Lettera aperta di solidarietà a Vittoria Leone per il torto che ancora subisce il marito pur riabilitato

Titolo del Dubbio
Foto d’archivio del Presidente Giovanni Leone con la moglie Vittoria Michitto

Carissima donna Vittoria, come i più anziani -oggi- fra noi giornalisti ci abituammo a chiamarLa con gradita deferenza scrivendone quando già a 18 anni sposò il deputato dell’Assemblea Costituente Giovanni Leone, a 28 fu la moglie del presidente della Camera, a 36 la consorte del presidente del Consiglio e a 44 la first lady della Repubblica. Suo marito fu eletto infatti capo dello Stato il 23 dicembre del 1971, al secondo scrutinio su di lui, ventitreesimo di una serie in cui si era bruciata col fuoco dei “franchi tiratori” la candidatura del collega di partito Amintore Fanfani. E non era riuscita ad arrivare neppure nell’aula di Montecitorio la candidatura pur attesa dell’altro “cavallo di razza” della Dc. Che era Aldo Moro, amico personale, oltre che collega di partito, di Suo marito, tanto da lasciarsi andare con pochi altri come con lui nel vezzo che aveva -e gli riusciva benissimo- di imitare nella voce e nei gesti i politici che più o meno esplicitamente lo contrastavano.

Non Le scrivo, carissima donna Vittoria, certamente per ricordarle queste cose, ma per esprimerLe tutta la mia solidarietà e ammirazione per le dure prove che a distanza di vent’anni  dalla morte di Suo marito, appena commemorato nel Palazzo del Quirinale con la partecipazione di Sergio Mattarella, deve ancora provare vedendolo solo in parte ripagato del grandissimo torto subito nel 1978. Allora i vertici della politica, che si riconoscevano nella formula della solidarietà nazionale realizzata dallo stesso Moro due anni prima attorno ad un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, pretesero e ottennero il sacrificio del presidente della Repubblica con dimissioni anticipate di sei mesi rispetto alla scadenza del mandato.

I familiari di Giovanni Leone col Presidente Sergio Mattarella

Ancora oggi quando se ne parla in sedi e occasioni istituzionali, come è appena accaduto al Quirinale, dove l’ho vista con forte commozione tanto inevitabilmente invecchiata nelle foto col presidente della Repubblica, si riconosce, si ammette e si denuncia la odiosa e infondata campagna moralistica di diffamazione contro Leone condotta mediaticamente prima di quel doloroso e gravissimo passaggio istituzionale, in particolare dall’Espresso e da Camilla Cederna, poi condannata in tribunale.  Ma sempre, dico sempre, anche quindi nella commemorazione recentissima sul Colle, nonostante le scuse formulate a Leone fortunatamente ancora in vita da molti che lo avevano criticato, a cominciare da Marco Pannella, si è mai riconosciuto e deplorato anche l’uso strumentale fatto di quella campagna dai vertici -ripeto- della politica di allora per spingere fuori dal Quirinale il presidente della Repubblica. Questa è una cosa che deve finire. E deve invece cominciare un’altra storia, stavolta davvero riparatrice, che ristabilisca la verità su quello strappo infame alla verità, quanto meno.

Ad imbarazzare i vertici della politica in quel tragico 1978, dopo un referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti letto a sinistra come allarmante per il margine troppo ristretto in cui era stata sconfitta la richiesta di abrogazione,  non fu la campagna mediatica contro Leone. Fu il coraggio avuto dal Presidente della Repubblica dopo il sequestro dell’amico Moro, la mattina del 16 marzo, di far conoscere -cominciando col segretario del proprio partito Benigno Zaccagnini, appositamente convocato al Quirinale- il proprio dissenso di cristiano e di giurista dalla cosiddetta linea della fermezza pubblicamente annunciata. Che peraltro era destinata ad essere gestita nel peggiore dei modi, tra impreparazioni, improvvisazioni, doppi giochi, infedeltà istituzionali, depistaggi, smarrimenti di materiale fotografico, perquisizioni mancati, indirizzi sbagliati, accreditamenti addirittura di sedute spiritiche e quant’altro.

A tutto questo incredibile pasticcio Leone oppose la sua umanità, la sua discrezione, la sua professionalità giuridica, la sua esperienza di avvocato -direi, quello fra tutti gli avvocati che più a lungo e più in alto ha servito lo Stato- cercando di salvare la vita di Moro nell’unico modo che gli sembrò possibile, visto il fallimento delle ricerche o dei tentativi, se davvero ci furono, di un assalto alla prigione e di una soluzione di forza, con tutti i rischi connessi temuti anche dai familiari.

Egli individuò personalmente, con l’aiuto di esperti e di amici davvero fidati, fra i 13 “prigionieri” con i quali le brigate rosse avevano proposto di scambiare l’ostaggio una posizione su cui intervenire con l’istituto presidenziale della grazia. Fu quella di Paola Besuschio, condannata per terrorismo senza fatti di sangue a suo carico  e ammalata. Ma il Presidente non ebbe il tempo, dannatamente, per le informazioni di cui i terroristi evidentemente disponevano, di firmare in tempo il provvedimento di fronte al quale i macellai di via Fani, dove la scorta di Moro era stata sterminata, avrebbero dovuto assumersi la responsabilità di completare quella mattanza uccidendo lo stesso il presidente della Dc.

La tomba di Aldo Moro e della moglie Eleonora a Torrita Tiberina

Leone insomma pagò con trattamento che gli fu successivamente riservato sul piano politico e istituzionale quella sua pur sfortunata generosità e umanità. La seconda vittima della mal gestita- ripeto- linea della fermezza fu lui, dopo Moro.

