Il cartellino giallo del governo italiano all’ambasciatore russo a Roma, e amici

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio

Non transfigurato in una magica e galeotta  aureola rossa, ma semplicemente ripreso dai fotografi davanti a un divieto di sosta all’uscita dagli uffici giudiziari di Roma, dove era andato a denunciare nelle prime battute della guerra del suo Paese all’Ucraina le presunte falsità e manovre della stampa italiana contro la Russia, l’ambasciatore di Mosca Sergey Razov avrebbe forse dovuto essere già allora convocato alla Farnesina dal segretario generale. Come invece è avvenuto solo ieri, su incarico del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, per essere praticamente richiamato all’ordine. O, come preferite in termini calcistici, per essere ammonito col cartellino giallo, trasformabile nel rosso espulsivo al successivo fallo. 

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Che l’aria sia ormai questa, tra Farnesina e Palazzo Chigi, lo si capisce dalla succinta cronaca in prima pagina sul Corriere della Sera a firma di Francesco Battistini, Fabrizio Caccia e Marco Galluzzo. Secondo i quali Razov, per quanto ancora combattivo, polemico e quant’altro, è stato invitato bruscamente a “smettere di accusare l’Italia con i toni di un politico, altrimenti è a rischio la sua permanenza nel nostro Paese”. 

Del resto, l’ambasciatore russo ha già ricevuto, col suo collega bielorusso, il primo segnale di gradimento in pericolo direttamente dal Quirinale, dove i rappresentanti diplomatici si accreditano. Razov non è stato invitato al concerto della recente festa della Repubblica. Lui ha praticamente protestato facendo sapere del messaggio augurale mandato per l’occasione da Putin a Sergio Mattarella e rimasto diseducatamente senza risposta. Che in simili circostanze però non è per niente dovuta, comunque non rientra nelle consuetudini, hanno reagito al Quirinale. Dove la Russia viene insistentemente indicata dal capo dello Stato, ogni volta che ne ha l’occasione, come il Paese aggressore della libera Ucraina, colpevole solo di esserle confinante: roba “ottocentesca”, secondo Mattarella. 

Giuseppe Saragat e Amintore Fanfani

Il guaio è, paradossalmente, che rispetto ai tempi tanto tesi e difficili dell’Unione Sovietica, i tempi che chiamavamo della guerra fredda, gli ambasciatori russi hanno cambiato in peggio le loro abitudini di lavoro a Roma. Allora si facevano vedere e sentire di rado in pubblico. Interloquivano con il ministro degli Esteri di turno e non col capo della Procura della Repubblica di Roma. E il massimo che si concedevano, in materia di riservatezza o fuori ordinanza, era accettare un invito a pranzo del direttore generale della Rai, il compianto Ettore Bernabei, per ricevere la richiesta di qualche cameratesco consiglio al Pci di essere riguardoso, diciamo così, verso la candidatura di turno di Amintore Fanfani al Quirinale. Cui si viene eletti dal Parlamento a maggioranze sempre qualificate, cioè col concorso dell’opposizione. Dove i comunisti sono stati a lungo nella cosiddetta prima Repubblica, risultando spesso decisivi per l’elezione del capo dello Stato. Fu il caso, per esempio, di Giuseppe Saragat nel 1964. E avrebbe potuto essere sette anni dopo anche il caso di Fanfani, se solo il Pci avesse voluto. Ma non volle, per quanti sforzi avesse forse fatto l’allora ambasciatore sovietico a Roma per convincere i compagni italiani a non scambiare Fanfani, come fecero, per una bassa copia italiana del generale e presidente francese Charles De Gaulle.

Giuseppe Conte
Matteo Salvini

Il cartellino giallo rimediato da Razov, sia pure in ritardo da quando è cominciata questa maldetta guerra russa all’Ucraina, non vale comunque solo per lui. E’ un pò la risposta di Di Maio, e di Draghi, ai politici italiani particolarmente sensibili, diciamo così, agli interessi rappresentati dall’ambasciatore. Si va da Matteo Salvini a Giuseppe Conte, che nella maggioranza di governo si stanno allenando a loro modo al voto del 21 giugno in Parlamento contro altri aiuti militari all’Ucraina.

Ripreso da http://www.policymakermag.it  

Quel gol ignorato di Giletti nella porta della portavoce del ministro degli Esteri russo

Titolo del Dubbio

Un pò prevenuto -lo confesso- per via dell’abituale simpatia che mostra a Matteo Salvini ogni volta che lo ospita alla sua trasmissione sulla 7, per cui ho subito pensato che ne avesse voluto in qualche modo raccogliere la staffetta andando a Mosca al posto suo, debbo chiedere il massimo della solidarietà -come il suo nome- a Giletti per l’avventura capitatagli  domenica sera nella trasferta televisiva nella capitale russa. Dove peraltro è anche svenuto, o quasi, in diretta per il troppo freddo preso ad ammirare e fare ammirare al suo pubblico le suggestive torri del Cremlino di mano anche italiana. Che Alessandro Sallusti dalla sua postazione italiana è stato forse un pò troppo sbrigativo a liquidare come “merda”- scusate il termine- per le brutte abitudini di chi le ha troppo a lungo frequentate.

Pur con tutti i limiti di una missione impossibile come quella di convincere alla pace chi non ne ha voglia, e ogni giorno fa qualcosa in più per allontanarla, e nonostante anche le difficoltà tecniche del suo collegamento videotelefonico, con la portavoce del ministro degli Esteri russo, Maria Zakharova, il bravo Giletti è riuscito -non credo a sua insaputa, come qualcuno potrebbe poco amichevolmente osservare- a infilare un bel gol nella rete della signora. Che con lui peraltro era stata e ancor più poi è diventata scortese: sino a dargli del “bambino” e del “marziano” per insistere a parlare di pace in Ucraina, che si sarebbe meritato tutto quello che ha perduto, ed altro ancora si guadagnerà,  di sangue e distruzioni, se non si toglierà dalla “dipendenza” degli odiati americani e, più in generale, occidentali. 

Il titolo della Stampa sulla trasferta di Giletti a Mosca

Il gol di Giletti, fra un’ammissione e l’altra -poveretto- di tutte le colpe possibili e immaginabili dell’Occidente, a scorrere indietro negli anni sin forse alla creazione dello stesso mondo, è consistito nel rinfaccio alla sventurata di manzoniana memoria della dichiarazione con la quale, sempre in veste di portavoce del ministro degli Esteri russo, escluse pubblicamente l’intervento militare che stava invece per cominciare contro l’Ucraina, quasi ad horas. Portavoce o portamenzogna? O semplicemente disinformata, come forse il suo stesso ministro nei rapporti con Putin e con i colleghi di governo? Vallo a sapere. 

Certo, per i putiniani non sono tempi facili, per quanto benedetti da un Patriarca declassato da Papa Francesco a “chierichetto” del Cremlino. Più comoda è la loro vita forse solo in Italia, per quanto si sentano perseguitati con “liste di proscrizione” rimproverate addirittura al Corriere della Sera da una confluenza di testate a dir poco sorprendente: dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio alla Verità di Maurizio Belpietro e persino al Giornale della famiglia Berlusconi. 

Pubblicato sul Dubbio

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