alessandro Sallusti ritirandosi dalla trasmissione de la 7 organizzata attorno ad una trasferta di fine stagione di Massimo Giletti a Mosca. Che voleva essere un surrogato di quella tentata da Salvini in versione pacifista d’intesa con l’ambasciatore russo a Roma e naufragata per le proteste anche dei suoi amici di partito, pazienti con lui non sino al suicidio politico. 

La presidente della Georgia ieri al Quirinale con Mattarella

Nonostante la scadenza politica più attuale delle elezioni amministrative e dei referendum di domenica prossima sulla giustizia, sono curioso -credo come tanti altri- di vedere come Salvini e il ritrovato socio gialloverde Giuseppe Conte, di cui il “capitano” leghista tra il 2018 e il 2019 fu vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, avranno la forza e il coraggio di tirare davvero  un’imboscata parlamentare il 21 giugno a Mario Draghi e al governo sulla guerra in Ucraina, contro altri aiuti militari al Paese aggredito e invaso dalla Russia della coppia Putin-Medvedev: un’aggressione che Mattarella e Draghi sono tornati a denunciare ieri ricevendo, tra Quirinale e Palazzo Chigi, la presidente della Georgia Salomè  Zourabilichvili.  

Ripreso da http://www.policymakermag.it 

Il cartellino giallo del governo italiano all’ambasciatore russo a Roma, e amici

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio

Non transfigurato in una magica e galeotta  aureola rossa, ma semplicemente ripreso dai fotografi davanti a un divieto di sosta all’uscita dagli uffici giudiziari di Roma, dove era andato a denunciare nelle prime battute della guerra del suo Paese all’Ucraina le presunte falsità e manovre della stampa italiana contro la Russia, l’ambasciatore di Mosca Sergey Razov avrebbe forse dovuto essere già allora convocato alla Farnesina dal segretario generale. Come invece è avvenuto solo ieri, su incarico del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, per essere praticamente richiamato all’ordine. O, come preferite in termini calcistici, per essere ammonito col cartellino giallo, trasformabile nel rosso espulsivo al successivo fallo. 

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Che l’aria sia ormai questa, tra Farnesina e Palazzo Chigi, lo si capisce dalla succinta cronaca in prima pagina sul Corriere della Sera a firma di Francesco Battistini, Fabrizio Caccia e Marco Galluzzo. Secondo i quali Razov, per quanto ancora combattivo, polemico e quant’altro, è stato invitato bruscamente a “smettere di accusare l’Italia con i toni di un politico, altrimenti è a rischio la sua permanenza nel nostro Paese”. 

Del resto, l’ambasciatore russo ha già ricevuto, col suo collega bielorusso, il primo segnale di gradimento in pericolo direttamente dal Quirinale, dove i rappresentanti diplomatici si accreditano. Razov non è stato invitato al concerto della recente festa della Repubblica. Lui ha praticamente protestato facendo sapere del messaggio augurale mandato per l’occasione da Putin a Sergio Mattarella e rimasto diseducatamente senza risposta. Che in simili circostanze però non è per niente dovuta, comunque non rientra nelle consuetudini, hanno reagito al Quirinale. Dove la Russia viene insistentemente indicata dal capo dello Stato, ogni volta che ne ha l’occasione, come il Paese aggressore della libera Ucraina, colpevole solo di esserle confinante: roba “ottocentesca”, secondo Mattarella. 