Colgo l’occasione, carissima donna Vittoria, anche per ringraziarla di quella presenza attiva all’intervista che Suo marito, nel ventesimo anniversario del sequestro di Moro, nella vostra casa volle concedermi per Il Foglio ricostruendo quei tragici giorni, fra carte ed agende, e raccontandomi quindi per filo e per segno tutti i tentativi compiuti, pur nell’isolamento in cui si sentiva confinato nel Quirinale in quel periodo così drammatico, per compiere fino in fondo e davvero le sue funzioni di un umano e cristiano presidente della Repubblica. Grazie ancora, e un bacio anche per me al primo ritratto di Suo marito che ha a portata di mano.

Pubblicato sul Dubbio

La paura del Vietnam parlamentare in edizione nazarena, o lettiana

Mario Draghi

Per una volta il segretario del Pd Enrico Letta, dicono perché incoraggiato da un sondaggio che ha attribuito al suo partito più del 20 per cento dei voti, portandolo davvero in testa alla classifica dell’immaginario campionato elettorale permanente che si gioca abitualmente in Italia, ha rinunciato al solito gioco del cantone in cui sbattere lo sgradito di turno, da Matteo Salvini a Matteo Renzi. Ed ha proposto a Mario Draghi di convocare un vertice della maggioranza per un accordo blindato sul percorso parlamentare del bilancio. Che peraltro è già in ritardo pure quest’anno e puzza un po’  di “guerriglia vietnamita”.

Luigi Di Maio

Anche se l’intenzione di Enrico Letta sembra essere quella di lasciare fuori dal vertice sui conti il problema della successione a Sergio Mattarella al Quirinale per affrontarlo subito dopo, in omaggio alla “moratoria” da lui stesso proposta ma largamente disattesa dal dibattito che si svolge sul tema dentro e fra i partiti, senza che i giornali abbiano bisogno di inventarsi nulla; anche se -ripeto- l’intenzione di Letta sembra diversa, nessuno può escludere che nel vertice qualcuno sollevi lo stesso il tema presidenziale. E magari solo per blindare davvero un’intesa sui conti, dando peraltro all’astutissimo Draghi -come qualcuno mostra di temere, a cominciare dal ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio, che non rinuncia mai a qualche postilla mediatica dopo ogni dichiarazione del nuovo presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte- l’occasione di considerare concluso con l’approvazione del bilancio e col già impostato piano della ripresa il  compito dello specialissimo governo di emergenza affidatogli a febbraio.

Le dimissioni di Draghi consentirebbero da una parte al presidente uscente della Repubblica di sciogliere lui stesso il nodo della successione a Palazzo Chigi, promuovendo a presidente del Consiglio per ragioni di continuità il Ministro draghianissimo dell’Economia Daniele Franco, e dall’altra al medesimo Draghi di partecipare più liberamente alla corsa al Quirinale. Cui egli è stato ormai iscritto d’ufficio da tutti per il suo indiscusso prestigio internazionale, cresciuto ulteriormente con le prestazioni date a Palazzo Chigi.

Amintore Fanfani con la moglie Bianca Rosa

Peraltro l’eventuale governo Franco, con la paternità nel frattempo assunta dal capo uscente dello Stato ancora sprovvisto di alternative per l’inagibilità costituzionale dello scioglimento anticipato delle Camere nel cosiddetto semestre bianco, sarebbe messo al riparo da ogni contraccolpo di una fallita o mancata candidatura al Quirinale di Draghi. Al quale potrebbero d’altronde aprirsi ben altre prospettive, forse anche più congeniali alla caratura ormai europea e, più in generale, internazionale della sua figura. Che non dipende certo dallo spritz che beve al bar: al Campari, come lui ha appena rivelato puntigliosamente, o all’aperol che il barman sotto casa, a Rona, ha rivelato di avergli già servito tante volte immaginandoselo già al Quirinale per una previsione sfuggita alla “improvvida” consorte del premier: improvvida come ai tempi della lontana Prima Repubblica Amintore Fanfani definì la pur amatissima prima moglie Bianca Rosa. Che in una intervista al Borghese procurò al marito ministro degli Esteri un bel po’ di imbarazzanti problemi con gli alleati americani  e col presidente del Consiglio Aldo Moro per i  progetti di pace che coltivava con l’amico sindaco di Firenze Giorgio La Pira  per il Vietnam dilaniato dalla guerra. Dove lo stesso La Pira si era spinto in missione nell’autunno del 1965 col mite professore di matematica Mario Primicerio 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Matteo Renzi da regista a vittima delle corse al Quirinale

Incidenti di corsa al Quirinale, chiamiamoli così. Sono quelli che accadono ai malcapitati che cercano di fare troppo i furbi, o si trovano involontariamente in mezzo al fuoco tra concorrenti occulti che sparano come cecchini all’impazzata. Quello che sta rischiando di più in questi giorni sembra Matteo Renzi. Che di guai ne ha già tanti, fra magistrati e cronisti giudiziari alle prese con i suoi conti correnti, e si è trovato alla fine coinvolto in un gioco forse più grande dei suoi soliti, che sono pure di notevole consistenza anche politica, come dimostra la ripetuta rivendicazione che si attribuisce del merito di avere fatto arrivare a Palazzo Chigi Mario Draghi. Il quale, in verità, risulta mandatovi da Sergio Mattarella. Di cui, è vero, Renzi a sua volta può ben vantarsi -cioè non a torto- di essere stato il regista, il promotore e quant’altro dell’elezione al Quirinale nel 2015, senza tuttavia riuscire l’anno dopo, quando perse il referendum troppo personalizzato su una pur apprezzabile riforma costituzionale, a strappargli lo scioglimento anticipato delle Camere che gli serviva a investire bene il 40 per cento dei voti comunque raccolti. E non solo Dio, ma anche lui sa quanto gli costò il no oppostogli da Mattarella d’intesa con Paolo Gentiloni, nel frattempo succeduto a Renzi come presidente del Consiglio su sua stessa, forse non del tutto felice designazione.

Titolo del Fatto Quotidiano

Ma torniamo ai giorni nostri. Coinvolto non so francamente con quanto fondamento nella partita del Quirinale in corso da Marcello Dell’Utri, che ne avrebbe raccolto direttamente o indirettamente la disponibilità -naturalmente accreditata dal Fatto Quotidiano e dintorni- a fare votare dalla cinquantina di parlamentari di cui dispone un Berlusconi che avesse davvero qualche possibilità di essere eletto per la successione a Mattarella, Renzi si sente adesso assediato dai vecchi e nuovi nemici, in toga e senza toga, per finire politicamente ammazzato, o quasi.

Titolo del Giornale
Titolo del Corriere della Sera

“C’è un piano anti-Renzi per spaccare Italia Viva”, ha titolato solidaristicamente Il Giornale della famiglia Berlusconi. “Italia Viva perde pezzi?”, si è chiesto il Corriere della Sera anticipando che sarebbero almeno in cinque i parlamentari pronti a lasciarlo. “Gli eletti in subbuglio: mai con la destra”, ha titolato il manifesto. “Renzi disperato”, ha esultato il giornale di Marco Travaglio parlando anche d’altro.

Marina Berlusconi al Corriere delle Sera di ieri

Di fronte a tanto chiasso politico e mediatico, chiamiamolo così, si rimane quanto meno sconcertati a rileggere ciò che non più tardi di ieri ha detto al Corriere della Sera la figlia di Berlusconi, Marina, a proposito della corsa del padre al Quirinale che starebbe così inguaiando Renzi. “Mio padre -ha detto la presidente di Mondadori e di Fininvest a Daniele Manca, che per telefono aveva sollevato il tema come un inciso nella prospettiva delle fortune che attendono l’Italia in genere- non ha mai avanzato la sua candidatura. E quindi stiamo ai dati di fatto”. E’ una parola, in questo strano paese che continua ad essere l’Italia, anche con uno come Mario Draghi a Palazzo Chigi, stare appunto ai dati di fatto.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quel martirio ancora censurato di Giovanni Leone a 20 anni dalla morte

In una foto d’archivio Giovanni Leone fra Aldo Moro e Francesco Cossiga
Giovanni Leone ai funerali di Aldo Moro celebrati da Paolo VI

Né i 43 anni passati dalla tragedia di Aldo Moro né i 20 anni appena trascorsi dalla morte di Giovanni Leone -l’amico di Moro e presidente della Repubblica che, dissentendo dalla cosiddetta linea della fermezza, aveva disperatamente tentato di evitarne la fine, sino a  predisporre la grazia per una terrorista inclusa nell’elenco dei tredici “prigionieri” con i quali gli aguzzini avevano proposto di scambiare il presidente della Dc sequestrato fra il sangue della sua scorta-  sono dunque bastati a restituire tutto ciò che spetta alla memoria di quel cristianissimo capo dello Stato. Che Sergio Mattarella ha commemorato in presenza dei familiari, a cominciare dalla vedova Vittoria, invecchiata con tutto il suo permanente dolore, solo per cogliere -temo-  l’opportunità politica di riproporre un tema legatissimo alla cosiddetta corsa al Quirinale.

In particolare, Mattarella ha voluto ricordare la contrarietà di Leone alla immediata rieleggibilità del capo dello Stato, espressa in un messaggio alle Camere, per ribadire la propria indisponibilità ad una conferma, sia pure implicitamente a termine, come quella già praticata al predecessore Giorgio Napolitano nel 2013, che molti auspicano per le circostanze eccezionali in cui sta maturando la sua successione. Che avviene in un Parlamento prossimo anch’esso alla scadenza, nel 2023, e destinato ad essere sostituito da Camere assai diverse per consistenza -ridotte di un terzo dei seggi- e per rapporti politici, essendo i grillini passati dalla maggioranza relativa del 2028 a poco più del 15 per cento dei voti.

C’è anche chi ha visto in questo richiamo di Mattarella a Leone una mezza disponibilità a rivedere il rifiuto di una conferma purché serva a definire nell’anno residuo della legislatura una risolutiva modifica della Costituzione per sancire da una parte la ineleggibilità immediata del capo dello Stato e dall’altra l’abolizione -come volevano Leone ma anche Antonio Segni- del cosiddetto semestre bianco. Che attualmente impedisce al presidente nell’ultima parte del proprio mandato di sciogliere le Camere, nel timore di procurarsene altre favorevoli alla sua conferma.  

Se così fosse, cioè se si potesse arrivare ad una breve conferma di Mattarella per sciogliere finalmente anche questo nodo costituzionale, consentendo al tempo stesso la prosecuzione del governo di emergenza in carica presieduto dal benemerito Mario Draghi, senza coinvolgere quindi anche lui nella corsa al Quirinale, come si sta cercando di fare con le più diverse e anche contrastanti finalità, sarebbe davvero un affare.