Giuseppe Saragat e Amintore Fanfani

Il guaio è, paradossalmente, che rispetto ai tempi tanto tesi e difficili dell’Unione Sovietica, i tempi che chiamavamo della guerra fredda, gli ambasciatori russi hanno cambiato in peggio le loro abitudini di lavoro a Roma. Allora si facevano vedere e sentire di rado in pubblico. Interloquivano con il ministro degli Esteri di turno e non col capo della Procura della Repubblica di Roma. E il massimo che si concedevano, in materia di riservatezza o fuori ordinanza, era accettare un invito a pranzo del direttore generale della Rai, il compianto Ettore Bernabei, per ricevere la richiesta di qualche cameratesco consiglio al Pci di essere riguardoso, diciamo così, verso la candidatura di turno di Amintore Fanfani al Quirinale. Cui si viene eletti dal Parlamento a maggioranze sempre qualificate, cioè col concorso dell’opposizione. Dove i comunisti sono stati a lungo nella cosiddetta prima Repubblica, risultando spesso decisivi per l’elezione del capo dello Stato. Fu il caso, per esempio, di Giuseppe Saragat nel 1964. E avrebbe potuto essere sette anni dopo anche il caso di Fanfani, se solo il Pci avesse voluto. Ma non volle, per quanti sforzi avesse forse fatto l’allora ambasciatore sovietico a Roma per convincere i compagni italiani a non scambiare Fanfani, come fecero, per una bassa copia italiana del generale e presidente francese Charles De Gaulle.

Giuseppe Conte
Matteo Salvini

Il cartellino giallo rimediato da Razov, sia pure in ritardo da quando è cominciata questa maldetta guerra russa all’Ucraina, non vale comunque solo per lui. E’ un pò la risposta di Di Maio, e di Draghi, ai politici italiani particolarmente sensibili, diciamo così, agli interessi rappresentati dall’ambasciatore. Si va da Matteo Salvini a Giuseppe Conte, che nella maggioranza di governo si stanno allenando a loro modo al voto del 21 giugno in Parlamento contro altri aiuti militari all’Ucraina.

Ripreso da http://www.policymakermag.it  

Quel gol ignorato di Giletti nella porta della portavoce del ministro degli Esteri russo

Titolo del Dubbio

Un pò prevenuto -lo confesso- per via dell’abituale simpatia che mostra a Matteo Salvini ogni volta che lo ospita alla sua trasmissione sulla 7, per cui ho subito pensato che ne avesse voluto in qualche modo raccogliere la staffetta andando a Mosca al posto suo, debbo chiedere il massimo della solidarietà -come il suo nome- a Giletti per l’avventura capitatagli  domenica sera nella trasferta televisiva nella capitale russa. Dove peraltro è anche svenuto, o quasi, in diretta per il troppo freddo preso ad ammirare e fare ammirare al suo pubblico le suggestive torri del Cremlino di mano anche italiana. Che Alessandro Sallusti dalla sua postazione italiana è stato forse un pò troppo sbrigativo a liquidare come “merda”- scusate il termine- per le brutte abitudini di chi le ha troppo a lungo frequentate.

Pur con tutti i limiti di una missione impossibile come quella di convincere alla pace chi non ne ha voglia, e ogni giorno fa qualcosa in più per allontanarla, e nonostante anche le difficoltà tecniche del suo collegamento videotelefonico, con la portavoce del ministro degli Esteri russo, Maria Zakharova, il bravo Giletti è riuscito -non credo a sua insaputa, come qualcuno potrebbe poco amichevolmente osservare- a infilare un bel gol nella rete della signora. Che con lui peraltro era stata e ancor più poi è diventata scortese: sino a dargli del “bambino” e del “marziano” per insistere a parlare di pace in Ucraina, che si sarebbe meritato tutto quello che ha perduto, ed altro ancora si guadagnerà,  di sangue e distruzioni, se non si toglierà dalla “dipendenza” degli odiati americani e, più in generale, occidentali. 

Il titolo della Stampa sulla trasferta di Giletti a Mosca

Il gol di Giletti, fra un’ammissione e l’altra -poveretto- di tutte le colpe possibili e immaginabili dell’Occidente, a scorrere indietro negli anni sin forse alla creazione dello stesso mondo, è consistito nel rinfaccio alla sventurata di manzoniana memoria della dichiarazione con la quale, sempre in veste di portavoce del ministro degli Esteri russo, escluse pubblicamente l’intervento militare che stava invece per cominciare contro l’Ucraina, quasi ad horas. Portavoce o portamenzogna? O semplicemente disinformata, come forse il suo stesso ministro nei rapporti con Putin e con i colleghi di governo? Vallo a sapere. 