La partenza di Giovanni Leone dal Quirinale dopo le dimissioni

Ma torniamo a Leone. Capisco l’opportunità contingente di richiamarsi a lui per una migliore definizione costituzionale dell’elezione del presidente della Repubblica. Capisco meno, anzi per niente, l’opportunità scartata, o non avvertita, da Mattarella di restituire a Leone il riconoscimento di avere subìto non solo una odiosa campagna diffamatoria e moraleggiante, purtroppo sfociata nelle  dimissioni, anticipate di sei mesi rispetto alla scadenza, ma anche l’infame strumentalizzazione fattane dalla politica dominante di quei tempi, contrassegnata dalle convergenze fra la Dc e il Pci,  per fargli pagare la “colpa” di non essersi attenuto alla cosiddetta linea della fermezza sul sequestro Moro. Se ne volle l’allontanamento dal Quirinale per togliergli o ridurne la credibilità morale semmai avesse voluto manifestare più chiaramente e clamorosamente il suo dissenso dalla gestione di quella che resta la più grave e misteriosa tragedia della Repubblica italiana.  

Tra fiducia e panico, politico e mediatico, la corsa al Quirinale

Titolo della Stampa
Titolo del Tempo

Due titoli -anzi, due titoli e mezzo, come vedremo- e due scenari opposti sullo sfondo del Quirinale: dalla fiducia al panico. Cominciamo con la fiducia suscitata da una visita di Sergio Mattarella a Torino. Dove, ospite dei giovani dell’amico Ernesto Olivero che lo aveva supplicato tre volte di rimanere ancora al Quirinale -presumibilmente per lasciare decidere la successione a un Parlamento non in scadenza e sostanzialmente delegittimato come questo-  si è detto sicuro che lascerà il Paese in “ottime mani”. Così ha appunto titolato in prima pagina La Stampa. Beato lui, Mattarella, che sembra sapere come finirà. E poveri noi, che invece stentiamo a capire e tanto meno prevedere. Né abbiamo la disinvoltura, il coraggio e quant’altro degli amici e colleghi del Tempo di scommettere sul barista che prepara lo spritz a Mario Draghi ed ha confidato di avere sentito la moglie del presidente del Consiglio pronosticare il trasferimento del marito da Palazzo Chigi al Quirinale.

Titolo del Giornale

Passiamo all’altro titolo e scenario offerto dal significativo, a dir poco, Giornale della famiglia Berlusconi. Dove -non se l’abbiano a male gli interessati- gradiscono poco ogni notizia, indizio, retroscena che allontana la sagoma reale o immaginaria dell’ex presidente del Consiglio dal palazzo del Presidente della Repubblica. Ma è un titolo e mezzo, come accennavo. Il titolo dice, quasi da quotidiano di opposizione: “Situazione insostenibile- Palude Quirinale. Cosa c’è dietro il silenzio di Draghi”. Che, a parte la versione del barista, si ostina a non dire chiaro e tondo che cosa intenda fare del suo governo: cercare di guidarlo sino all’esaurimento della legislatura, ordinario o anticipato che sia, cioè con una campagna elettorale di più di un anno o solo di qualche mese, o tentare la successione a Mattarella.

Intervista di Marina Berlusconi al Corriere della Sera

Nella rappresentazione dei danni derivanti dalla incertezza vera o presunta di Draghi il direttore del Giornale si è trovato involontariamente in conflitto paradossale con la figlia di Berlusconi, Marina. Che ha voluto dire la sua al Corriere della Sera su questo confuso o incerto passaggio politico assicurando che no, non c’è poi tanto da preoccuparsi perché “l’Italia corre” o, come preferite, “sta crescendo”. “Crediamoci”, ha raccomandato la signora.

“Catenaccio” del Giornale
Mattarella con la figlia Laura

Il mezzo titolo del Giornale, chiamato tecnicamente “catenaccio”, riguarda direttamente ed esclusivamente Mattarella per via delle voci che, contrariamente alla smania attribuitasi di prendersi il meritato riposo, specie ora che ha firmato il contratto di affitto di una casa a Roma per il dopo-Quirinale, fanno pensare il contrario. E mettono forse in ansia più la figlia Laura che il presidente Mattarella.

Augusto Minzolini sul Giornale

E quali sono queste voci, un po’ derise dal buon Augusto Minzolini per il loro carattere apparentemente paradossale? Se richiesto veramente da tutti di restare ancora un po’ al suo posto, come accadde nel 2013 col predecessore Giorgio Napolitano, il presidente uscente acconsentirebbe in cambio dell’impegno generale di approvare nell’anno residuo della legislatura una modifica della Costituzione che vieti la rieleggibilità del capo dello Stato e abolisca al contempo il cosiddetto semestre bianco, il divieto cioè di sciogliere le Camere nella parte conclusiva del mandato quirinalizio. E ciò che in passato avevano inutilmente proposto dal Quirinale i democristiani Antonio Segni e Giovanni Leone. Potrebbe essere in effetti l’uovo di Colombo, evidentemente indigesto però al Giornale, ripeto, della famiglia Berlusconi. Per oggi è tutto. Domani sarà un altro giorno.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quel “tarlo” che Zagrebelsky non ha mai perdonato a Napolitano

Titolo del Dubbio
Il presidente emerito della Corte Costituzonale Gustavo Zagrebelsky

Se il piatto della vendetta si serve freddo, come dice un vecchio proverbio, quello preparato dal presidente emerito della Corte Costituzionale  Gustavo Zagrebelsky per il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano è stato servito freddissimo, direi congelato, ai lettori di Repubblica. Che si sono visti riproporre gli attacchi del costituzionalista all’ormai ex capo dello Stato nove anni dopo i fatti, risalendo al 2012 l’attacco del professore a “Re Giorgio” – così lo chiamavano un po’ tutti i simpatizzanti, anche della stampa estera- per avere fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro la potentissima Procura della Repubblica di Palermo. Nelle cui intercettazioni per le indagini sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi erano finite anche le utenze del Quirinale, compresa quella del capo dello Stato chiamato al telefono, fra gli altri, da Nicola Mancino. Che non era un omonimo, ma proprio il ministro democristiano dell’interno all’epoca della vicenda finita sotto le lenti degli inquirenti, diventato poi presidente del Senato, quindi supplente del capo dello Stato in caso di impedimento, e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura con lo stesso Napolitano presidente.

Antonio Ingroia
Giorgio Napolitano ai funerali del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio

                La Procura palermitana della Repubblica si era messa in testa di poter disporre la distruzione delle intercettazioni dell’inintercettabile capo dello Stato adottando una procedura che avrebbe potuto consentirne paradossalmente la diffusione facendo prima ascoltare il contenuto alle parti processuali. L’allora magistrato di punta dell’accusa, il non dimenticato Antonio Ingroia, già scherzava pubblicamente scherzava sulla sua memoria di ferro e sulla licenza che avrebbe potuto concedersi come romanziere scrivendone a tempo debito. C’era ben poco da ridere, in verità, ma molti risero lo stesso, fuori e dentro gli uffici giudiziari, vi lascio immaginare con quanta soddisfazione sul Colle, dove ancora si piangeva la morte per infarto del consigliere giuridico di Napolitano, il povero Loris D’Ambrosio, finito nel tritacarne delle polemiche e dei sospetti su chissà quali e quante pressioni sui magistrati inquirenti.

Eugenio Scalfari

       Secondo Zagrebelsky, anche a costo di lasciare Ingroia libero di divertirsi come possibile romanziere, Napolitano avrebbe dovuto risparmiare alla Corte Costituzionale il sospetto, fondato o non che fosse, di dover decidere per forza a suo favore, a tutela della sua figura istituzionale. Eugenio Scalfari, non più direttore di Repubblica ma pur sempre fondatore e custode, garante e quant’altro della sua anima, amico di entrambi i contendenti, non esitò un istante a schierarsi con Napolitano. E il presidente emerito della Consulta, come altri celebri collaboratori, per esempio Barbara Spinelli, entrarono nei “coni d’ombra” dove Scalfari metteva ogni tanto i dissidenti

        Ora che in un cono d’ombra ci si è messo di persona lo stesso Scalfari  per i  97 anni felicemente compiuti in aprile, per i temi sempre più alti e distaccati di riflessione, celebrato ancora in vita dalle figlie con un documentario  davvero toccante anche per chi ha avuto tante occasioni di non condividere le scelte di un giornalista pur eccezionale come lui, Zagrebelsky è tornato alla carica contro Napolitano, non nominandolo esplicitamente ma facendolo chiaramente riconoscere nel passaggio di un articolo sui “tarli” del Quirinale in cui si contesta “il velo di silenzio” steso dalla Corte  nel 2012 sui “contatti informali” dell’allora presidente della Repubblica. “Contatti che possono contenere interventi inconfessabili e incontrollabili”, ha aggiunto Zagrebelsky severamente al presente, come per dire che altri potrebbero fare ancora e di più dopo Napolitano, pur mettendo Sergio Mattarella al riparo da ogni dubbio o paura su una specie di monumento alla “fortuna” erettogli in una specie di inciso.

Il pesante giudizio di Giuliano Ferrara su Zagrebelsky

        Ma è stato -ripeto- solo un inciso, perché il quadro complessivo del Quirinale emerso dall’articolo di Zagrebelsky si conclude con la diagnosi non di “una supplenza” determinatasi alla Presidenza della Repubblica per limiti, carenze ed errori degli attori politici ma “di una vera e propria modifica tacita della Costituzione, di cui ora avvertiamo la portata e i rischi”. In particolare, il celebre costituzionalista, che all’Università chiamavano “Re Gustavo” per celebrarne il prestigio, ha contestato ai presidenti succedutisi al Quirinale prima di Mattarella “moniti sui diversi argomenti di stretta competenza politica, pressioni su decisioni che spettano al Parlamento, pretese condizionanti le formule di governo, uso di poteri fuori delle condizioni previste per il loro esercizio…interdetti e veti o sponsorizzazioni su persone invise o gradite”, sino a “creare reti di relazioni che facilmente possono trasformarsi in diffusi “giri di potere” nel governo, nelle Camere e nel sottogoverno”. “Onde si è parlato in certe circostanze, senza accorgersi dell’ossimoro, di “partiti del Presidente”, ha impietosamente aggiunto  Gustavo Zagrebelsky. Altro che i “tarli della Repubblica” -ripeto- usati nel titolo di prima pagina con cui l’articolo è stato pubblicato giovedì, procurando all’autore l’ira funesta di Giuliano Ferrara, che sul Foglio gli ha dato del “costituzionalista più trombone, pedante e loffio che ci sia”.

Pubblicato sul Dubbio

Processo di “Re Gustavo” ai presidenti della Repubblica, salvo Mattarella

Titolo di Reoubblica di ieri
Titolo del Foglio di oggi

           Diversamente dal mio amico Giuliano Ferrara, incontinente sino alla villania quando qualcosa o qualcuno non gli garba, tanto da avere liquidato fra “i tromboni”, in un titolo di prima pagina del Foglio, il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, mi ha intrigato moltissimo quel commento dedicato ieri su Repubblica ai “tarli” di cui bisognerebbe forse cominciare a curare meglio mobili, tappezzeria ed altro del Quirinale. Mi è piaciuto sin dall’approccio, decisamente contrario all’”apoteosi -ha scritto l’esimio costituzionalista- delle trattative segrete, dei calcoli di utilità di soggetti più o meno visibili, dei giochi e degli intrighi di palazzo” che hanno caratterizzato un po’ tutte le corse al Colle.