Certo, per i putiniani non sono tempi facili, per quanto benedetti da un Patriarca declassato da Papa Francesco a “chierichetto” del Cremlino. Più comoda è la loro vita forse solo in Italia, per quanto si sentano perseguitati con “liste di proscrizione” rimproverate addirittura al Corriere della Sera da una confluenza di testate a dir poco sorprendente: dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio alla Verità di Maurizio Belpietro e persino al Giornale della famiglia Berlusconi. 

Pubblicato sul Dubbio

Grande è la confusione sotto il cielo, anche senza Mao sulla terra da un bel pò

Gratta gratta, il compianto Mao si prende sempre la rivincita con quella sua soddisfazione per “la grande confusione sotto il cielo”. Che non solo Putin con la guerra d’invasione all’Ucraina e i suoi sostenitori, anche in Italia, ma pure i suoi avversari o critici, almeno a parole, riescono a produrre, peraltro in un intreccio parossistico fra politica e informazione.

L’editoriale del Mattino

E’ francamente impossibile non riconoscersi almeno nel titolo dell’editoriale di Mauro Calise sul Mattino di oggi contro “il respiro corto dei partiti litigiosi”, a cominciare da quelli della maggioranza di governo che rischia di naufragare il 21 giugno in Parlamento sul problema degli aiuti militari all’Ucraina. L’atlantista presidente del Consiglio Mario Draghi, sempre convinto col capo dello Stato che Putin debba ritirare con le buone o le cattive le sue truppe dalle terre occupate, sopporta comprensibilmente sempre meno il suo sostanziale stato d’assedio a Palazzo Chigi. 

Matteo Renzi al Corriere della Sera

Pertanto, pur non volendo l’interessato scendere in politica, si starebbe raccogliendo attorno a Draghi “un’area” cui occorrerebbe prima o dopo, possibilmente prima delle elezioni politiche dell’anno  prossimo, “dare un tetto”. Alla cui costruzione Matteo Renzi si è mostrato disponibile in una intervista al Correre della Sera, pur sapendola affollata di troppi galli, diciamo così, perché possano stare insieme aspirando tutti al comando in prima o in seconda. 

Se i partiti tuttavia sono quelli che sono, e stanno come stanno, i giornali che dovrebbero riferirne le imprese per informare i lettori, e invece partecipano intensamente anch’essi alla lotta politica, non stanno meglio.

Titolo del Messaggero

Non so, francamente, se Putin abbia aumentato gli attacchi all’Ucraina nelle ultime ore “per tornare a trattare”, come ha interpretato in un titolo Il Messaggero. Ma so che ogni qualvolta parli qualcuno al Cremlino e dintorni si sentono solo minacce e derisioni di chi chiede la pace, come  è capitato ieri a Mosca, sino a svenirne, a Massino Giletti, il conduttore della quasi Arena de la 7. Che  è volato nella capitale russa per riproporre ai telespettatori le indagini suggestive del Cremlino illuminato a giorno di notte, ricordarne l’impronta artistica anche italiana e soprattutto intervistare non il ministro degli Esteri ma la sua portavoce. Che, reduce da una missione del suo capo in Medio Oriente, non l’ha neppure raggiunto nella postazione televisiva ma ha accettato di collegarsi  con lui da casa.

Per quanti sforzi facesse Giletti per riempire di carinerie l’interlocutrice e battersi il petto per gli errori compiuti dall’Occidente nel mondo, la portavoce del ministro degli esteri russo lo ha trattato -a sentirlo parlare di trattative e di pace- come un bambino, sino a chiamarlo proprio così, per giunta immaginandolo sbarcato da Marte. Eppure “il bambino” era riuscito a inchiodarla ad una dichiarazione con la quale la signora aveva escluso l’invasione russa dell’Ucraina pochissimi giorni prima che cominciasse.