Vuoi vedere -mi son chiesto- che Re Gustavo, come il professore veniva chiamato dai suoi studenti per l’autorevolezza di cui godeva, per i modi un po’ aristrocratici con i quali si muoveva, misti tuttavia a  gesti inattesi di cordialità che si coglievano anche in Aldo Moro;  vuoi vedere, dicevo, che Re Gustavo dà un mano anche a un tapino come me, sempre lamentatosi dell’assenza di una qualsiasi disciplina delle candidature per l’elezione del presidente della Repubblica da parte delle Camere riunite in seduta congiunta con i delegati regionali come in una seduta spiritica?

Gustavo Zagrebelsky

Ma Re Gustavo- ripeto- è andato ben oltre questa mia modestissima e irriverente aspettativa. Egli ha preso di petto frontalmente, dopo più di 70 anni di storia repubblicana, la figura del capo dello Stato a lungo immaginata e condivisa da fior di costituzionalisti come un fisarmonicista. Che dà e toglie aria al suo strumento secondo le circostanze politiche, valutando le condizioni di ascolto e persino di respirazione dei partiti e dei loro gruppi parlamentari.

Il professore Zagrebelsky su Repubblica

In un crescendo di ricordi lasciati nell’anomimato, salvo che per la “fortuna” costituita dal presidente uscente, Zagrebelsky ha rimproverato ai predecessori “moniti sui più diversi argomenti di stretta competenza politica, pressioni su decisioni che spettano al Parlamento, pretese condizionanti le formule di governo, uso di poteri fuori delle condizioni previste per il loro esercizio”. Anche a costo di sembrare un Cossiga col piccone, che ai suoi tempi naturalmente egli non aveva per niente gradito, il professore ha scritto che “la lista potrebbe continuare fino a comprendere interdetti e veti o sponsorizzazioni su  persone invise o gradite. Col il che -ha spiegato- si è finito per creare reti di relazioni che facilmente possono trasformarsi in diffusi “giri di potere” nel governo, nelle Camere e nel sottogoverno. Onde si è parlato in certe circostanze, senza accorgersi dell’ossimoro, di “partiti del Presidente”. Tutto questo, in più, con la copertura offerta dalla Corte Costituzionale, la quale, per non smentire la massima carica dello Stato, ha steso un velo di silenzio sui suoi contatti “informali”, che possono contenere interventi inconfessabili e incontrollabili”.

Giorgio Napolitano e Nicola Mancino

“Su questo punto letteralmente cruciale delle nostre istituzioni -ha concluso Zagrebelsky  con allusione tanto chiara a Giorgio Napolitano che sarebbe sciocco contribuire a nascondere- si è determinata non una supplenza, ma una vera e propria “modifica tacita della Costituzione”, di cui ora avvertiamo la portata e i rischi”.   Ma che cos’è, professore, scherzi a parte, come spesso capita di dovere avvertire: un’autocandidatura all’età d’altronde ben portata di 78 anni?  Rubo stavolta la malizia a Ferrara.

Le felice stecca di Gherardo Colombo nell’ennesima celebrazione di “Mani pulite”

Titolo del Dubbio

Delle cronache sulla festa celebrata in suo onore dai colleghi di Francesco Greco arrivato all’epilogo della carriera di magistrato come capo della Procura della Repubblica di Milano, al netto dei brindisi, della solita goliardia di Antonio Di Pietro corso dalla sua campagna molisana interrompendo la raccolta delle olive, e delle  immancabili voci e allusioni sugli assenti, in questo caso dai nomi altisonanti di Pier Camillo Davigo e di Ilda Boccassini, ciò che mi ha colpito di più è l’occasione che non ha voluto lasciarsi scappare Gherardo Colombo per retrodare l’epopea di cui un po’ tutti si consideravano i fortunati superstiti.

Il magistrato Emilio Alessandrini ucciso a Milano il 24 gennaio 1979
Gherardo Colombo lo ha voluto ricordare facendone il vero eroe delle toghe ambrosiane

Più che il 17 febbraio del 1992, quando l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa fu arrestato in flagranza di tangenti, diciamo così, cercando di buttare nello scarico del bagno una parte dei soldi che Di Pietro aveva contrassegnato come corpo del reato; più che questa scena non po’ tragica e un po’ anche comica di una tangente fra le tante che sporcavano non certo dal giorno prima la politica ambrosiana, al pari di tutta quella praticata nel resto del territorio italiano, e anche oltre; Gherardo Colombo ha voluto ricordare la circostanza tutta drammatica del suo approccio col tribunale di Milano. Gli era capitato, in particolare, di prendere praticamente servizio da magistrato il 29 gennaio 1979, quando il suo collega Emilio Alessandrini, di soli quattro anni meno giovane di lui, fu ucciso in auto da un commando di terroristi di “Prima Linea” mentre si dirigeva al tribunale.

Ecco. Questa è la vera, epica storia della Procura di Milano che personalmente preferisco ricordare anch’io, riconoscendomi tutto e per intero nella parte dei magistrati, senza il cui sacrificio, senza la cui totalizzante fedeltà allo Stato temo che la democrazia non sarebbe sopravvissuta, Dell’altra epopea, invece, quella che prese il nome delle indagini “Mani pulite” contro il finanziamento illegale della politica e la corruzione spesso collegata, non sempre, come alcune sentenze avrebbero riconosciuto nella indifferenza generale, non mi sento per niente nostalgico, a dispetto dei tanti che invece la celebrano con puntualità: specie quelli che le debbono le loro fortune professionali di magistrati, politici e giornalisti.

Il suicidio di Gabriele Cagliari nel titolo della Stampa

Sono passati gli anni e non ancora riesco a dimenticare, o a ricordare senza raccapriccio, le retate previste o preannunciate da quel cronista televisivo del Biscione, non della Rai, che parlava come un invasato mentre scorreva alle sue spalle il tram proveniente o diretto al tribunale. Né riesco a ricordare senza lo stesso raccapriccio le telecamere puntualmente appostate di notte davanti al portone da cui sarebbe uscito ammanettato il tangentaro vero o presunto di turno. Né riesco a togliermi dalla testa senza fastidio la faccia di quel magistrato ancora in servizio, ora chissà alla scalata di quale postazione giudiziaria, che dopo avere interrogato in carcere il povero, ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari se andò in ferie così poco interessato, diciamo così, alla liberazione che ormai il suo imputato attendeva, da lasciarlo precipitare nella disperazione del suicidio. “Siamo stati sconfitti”, si lasciò scappare pressappoco Di Pietro senza farsi minimamente tentare con quel plurale  generoso, visto che a quel passaggio non aveva partecipato, ad un gesto riparatorio di dimissioni.

Giovanni Galloni

Non riesco neppure a dimenticare lo sgomento del povero Giovanni Galloni, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoprì di avere fra i consiglieri, regolarmente eletto dai colleghi, un giudice di “Mani pulite” che, non potendo disporre l’arresto di un indagato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica a corto di competenza, indicava a matita sul foglio il diverso reato, con relativo articolo del codice, cui doversi  richiamare per garantirsi l’assenso.

Potrei continuare a lungo con questi ricordi non risparmiando nessuno, ma proprio nessuno dei tanti magistrati morti dicendo di avere fatto allora solo il loro dovere, inchiodati  -senza avere peraltro tutti i torti in questo paradosso- alle leggi scritte e approvate dalla Camere come peggio non si potesse.  Potrei continuare, dicevo, se non me ne avesse esonerato in qualche modo prima di morire Francesco Saverio Borrelli in persona, il capo carismatico di quella Procura. Che era cosi esaltato all’inizio della sua opera rigeneratrice da chiedere all’amico giurista Giovanni Maria Flick -come Il Dubbio ha appena riprodotto- se fosse proprio necessario celebrare i processi e scrivere le sentenze di condanna dopo tante confessioni spontanee di imputati.

Francesco Saverio Borrelli

Ebbene, dopo una più lunga e proficua riflessione, ma soprattutto vedendo il mondo della politica e degli affari prodotto dall’epopea di “Mani pulite”, il povero Borrelli si chiese se fosse stato giusto davvero demolire tutto quello che era stato demolito della cosiddetta prima Repubblica, e se non fosse opportuno scusarsi con gli italiani per averli affidati in mani anora peggiori. Le scuse, per quanto lo riguardavano, furono subito accordate in un libro autobiografico da Claudio Martelli, peraltro grato del riconoscimento ricevuto da Borrelli di essere stato se non il migliore, fra i migliori ministri della Giustizia succedutisi fra prima e seconda Repubblica. Contro di lui, in effetti, diversamente da Giovanni Conso, da Alfredo Biondi, da Roberto Castelli, non apprezzato neppure come ingegnere acustico, Borrelli e i suoi emuli non si erano mai spesi in proteste e minacciosi annunci di dimissioni.

Pubblicato sul Dubbio

I brividi dei partiti alle “voci” di Draghi in fuga come Mattarella dalle loro postazioni

maria Titolo del Dubbio

Non dirò con la solita ironia -come di certi annunci falsi di morte – che è quanto meno “prematura” la voce raccolta dal Dubbio sulle dimissioni che il presidente del Consiglio Mario Draghi avrebbe intenzione di presentare al presidente della Repubblica alla fine dell’anno considerando esaurito il suo compito con l’approvazione del bilancio. Che altri con lo stesso governo o con uno nuovo potranno gestire disponendo anche di un piano della ripresa già predisposto nelle scadenze concordate con quella generosa finanziatrice che si è rivelata l’Unione Europea, dopo i disastri della pandemia.

Meno prematuro forse è “il panico” annunciato a seguito della voce della crisi coltivata, immaginata, minacciata e quant’altro dal pur solito imperturbabile Draghi. I partiti, si sa, vivono ormai tutti coi nervi a fior di pelle.

In via di scadenza ma non ancora scaduto, e quindi ben seduto alla sua scrivania quirinalista, per quanto tra la scatole in cui lui stesso magari avrà cominciato a sistemare le cose da portar via, Mattarella potrebbe pur impazientemente improvvisare un giro di consultazioni, verificare l’impraticabilità di altre formule, dopo tutte quelle sperimentate dopo le elezioni del 2018, e sostituire il presidente del Consiglio dimissionario col fidato e fedele Daniele Franco, lasciandogli anche il Ministero dell’Economia.

Così, fra l’altro, il capo dello Stato potrebbe anche consentire a Draghi di partecipare più liberamente alla cosiddetta corsa al Quirinale, di durata spesso imprevedibile, esonerando i costituzionalisti dalle dispute in cui sono già miseramente sprofondati sulle mani nelle quali  un Draghi ancora in carica a Palazzo Chigi dovrebbe dimettersi, fra un capo dello Stato in uscita e se stesso in entrata, e cose di varia altra cerimonialità: di quelle più da commedia che altro, in mancanza, per fortuna, di una salma da tragedia.