Titolo della Verità
Titolo del Giornale

A questo spettacolo non ha retto dall’Italia, in collegamento videotelefonico pure lui, il direttore di Libero Alessandro Sallusti definendo “di merda” il Cremlino e i suoi inquilini di turno, abbandonando la trasmissione e rinunciando al “compenso pattuito”. Ma di tutto questo Sallusti si è dimenticato, diciamo così, di mettere una sola parola, un solo rigo sulla prima pagina del suo quotidiano. Invece il politicamente omologo Giornale della faniglia Berlusconi, già diretto a lungo dallo stesso Sallusti,  è uscito oggi come La Verità di Maurizio Belpietro, anche lui ex direttore del Giornale, contro la “ lista di proscrizione” dei “putiniani d’Italia” attribuita al Corriere della Sera. 

Titolo del Fatto Quotidiano

La pagina interessata del Corriere, quasi come corpo del reato, è stata riprodotta naturalmente dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. In compagnia del quale immagino con quanta poca soddisfazione potrebbero ritrovarsi i lettori degli altri due giornali di cosiddetta area di centrodestra schieratisi a favore dei sostenitori di Putin. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Dal Fatto Quotidiano

La carriera un pò declinante di Putin in questa sciagurata guerra all’Ucraina

Uno schiaccianoci di Cajkovskij
Titolo del manifesto

Putin è stato promosso o degradato, come preferite, a “sfollagente” nella redazione del manifesto, dove non sono mai stati  tanto affascinati dal Cremlino, neppure ai tempi del Pci, da dove anzi furono espulsi nel 1969 proprio per le libertà che si prendevano nei riguardi di Mosca. In effetti, i 14 milioni di ucraini che, secondo stime delle Nazioni Unite, hanno dovuto abbandonare le loro case perché distrutte o in via di distruzione nella guerra di aggressione in corso da più di cento giorni potrebbero bastare e avanzare per fare di Putin uno sfollagente in forma, anzi il capo di tutti gli sfollagenti, compresi quelli naturali ai quali il mondo è più abituato, come i terremoti e derivati. Ma Putin ha altre ambizioni. Esclusa per ragioni di età e forse anche di salute, viste le  diagnosi pressoché infauste che si procura ad ogni visita cui si presta a distanza con le sue apparizioni in tv, una conversione improvvisa alla musica con danza, fosse pure quella di Cajkovskij, l’uomo si è incoronato “schiaccianoci” fuori stagione. Sono di solito natalizi quegli schiaccianoci, appunto, di legno che usano regalare anche in Russia. 

Titolo del Corriere della Sera

Le noci che Putin si è proposto di schiacciare in questi tempi di guerra da lui voluti sono le “nuove armi” che il presidente Joe Biden, dopo qualche esitazione fra razzi di corto, medio e lungo raggio ed altre diavolerie del genere, ha deciso di mandare agli ucraini, che quasi già assaporandole hanno cominciato una controffensiva nel Donbass, pur sembrato ormai completamente acquisito dalle truppe russe. Di nuove armi italiane invece Putin non ha parlato: quelle evidentemente non le teme anche perché chi gli sta intorno lo ha informato del “rischio” avvertito persino da un amico di Mario Draghi come il capo della delegazione legista al governo, Giancarlo Giorgetti, che dalle Camere il 21 giugno quel mezzo  e presunto guerrafondaio del presidente del Consiglio venga sconfessato dalla coppia costituita da Giuseppe Conte e Matteo Salvini, in ordine sia alfabetico sia di consistenza parlamentare, per quanto non più elettorale, ormai. 

Titolo del Fatto Quotidiano

Non è detto tuttavia che la coppia non scoppi un’altra volta, come nell’estate del 2019, perché sia Salvini sia Conte hanno un pò di problemi in casa, fra  i leghisti e i grillini, che potrebbero esplodere coi risultati delle elezioni amministrative di domenica prossima, 12 giugno. Pensate un pò che Conte, il presidente del MoVimento 5 Stelle, per cercare di uscire indenne da questo turno di elezioni amministrative, come ha spiegato e titolato il giornale che ha più simpatie per lui, naturalmente Il Fatto Quotidiano, ha presentato “poche liste” e “zero sindaci” candidati, preferendo “più alleanze” col Pd di Enrico Letta. Dal quale tuttavia l’ex presidente del Consiglio dissente su nuovi aiuti militari all’Ucraina, per cui   i due potrebbero rompere il 21 giugno, prima ancora del secondo turno, cioè dei ballottaggi, di queste elezioni amministrative, come molti forse nel Pd sotto sotto sperano, a cominciare addirittura dal segretario. 

Titolo della Stampa

Ad Enrico Letta, ma soprattutto a Mario Draghi, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato è tornato a dare una mano ribadendo che “armare Kiev rispetta la Costituzione”, diversamente da quanto sostengono i pacifisti. E se lo dice lui, col ruolo che ha, un pò di credito glielo si può anche dare, come del resto al capo dello Stato. Che non immagina certamente un’Ucraina disarmata e abbandonata quando parla, com’è tornato a fare prima del concerto della festa della Repubblica, del necessario ritiro delle forze russe dai territori occupati del paese confinante. 

Un pò di tragiche amenità dopo 101 giorni di guerra in Ucraina

Se non fossimo ormai a più di 100 giorni di guerra in Ucraina, con i loro morti, i loro feriti, i loro profughi, le loro distruzioni, i loro scempi, e giusto per rimanere nella cornice del lungo ponte festivo della nostra Repubblica, si potrebbe anche ridere con Emilio Giannelli. Che sulla prima pagina del Corriere della Sera ha fatto impartire dal  ricchissimo Patriarca di Mosca, Kirilj, la benedizione “Urbi et Orban” dopo che il premier ungherese, appunto, lo ha salvato dalle sanzioni europee contro gli aggressori russi. Che quella specie di Papa rosso benedice e incoraggia da “chierichetto di Putin”, come lo ha definito a Roma il Papa bianco fuori dalla grazia di Dio.

La vignetta del Secolo XIX

Si potrebbe ridere anche con Stefano Rolli, che sul Secolo XIX ha immaginato Matteo Salvini finalmente a Mosca che cerca di contattare Putin al Cremlino e viene definito dal generale di turno “il solito italiano con la mania dei citofoni”, pensando evidentemente anche lui a quella famosa campagna elettorale perduta dal leader leghista a Bologna.

Titolo del Fatto Quotidiano

Se fosse solo quella dei citofoni la mania di Salvini…, peraltro ingenerosamente trattato  da quelli del Fatto Quotidiano. Che anziché ringraziarlo per l’aiuto che cerca di dare al suo ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’offensiva sostanzialmente filoputiniana di almeno metà del movimento grillino in vista del passaggio parlamentare del 21 giugno proprio sulla guerra in Ucraina, ha accusato in prima pagina Salvini di volersi “vendicare” da “zoppo” contro il presidente del Consiglio. 

Putin col generale Dvornikov, rimosso dal comando delle operazioni in Ucraina

Ormai hanno perso tutti la bussola e zoppicano in questa disgraziatissima guerra, a cominciare naturalmente dal Cremlino. Dove chissà se riusciremo mai a scoprire o comunque a sapere se Putin, bene o male o malissimo che sia in salute, ha appena rimosso dal comando delle operazioni militari in Ucraina il generale Dvernikov, noto come “il macellaio della Siria”, per avere fatto troppo o troppo poco il suo mestiere, comunque male. 

Quell’unico ma importante sì di Violante ai referendum sulla giustizia

Titolo del Dubbio

Ogni volta che leggo o sento Luciano Violante alle prese con la giustizia, dei cui temi era responsabile nel Pci della deriva un pò giustizialista, tanto da essere chiamato con approssimazione “il capo del partito dei pubblici ministeri”, e Francesco Cossiga lo bollava dal Quirinale come “un piccolo Visinskij”, il procuratore generale dell’Unione Sovietica degli anni delle “purghe” di Giuseppe Stalin; ogni volta, dicevo, che lo leggo o lo sento ricordando i tempi passati non mi sento di rinfacciare all’ex presidente della Camera le vecchie posizioni, vere o presunte che fossero nella esasperazione delle polemiche politiche. Mi sento piuttosto di apprezzare la capacità avuta di aggiornare le sue valutazioni dopo essere stato, a mio avviso, troppo ottimista nel giudicare tanti magistrati che si sarebbero poi rivelati anche ai suoi occhi non proprio all’altezza dei loro compiti.  