La presidente del Senato

Può darsi, però, che Mattarella si lasci prendere non dico dalla paura ma dallo scrupolo di insediare prima di andarsene un altro governo ancora. E, piuttosto che gestire la crisi ritrovatasi improvvisamente fra i piedi e li scatoloni del trasloco, anticipi con le dimissioni di qualche settimana la fine del proprio mandato. In quel caso, a meno di uno scatto di velocità della presidente del Senato in veste di capo supplente dello Stato, e quindi in grado di chiudere la crisi seduta stante ordinando a Draghi di restare al suo posto, la scena passerebbe tutta e sola ai cosiddetti “grandi elettori”. Così avvenne nel 1992, quando Francesco Cossiga corse via dal Quirinale, o poche settimane dopo quando Oscar Luigi Scalfaro, eletto al suo posto, sbrogliò la matassa della crisi a suo modo, eliminando il maggiore concorrente a Palazzo Chigi, che era Bettino Craxi, con una mezza certificazione di presunta  impraticabilità affidata ad un capo della Procura ammesso inusualmente, e a posta,  alla pratica delle consultazioni.

Il titolo di Libero

Qui mi fermo e mi arrendo con l’umiltà di un anziano cronista politico incapace alla sua età, e pur con tutto il rispetto che meritano Mattarella e Draghi, di farne protagonisti, attori, comparse e chissà cos’altro di un giallo: magari un Draghicidio come prosecuzione e vendetta del Conticidio ancora fresco di stampa, si fa per dire. E a dispetto di quel titolone di Libero su “Draghi o Berlusconi” sul Colle, ma il primo col doppio di gradimento dell’altro.

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Notizie, voci e spifferi dal fronte mobile del Quirinale

Dalla prima pagina del manifesto

Tra le notizie o gli spifferi dal Fronte del Quirinale si distinguono oggi le poche righe di prima pagina del manifesto in cui, pur riferendo in verità da Palazzo Chigi, si assicura che “nessuno sa se Draghi pensi davvero alla corsa al Colle ma quasi tutti sono convinti di sì. Di sicuro -continua lo spiffero- lo spinge il suo cerchio, sia tecnico che politico. Quanto l’ipotesi sia considerata realistica e temibile lo dimostra il fuoco di sbarramento preventivo che s è levato da un po’ di giorni”.

Titolo del Foglio

A questo fuoco di sbarramento i pur amici del Foglio – che hanno in qualche modo avviato la campagna per Draghi al Quirinale preferendo i sette anni certi del Colle ai due ancora a Palazzo Chigi, che sono poi poco più di un anno, e chissà poi-  hanno aggiunto quello in verità silenzioso di Beppe Grillo, convinto pure lui che “Draghi debba portare a termine il lavoro che sta facendo, e bene, fino al 2023”. Per fortuna la “regolarità” dei contatti di Draghi con Grillo sarebbe maggiore di quella con  Giuseppe Conte, un po’ ondivago anche in questo.

Ma è inutile cercare conferma di questi spifferi -anch’essi- sul blog personale del garante del MoVimento 5 Stelle perché vi dominano altri argomenti e timori, in una visione peraltro ironicamente fiduciosa  come quella  della vignetta in cui il “papino” tranquillizza il figliolo preoccupato della casa allagata. L’acqua è ancora bassa  potendosi vedere ancora un po’ di televisore, un quadro appeso a una parete. Ma soprattutto si respira ancora senza l’attrezzatura del sommozzatore.

La vignetta del blog di Beppe Grillo
Titolo del Giornale
Berlusconi al Giornale

Tracce invece della preoccupazione che Draghi per imprudenza sua o di qualche cattivo consigliere si lasci distrarre dal prezioso lavoro di governo si trovano, laconiche e forti, in un’intervista di Silvio Berlusconi al direttore del Giornale di famiglia raccolta dal direttore in persona Augusto Minzolini. Al quale, desideroso giustamente di sapere, dopo le tante e solite note stonate che escono dall’orchestra del centrodestra, se sia “ancora convinto, che la politica debba garantire le condizioni affinchè il governo Draghi prosegua fino alla scadenza naturale della legislatura del 2023”. Berlusconi ha risposto: “Sempre di più”. Neppure Tacito sarebbe stato così preciso e breve.

L’unica divagazione che si è permessa l’ex presidente del Consiglio è sulla materia già altre volte trattata da Minzolini di una sua candidatura, pur non evocata esplicitamente, più sottintesa che emersa, come di qualcosa di terapeutico, funzionale ad una pacificazione nazionale dopo gli anni di guerre d’ogni tipo nella cosiddetta seconda Repubblica.

Berlusconi al Giornale

In pratica, pur fingendo di non parlare direttamente di sé e tanto meno degli avversari che  hanno già mobilitato contro una sua candidatura tutto il materiale giudiziario e paragiudiziario possibile, facendone un mezzo latitante a piede libero e luccicante, Berlusconi è paragonato al presidente uscente della Repubblica e ai predecessori Einaudi, Saragat e Pertini, sapientemente selezionati come personalità liberatesi della loro appartenenza politica con l’elezione a capo dello Stato: diversamente da quanto accaduto -si dovrebbe intendere, salvo equivoci, da Enrico De Nicola, Giovanni Gronchi, Giovanni Leone, Francesco Cossiga, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano.   Sei sospetti, a dir poco, contro quattro insospettabili nella galleria quirinalizia dell’ex presidente del Consiglio.

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