Gli uomini e le cose si scoprono sul campo. E le delusioni sono tanto più cocenti quanto più si sono rivelate grandi, e gravi i loro effetti. Memorabile per efficacia caustica delle sue parole rimane l’auspicio espresso da Violante, dopo i troppi e troppo evidenti eccessi della falsa epopea di “Mani pulite”, quando i giornali uscivano tutti allo stesso modo sulle indagini di Milano e altrove contro il finanziamento illegale dei partiti e la corruzione che spesso poteva accompagnarla, “almeno di una separazione delle carriere fra giornalisti e magistrati”, cacciatori e dispensatori delle notizie giudiziarie. Ben detto, onorevole Violante, perché anche noi giornalisti abbiamo commesso errori, e continuiamo a commetterne, prestandoci alle rappresentazioni quanto meno parziali, se non addirittura false, di fatti e inchieste nella prospettiva dei processi non in tribunale ma nelle piazze. Dove già Aldo Moro nel 1977, prima di essere ucciso, “processato” dai terroristi in una “prigione del popolo”, avvertì il rischio che finisse la politica.

Non dimentico di Violante neppure il fastidio, direi lodevole, col quale reagì ai metodi di indagine, da lui stesso sperimentati, a Palermo sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi, quando anche l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovette intervenire a gamba più o meno tesa contro inquirenti troppo invasivi, diciamo così. E, a proposito di Quirinale, trovai disdicevole che da alcune parti si cercasse già allora di attribuire le distanze che via via Violante aveva preso da certi inquirenti ma anche giudici sospettandolo di coltivare  ambizioni quirinalizie, appunto, puntando sull’appoggio di parti politiche opposte a quelle di sua provenienza.

Questa lunga premessa mi permette di apprezzare l’annuncio di Violante appena raccolto dal Dubbio del suo voto favorevole al referendum del 12 giugno abrogativo della cosiddetta e famosa legge Severino, più nota per l’abuso che se ne fece nel 2013, fra i dubbi con onestà espressi dallo stesso Violante, per espellere dal Senato Silvio Berlusconi, a scrutinio palese e con applicazione retroattiva: l’uno e l’altra voluta o condivisa personalmente dal presidente dell’assemblea che era stato un fior di magistrato come Pietro Grasso. Ma più ancora di quello scempio, altri ne ha permessi quella legge decapitando amministrazioni locali senza una condanna definitiva, alla faccia di elettori e quant’altri.  Di quella legge nessuno ha poi sentito, e sente ancora il bisogno di scusarsi, pur portando il nome peraltro di una giurista, oltre che di un avvocato e guardasigilli del governo addirittura tecnico, non politico, di Mario Monti. Giustamente Violante ha ricordato che “certe responsabilità spettano ai partiti” e  “non possiamo affidare alla magistratura compiti che non le competono”. E’ un pò quello che ai tempi di Mani pulite alcuni dicevano degli abusi della carcerazione preventiva, causati pure dalla leggerezza con la quale i politici avevano consentito il ricorso alle manette in corso d’indagini. 

Matteo Salvini quando si occupava dei referendum sulla giustizia

Non ho invece condiviso il timore espresso da Violante sulla natura un pò punitiva verso i magistrati attribuibile agli altri referendum sulla giustizia ormai alle porte. Per i magistrati non è mai il tempo opportuno per intervenire su di loro senza diventare vittime della politica pur alla ricerca dello spazio perduto. Ma va detto con onestà e franchezza che non meno di questa impressione condivisa da Violante gioca contro i referendum la distrazione che si è presa -giocando con la politica estera e con la guerra in Ucraina- il leader leghista che li promosse con i radicali, in un accoppiamento politico che proprio per la sua novità clamorosa, ricordando il cappio leghista alla Camera nel 1993, avrebbe dovuto richiedere un maggiore impegno di Matteo Salvini. E ciò senza nulla togliere, per carità, alla generosità del digiuno di protesta di Roberto Calderoli, dimostratosi più convinto della causa.  

Pubblicato sul Dubbio

La festa della Repubblica, ma forse ancor più quella del suo ponte…

Titololo di Repubblica
Il traffico autostradale del ponte

  Per molti, se non per la maggior parte di noi italiani, diciamoci la verità, come dimostrano le immagini del traffico, quella non solo di ieri ma anche di questi giorni a venire, sino a domenica, non è tanto la festa della Repubblica nel 76.mo anniversario del referendum istitutivo, ma la festa del Ponte, con la maiuscola. E non voglio farne motivo di scandalo, per carità, anche se mi rimangono sul gozzo i titoli che molti giornali hanno preferito dedicare -giustamente- ai 100 giorni trascorsi dall’inizio della guerra di invasione e aggressione di Putin all’Ucraina. Dove si sta consumando una tragedia immane nella indifferenza – temo- di troppa gente oltre i confini di quel paese che abbiamo imparato a conoscere ed anche apprezzare in Italia per i tanti che vi erano arrivati già prima per accudire spesso ai nostri familiari anziani o ammalati. E ai cui cari rimasti in Patria abbiamo aperto le porte sapendoli ora in fuga e senza casa, ridotta spesso in macerie da una guerra insensata come tutte, ma questa forse più del solito.  

Mattarella nei giardini del Quirinale
Le frecce tricolori sull’altare della Patrua

A proposito dei giornali, se ne avessi avuto uno a disposizione, avrei scelto questa volta per la prima pagina non la solita foto delle frecce tricolori svettanti sui fori imperiali e sulle truppe che vi sfilano davanti al Presidente della Repubblica e altre autorità, né le immagini di queste ultime, anche per risparmiarvi la presidente del Senato, seconda carica dello Stato, che mastica la gomma americana. No, avrei scelto qualcuna di quelle foto  scattate nel pomeriggio di ieri nei giardini del Quirinale, dove il presidente Sergio Mattarella ha voluto incontrare tanti giovani e disabili, familiarizzando con loro in un misto commovente di umanità e senso dello Stato insieme: lo Stato di tutti, e non di chi sta meglio. 

E’ veramente eccezionale -lasciatemolo scrivere- questo presidente al secondo e tanto non voluto mandato. La cui ritrosia alla rielezione, pur sollecitata alla vigilia della scadenza del primo settennato nelle piazze, nei teatri, nelle scuole, ovunque lui si recasse proprio per accomiatarsi, ci è costato politicamente qualcosa. Cui per fortuna supplisce la conferma comunque accettata alla fine dell’ennesima corsa al Quirinale, spero in modo completo, perché temo che una parte del danno possa rimanere, e per giunta aggravarsi. 

Ancora Mattarella nei giardini del Quirinale

Questo danno -scusate la franchezza, magari non condivisa da qualcuno o da parecchi di voi- sta nella debolezza derivata ad un presidente del Consiglio del prestigio internazionale come Mario Draghi dal fatto di essersi mostrato disponibile a succedere a Mattarella quando il presidente uscente appariva davvero inamovibile nella sua decisione di diventare solo e sempre senatore: a vita, come prescrive la Costituzione per il Capo dello Stato che esaurisce il suo compito. Da allora, purtroppo, il lavoro di Draghi, in Parlamento e fuori, fra i partiti che compongono la sua volutamente anomala maggioranza, proposta al Parlamento proprio da Mattarella più di un anno fa nella impossibilità di sciogliere in quel momento i nodi della crisi del secondo governo di Giuseppe Conte col riscorso anticipato alle urne; da allora, dicevo, il lavoro di Draghi si è politicamente complicato. Nè poteva in fondo accadere diversamente pensando che a poco più di un anno dall’esaurimento ordinario e improcrastinabile della legislatura, a meno che Putin non decida di spingersi con le sue truppe fino in Italia, i partiti -proprio tutti, anche quelli che lo negano- si sentono e si movono in campagna elettorale, spinti più dalla propaganda che dalla responsabilità. Di cui si sente la mancanza quanto più alta è per le forze politiche in campo la posta in gioco, ciò che rischiano cioè di perdere o di non conquistare. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Musica dal Quirinale contro la feroce guerra di Putin all’Ucraina

Titolo di Repubblica

Probabilmente confortato dal ripensamento del presidente americano Joe Biden, che ha sbloccato una partita di missili di maggiore precisione da inviare a Zelensky, in cambio di quelli a lungo raggio negatigli il giorno prima per non farli lanciare troppo lontano contro la Russia, Sergio Mattarella ha colto al Quirinale l’occasione del concerto della festa della Repubblica perché la musica ostile arrivasse bene alle orecchie direttamente di Putin. Il cui ambasciatore non è stato neppure inviato al Quirinale, come il suo omologo e complice bielorusso.

Titolo del Fatto Quotidiano
Mario Draghi sul Colle

La guerra condotta dal Cremlino contro l’Ucraina  dovrà concludersi -ha detto Mattarella- col ritiro delle truppe russe dai territori occupati dopo essere stati praticamente distrutti dagli invasori. Musica gradita naturalmente alle orecchie di Mario Draghi, presente al concerto dopo il Consiglio Europeo straordinario di fine maggio, ma non a quelle del Fatto Quotidiano, che vi ha dedicato un titolo dal tono scandalizzato.

Titolo del Giornale
Travaglio sul Fatto Quotidiano

Marco Travaglio ha preferito consolarsi a suo modo, nell’editoriale di giornata, con il pur odiatissimo Matteo Salvini. Che rimane un “cazzaro verde”, con un insulto autorizzato in sede giudiziaria, ma “meno di chi finge di cadere dal pero” apprendendone i rapporti che da marzo il leader leghista si vanta di avere con l’ambasciatore di Putin a Roma, non sfociato per un pelo in una visita a Mosca per le reazioni negative anche all’interno del suo partito. Salvini a questo punto è diventato particolarmente ingombrante per Silvio Berlusconi, che intrattiene con lui rapporti privilegiati all’interno del centrodestra, contro l’atlantista tutta di un pezzo che si è rivelata Giorgia Meloni, ma deve pur mitigare la vecchia amicizia col capo del Cremlino. “La Russia ha già perso”, ha dovuto scrivere il Cavaliere in un messaggio inviato al vertice dei popolari europei a Rotterdam, dove all’ultimo momento egli ha evitato di recarsi, anche se “l’Occidente è isolato”, secondo la sintesi fatta in prima pagina, con tanto di virgolette, dal Giornale di famiglia. Isolato ma evidentemente vincente, questo misterioso Occidente, se Putin appunto “ha già perso”. Temo, per lui, che al Cavaliere siano riuscite meglio le feste sportive del calcio con lo scudetto del suo “emerito” Milan e l’arrivo in serie A del Monza  davvero suo. 

Roberto Calderoli
La vignetta del Secolo XIX

Fra gli inconvenienti politici del Salvini praticamente filoputinista, in sofferenza per la concorrenza che gli fa in Europa l’ungherese Orban secondo la felice vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX, c’è la sua sostanziale distrazione dai referendum sulla giustizia del 12 giugno promossi con i radicali, già boicottati dalla unica e festiva giornata messa a disposizione delle urne dal governo. Ha deciso di supplire al sostanziale disimpegno di Salvini il collega di partito e vice presidente del Senato Roberto Calderoli, ricorso in questa coda della campagna referendaria anche ad un generoso sciopero della fame per protesta evidentemente anche contro lo stesso Salvini. Mamma mia, che confusione sul Carroccio, come del resto anche nel Pd, dove la posizione ufficiale è contraria ai referendum, e quindi favorevole all’ostilità dei magistrati, ma non passa giorno senza che aumentino gli annunci favorevoli di singoli esponenti del partito di Enrico Letta, messosi dal canto suo al sicuro riconoscendo la inevitabile libertà di coscienza. La corsa referendaria rimane comunque tutta in salita

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